Ashley Paul
Line The Clouds

se qualcuno sostiene (e crede) che l’uomo è stato creato dal fango (e la donna da una costola di lui!?!) per merito dell’arte illusoria di un notevole prestidigitatore non occorrerà grande sforzo a pensare ad una sinfonia (una sinfonietta?) in forma di oratorio creata con le briciole di quella che potrebbe essere un’orchestra. una chitarra, corde preparate, un clarinetto, flauto, qualche campanella, un sassofono ed una voce neppure troppo educata (limitandoci all’ambito canoro) sono una manciata necessaria e bastante per pensare a qualcosa di più grande, di più organico e intransigentemente lirico.

Ashley Paul ci riprova e non smette di pensare le pareti della sua cameretta di Brooklyn assai più ampie e possibili di quanto non sembrino e la sua discografia prepara il terreno a questo nuovo lavoro dalle apparenze mature e concrete. chi ha l’abituale bontà di leggere queste righe conosce la mia avversione a paragoni fra artisti o ad etichette comode: nel caso di questo nuovo disco di Ashley Paul l’esercizio risulterebbe persino difficile. ma cominciamo dai dati tecnici: Line The Clouds esce in questo 2013 per l’etichetta americana Rel Records in formato download o in vinile: 12 brani (canzoni? atti?) che vedono Anthony Coleman e Eli Keszler affiancare la minuta Ashley Paul nell’esecuzione e nella messa in scena di questa magra e fragile rappresentazione cameristica di un sogno assai più visionario.

le dinamiche del rock scheletrizzate e liofilizzate, il songwriting americano lontano all’orizzonte, frammenti di noise (senza far troppo rumore), agguati dodecafonici e delicate cacofonie sono i primi sapori che giungono all’udito. la voce di Ashley Paul è fragile e sull’orlo di spezzarsi (ed in effetti più di una volta claudica) ad accompagnare, rallentantole, alcune ballate che verrebbe da pensare folk; in realtà allargando lo sguardo pare di scorgere quell’organicità più congrua ad un’opera lirica, un oratorio urbano che guarda ad un panorama agreste affacciandosi dalle finestre di Brooklyn. le melodie sfuggono e si insabbiano e sono necessari tanti sforzi, quanti quelli che il disco mette in campo per sfuggire, per entrare dentro questa piccola opera tascabile.
non negherò che vi siano nelle composizioni della Paul introspezione, brandelli di oscurità e bradicardia contagiosa, ma io ci sento anche tanta luce e l’iridescente bellezza che emana l’intimità rivelata: un piccolo assaggio lo si può carpire dal video esclusivo di Sail realizzato da Francesco De Gallo per il sito di Wire.
la fanciulla frequenta “cattive” compagnie che portano il nome di Roscoe Mitchell, Loren Connors, Joe Maneri, Phill Niblock e Joe Morris, ma una volta giunta nella silenziosa fragranza della sua cella monocale (sempre a Brooklyn) riscopre la purezza della composizione e l’ascesi mistica di un suono intimo di cui ci rende (per fortuna) partecipi.
più che un altro disco, un disco altro rispetto al troppo idoneo che odo intorno.
buon ascolto

Questa voce è stata pubblicata in 2013. Contrassegna il permalink.

3 risposte a Ashley Paul
Line The Clouds

  1. elisa scrive:

    piaciuto molto, grazie della segnalazione.

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