Vijay Iyer with Prasanna & Nitin Mitta Tirtha

questa volta Vijay Iver ha scavalcato reticenze e convenzioni ed è andato direttamente dove voleva arrivare (musicalmente) tenendo il timone dritto verso quell’India dalla quale le sue generazioni parentali partirono per raggiungere gli Stati Uniti. aveva confessato in qualche intervista di avere nel cassetto questo progetto che lo avrebbe riportato sulla rotta rovesciata verso quel patrimonio musicale nel quale, fra gli altri, è cresciuto. in realtà la cronologia delle sue registrazioni per la tedesca Act vedrebbe questo lavoro precedere gli altri due (meravigliosi): Historicity (2009) e Solo (2010). essendo stato registrato negli studi di New York nel 2008 in occasione (e per commisione) dei 60 anni dell’indipendenza indiana questo lavoro dev’esser giaciuto in qualche hard disk prima di raggiungere quella pubblicazione che, forse, è stata pure favorita dal grande riscontro dei due dischi che l’hanno succeduto.

Tirtha in sanscrito rappresenta la possibilità di un facile passaggio attraverso un corso d’acqua, e per aiutare questo percorso Vijay Iyer ha chiamato accanto a sé  due musicisti indiani che gravitano nell’area americana: Prasanna alla chitarra e Nitin Mitta alle tabla. tenendo la tradizione carnatica come dottrina e riferimento i tre hanno però cercato di portare il loro interplay verso l’approdo moderno attraverso le loro esperienze nel mondo jazzistico e di ricerca.
la miscela dei tre strumenti appare inizialmente ruvida, agra e, in qualche istante pure ostica, frutto di una scelta coraggiosa e di una visione altra di una musica che possiede regole e sonorità millenarie che i tre vogliono traghettare verso un suono più prossimo a noi. i tre hanno da subito escluso la possibilità di creare una fusion fra jazz e musica indiana preferendo lasciar parlare le loro tre individualità con esperienze assai diverse ed un retroterra immenso e condiviso che ciascuno si portava dentro.

hanno alla fine convenuto che il loro dialogo ha trovato strade inconsuete e, per certi versi, inaudite. certamente ostiche, come si diceva, ma abbastanza oneste da emergere cautamente e consentire di sorpassare quel passaggio che si erano prefissati.
non è mia abitudine sfoderare etichette per cercare di raccontarmi le musiche che ascolto e pure stavolta non contravverrò al buon proposito: forse è questa la buona predisposizione d’orecchio (e d’animo) per accogliere questa musica inizialmente spiazzante e controversa ma che giunge laddove pochi erano giunti. forse questi sono i crismi della modernità? ogni parere è gradito e, come si diceva una volta, è aperto il dibattito.
nel frattempo buon ascolto.

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14 risposte a Vijay Iyer with Prasanna & Nitin Mitta Tirtha

  1. francesco scrive:

    l’ho ascoltato l’anno scorso, eravamo una trentina di persone, bravissimo, ho preso Historicity e gli ho chiesto la dedica, stupito che qualcuno lo conoscesse e avesse il disco, a Cagliari.

    bello il tuo blog, ci ripasserò di sicuro, ciao

    • borguez scrive:

      a me sfuggì quando passò l’anno scorso e per questo t’invidio un poco. in più se l’atmosfera era occupata solo da trenta persone l’invidia cresce ancora.
      mi farebbe piacere una tua opinione su questo disco e, in ogni caso, benvenuto e a presto

  2. Paolo scrive:

    Anch’io l’ho ascoltato l’anno scorso a Pescara, presentato dal mitico Stefano Zenni (che due settimane prima del concerto introdusse la musica di Iyer in una affollata conferenza in una piccola libreria del centro). Era in trio con Stephan crump al basso e Marcus Gilmore alla batteria. Che dire? Strepitosi. Siccome “Historicity” l’avevo già, mi son fatto lasciare la dedica su “Reimagining” in cui suona anche l’altro grande indiano Rudresh Mahanthappa al sax. Ascolto “Tirtha” già da una decina di giorni e mi piace veramente tanto, un’esperienza consigliatissima, senz’altro.

