Various Artists
Parchman Farm: Photographs and Field Recordings
1947-1959

il Tempo (con la maiuscola) della Dust-o-Digital non coincide affatto con quello che siamo abituati a vivere e concepire: è sfuggente, errante, capovolto, contro-verso, e si muove per differenti unità di misura, variabili e adattabili a piacimento.
del resto, per chi si è dato come ragione sociale quella di trasportare un patrimonio immenso dalla polvere che avvolge gli albori dell’industria discografica agli spazi algidi e digitali di un futuro insondabile, l’idea del nostro tempo è pressoché indifferente. viene scavalcato a prescindere, scartato e sorpassato: con la calma urgente e la fretta rallentata che siffatte operazioni richiedono.
Lance e April Ledbetter (anime dell’etichetta) portano senza eroismo la responsabilità di questa missione che sta iniziando ad assumere la statura dell’impresa (il catalogo è forgiato sul concetto di imprescindibile): l’ultima pubblicazione in ordine di tempo (il loro) è la raccolta integrale delle registrazioni che Alan Lomax effettuò nel penitenziario statale del Mississippi (noto come Parchman Farm) nel 1947/1948 e poi successivamente nel 1959.

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penitenziario che ospitava (ed ancora ospita) una percentuale di afroamericani prossima al cento, tutti “impiegati” nel taglio della legna, nello sfalcio e nella pulizia della vegetazione e nella raccolta del cotone per conto dello stato (oggi non saprei davvero con quali diletti si trastullino i costretti che vi sono internati).

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lavoratori forzati all’utilità sociale che accompagnavano i ritmi delle mansioni e della giornata con i celeberrimi holler (field holler) uditi in alcune registrazioni discografiche (quelle di Lomax non erano inedite) e (spesso) stereotipati in film che hanno creato quell’iconografia sonora dell’uomo di colore intento al canto mentre si spacca la schiena su pietre, legna o cotone.

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il canto come redenzione, sollievo, preghiera, benzina e transumanazione. il canto corale determinato dalle logiche del call and response come sentimento comune, aggregazione, condivisione e baluardo contro le derive della solitudine. le metriche ed i ritmi percussivi del lavoro a fare da illusoria scala per la quale evadere con lo spirito imprendibile.

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siamo nel 1947, il jazz è già un monumento di appartenenza ed il be bop sta iniziando ad impazzare la fuori (a loro insaputa), il blues è l’alfabeto sul quale questi prigionieri hanno imparato a bofonchiare parole ed accordi, il gospel è il soul train per allontanarsi dalle angherie della condizione di afroamericani nel sud ancora profondamente razzista. questi gli unici strumenti per raccontare della propria anima e della propria storia a fratelli costretti nella stessa condizione.

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il soul ed il funk sono bel lontani a venire ma non credo sia difficile intuirne i prodromi nelle cadenze del canto, negli intervalli e negli impasti vocali. la natura della grande anima afroamericana è qui lasciata a soffrire (non che fuori andasse meglio), ad essicare al sole e scorticarsi al lavoro, sudare nella polvere e a ringhiare in cattività. pare di sentire in questi canti (ed in questi blues) l’essenza scarnificata di questa anima, la sua manifestizione essenziale ed epifanica dalla quale tante altre espressioni hanno attinto nella consapevolezza che questa, profonda e silente, è la voce degli antenati strappati alla madre Africa.

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non è già più l’anello mancante che ricongiunge la tradizione africana con le manifestazioni che si svilupperanno nel continente americano: quello è il Sacro Graal di molti etnomusicologi, ma è sperduto come una goccia d’inchiostro in un secchio di latte.
non è il segreto rivelato ma è la prova della caparbia convinzione di Alan Lomax che riteneva che non si potesse prescindere da questi canti per comprendere la storia della musica afroamericana.

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una prima visita nel 1947-48 con un registratore a bobina al seguito e una macchina fotografica: è il primo dei due dischi dove sono raccolti perlopiù i canti del lavoro raccolti sul campo (sic!). ci sono molti hollers, alcuni traditional e qualche brano che è divenuto (suo malgrado) uno standard: John Henry e quella Rosie che qualcuno ricorderà nella versione che ne fece Nina Simone (Be My Husband).

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il secondo disco (in cui rientrano le registrazioni del 1959 e gli inediti mai ancora pubblicati) prevedono anche l’ascolto di qualche chitarra o un’armonica concessa dietro alle sbarre, e quindi qualche blues rudimentale ed alcuni canti/intervista registrati fra le mura della prigione. la seconda visita rubò anche qualche filmato carpito da una camera di fortuna e le molte fotografie (77, di cui alcune qui riprodotte) che ritraggono i volti di questi involontari protagonisti di uno dei dischi imprescindibili della grande storia afroamericana.

imperdibile, come si è già detto. buon ascolto.

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