    • borguez scrive:

      vedo che il dibattito (inaspettatamente) prende avvio. annoto l’apprezzamento per il disco e aggiungo la mia invidia per tutte queste date sfuggitemi.

      Stefano Zenni è il cicerone che bisognerebbe spesso avere al proprio fianco in certi contesti. un plauso pure a lui.

  3. G. scrive:

    Entro a gamba tesa in questa discussione.
    Ma Vijay Iyer è o non è veramente quel “nuovo” che si aspettava da tempo?
    La sua forma pianistica è senza dubbio riconoscibile e americana ( ostinati e accordi reiterati all’infinito ne sono la prova ) ma chi è la sua fonte d’ispirazione? Non esiste un pianista anche italiano che non sappia fare di meglio?
    Tutte le riviste specializzate sono con lui,io no.

    Manca sempre qualcosa e tutto è maledettamente accattivante e “facilotto” nella sua lettura.Troppi lirismi seminati quà e là…e poi borguez,ma dove sono queste asprezze?

    Il dibattito è aperto.

    • borguez scrive:

      le gambe tese nell’agonismo corretto di un dibattito sono gradite.
      io non appartengo alla schiera di coloro che attendono il “nuovo” e, per questo, non lo saprei (forse) neppure riconoscere. d’accordo con te che il suo pianismo sia riconoscibile, ma la sua voce (la sua cifra?) stanno assumendo carattere e riconoscibilità. certo che la stampa specializzata gli sta dando una mano e, del resto, perché non dovrebbe.
      le sue fonti d’ispirazione mi sono sconosciute ma conosco alcuni suoi progetti trasversali (mi si passi il termine) che determinano arguzia e carattere del personaggio: non ultimo il disco sopra citato.

      venendo al belpaese: che dire? esistono eccome pianisti valenti e gloriosi, ma non siamo qui di fronte ad uno scontro fra nazionali calcistiche (per tornare alle gambe tese), non è esattamente questo che mi interessa al momento.

      se hai trovato il tutto “facilotto” rispetto assai la tua opinione e ti preciso che le asprezze a cui facevo riferimento avevano a che fare con l’impasto timbrico dei tre strumenti, intreccio che crea quell’ambiente spurio che si discosta in egual misura dal jazz e dalla musica indiana collocandosi in un bell’altrove.
      grazie per aver animato il dibattito, davvero.

  4. G. scrive:

    Borguez,diciamoci la verità.
    Escono troppi dischi ( “sai che novità”..dirai tu ) che nessuno ascolta più con la dovuta attenzione.Due tracce e via,,,avanti il prossimo. Non ci si cura più di sapere chi suona con e quali strumenti vengono utilizzati.Si confonde una marimba con uno xilofono,una chitarra preparata con un basso elettrificato.Gli stessi musicisti fanno uscire i loro solipsismi musicali spacciandoli con l’etichetta : urgente e necessario.
    Provo a trarre una conclusione da tutte queste scatole cinesi : riviste,blog,file di condivisione ecc,ecc.
    Se non si conosce il disco x dell’artista y,non si è risolta l’equazione.,poco importa se dell’artista y si ha già una dozzina di dischi.Bisogna averlo se no non si è capito nulla.
    Di conseguenza ogni artista con relativi progetti paralleli esce con 5 o 6 dischi all’anno,se siamo fortunati.Troppi e molti dei quali non propriamente urgenti e necessari.

    Ah si ,Vijai, il nostro filo rosso…
    La Act ha capito tutto questo e se ne esce nel 2011 con un disco registrato nel 2008 tenuto come dici tu in qualche hard disk con il classico bollino giallo : buona la prima,nessun missaggio particolare,fare uscire solo se ci sono riscontri evidenti e promuoverlo senza sbattersi più di tanto.

    Tirtha sembra un disco di 30 anni fa..perchè fa parte di quella fusion furbetta che strizza l’occhio all’ascoltatore radical chic senza pretese.
    A Vijay Iyer auguro tanta gloria simile a quella di Kate Jarret,tanti dischi ECM e tanti teatri.

    Mi piace “discutere” con le persone che stimo,sia chiaro 🙂

    Ciao.

    • borguez scrive:

      la verità l’hai detta ed io la sottoscrivo: escono troppi dischi!
      a questo punto si tratterebbe di capire quale accezione ha questa novella portataci dalla rete: positiva? negativa? ho già detto altrove che non mi raccapezzo e non saprei prendere una di queste due bandiere e portarla in alto sul pennone.
      quello che mi (ti) dico è: con chi me la debbo prendere? cosa posso fare?
      smetto di ascoltare musica? faccio l’embargo?
      la questione è così scottante e presente che non riesco ad abbracciarla appieno e, per oggi, non riesco a far di meglio che rimandare ancora un poco sperando di capire meglio più avanti.

      tornando al disco qui sopra…
      l’inaudito in musica è un bell’ossimoro e tutto (ogni musica) pare ricondurre altrove, credo faccio parte della storia civile dell’uomo ancor prima di quella della musica. siamo scimmie succedute ad altre scimmie, dai nostri predecessori abbiamo carpito il segreto per spaccare le noci di cocco e lo abbiamo imitato e, nel migliore dei casi, perfezionato e variato.
      è vero che questo disco suona un poco anziano (30 anni dici tu) ma io ravvedo anche soluzioni contemporanee che lo tengono in bilico fra storia e presente: succede costantemente in questa miriade di dischi che invadono i padiglioni auricolari.
      qualcuno dice che in musica non s’inventa più nulla, altri si sono fermati in un tempo gradito della storia della musica e da lì non si sono più mossi, altri se ne fottono bovinamente.
      io sono ancora curioso come la scimmia che non è ancora riuscita ad aprire la noce di cocco e continuo a cercare spiando ed ascoltando chi, forse, ha qualcosa da insegnarmi. queste discussioni (dibattiti si era detto) servono anche a questo.
      per questo ti chiedo se hai noci di cocco meravigliose da suggerirmi, tecniche sopraffine che mi possano insegnare qualcosa nel mio progresso di uomo auscultatore e primato intontito. le accetto volentieri.
      e grazie per gli stimoli…

      p.s. e del Benoît Delbecq Trio qui a fianco che mi dici?

  5. umberto scrive:

    scusata, mi basta dire che questo disco è bello.

  6. francesco scrive:

    l’ho ascoltato, è un disco diverso, molto, da “Historicity”, magari può essere, o sembrare, un po’ “vecchio”, ma mi piace, mi sembra un disco con una personalità e comunque ricco di musica.
    non sono un grande esperto o intenditore di jazz, ma mi piace.

  7. G. scrive:

    Iyer essendo un “Romanticone” predilige gli svolazzi e gli abbellimenti mentre Delbecq
    è più minimale e vicino a certa contemporanea tout court.
    Ma dove sta esattamente la differenza tra Iyer e Delbecq?
    In “Plastic Blag” di Iyer con Mike Ladd ( in what language? ) e in “Piano Page” di Benoît Delbecq Trio ( The Sixth Jump ).
    Fai un confronto all’americana e capirai cosa intendo.

    No stai tranquillo,non ho nessun cocco da segnalarti.
    Ho smesso di ravanare tra le palme da quando Olivier Messiaen ci ha lasciato.
    Da quel giorno sulla sabbia sono rimasti solo dei gusci vuoti che qualcuno cerca di riciclare come portacenere.

    Cosa ne penso di Benoît Delbecq?

    Penso bene.

    • borguez scrive:

      la stessa ammissione di una mancanza (Olvier Messiaen) rappresenta per chi legge una qualsivoglia forma di scelta (di noce di cocco?): e a me già basta!
      mi sono messo a fare quel confronto da te proposto ma da questa parte della giuria vi sono giurati corrotti (io medesimo): quel disco è fra i miei favoriti del giovinastro indoamericano, ed è forse il principio di una passione che me lo fa seguire con più attenzione di altri suoi colleghi.
      quindi non saprei “cosa intendi” esattamente, ma propenderei pur sempre per Mike Ladd che declama ciondolante.

      ti ringrazio per aver animato queste pagine, non so se siamo giunti a qualche conclusione attendibile ma è un piacere (ascoltare e) provarci.
      a presto

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