Credo sia ancora bello attendere dischi, attenderne l’uscita, la pubblicazione, la rivelazione. In un tempo in cui il music business parcellizza e riduce (divide ed impera), mentre le nostre soglie d’attenzione sono assediate ed oberate da impulsi pressoché inutili, un disco atteso è un’isola di salvezza in cui preparare la resistenza contro un nemico invincibile. E un disco da attendere io l’avevo, e sono lieto che sia giunto!
Sì, perché quando nel 2017 giunse il debutto come leader della trombettista Jaimie Branch non pochi si accorsero di una nuova voce impellente che si palesava maldestra nell’universo del jazz contemporaneo. Fly or Die (International Anthem, 2017) giungeva nel luogo giusto al momento giusto: Chicago è stata e continua ad essere una città fondamentale per la storia del jazz e delle avanguardie che hanno innervato di nuova linfa questa musica, e, proprio a Chicago nel 2014, viene fondata l’etichetta International Anthem che accoglie a braccia aperte la musicista condividendo (anche) con lei l’intento di “cambiare e ridefinire lo stato del music business e superare i confini di genere per creare un suono per un pubblico non compromesso”.
Jaimie Branch nasce a Brooklyn nel 1983, inizia a suonare la tromba ad 8 anni e a 14 si trasferisce con la famiglia nei sobborghi di Chicago. Si diploma al conservatorio nel 2005 ed inizia una carriera come musicista, produttrice, organizzatrice ed ingegnere del suono, nonché barista e cameriera, nella fervida e ribollente scena cittadina. Nel 2012 si sposta a Baltimora per ottenere un master universitario nella performance jazz, fonda un’etichetta e divide la sua arte fra jazz, hip-hop e impellenze punk-rock. Ritorna a NY ed inizia a dividere il palco con molti musicisti coetanei della scena avant jazz. Per sbarcare il lunario continua a lavorare in un café, a non trascurare i vizi e a non preoccuparsi di avere una fedina penale legalmente immacolata.
Poi avviene lo scarto che sposta gli equilibri e illumina la strada: immediatamente dopo la pubblicazione del suo primo disco come solista Jaimie Branch decide di pensarsi definitivamente musicista e di farlo 24/7 (Once you’re able to throw yourself fully into your art, it really takes a different shape! parole sue). Inizia un lungo tour promozionale per presentare il disco assieme a Lester St. Louis al violoncello (che prende il posto di Tomeka Reid, presente nel disco ma rapita da impegni come band leader e dal prestigioso coinvolgimento nell’Art Ensemble of Chicago), Jason Ajemian al contrabbasso e l’immenso Chad Taylor alla batteria. Le date si susseguono, la cassa di risonanza rimbomba assieme al passaparola che aggiunge ascoltatori e fans ai loro live, l’interplay fra i musicisti fiorisce e sboccia rigoglioso e la forzata convivenza in tour consolida, nei migliori casi, il sodalizio fra affinità umane e musicali. E così la band si trova a Londra sul calare dell’estate 2018 e decide di soggiornarvi per l’inizio dell’autunno per entrare in uno studio di registrazione e fotografare ed imprimere su disco lo stato di grazia della band. Vengono registrati nuovi brani, estrapolati momenti live da un paio di date al Café Oto ed è già ora di tornare a Chicago dove il disco viene editato, aggiungendo alcuni overdubs (alla maniera del compagno di etichetta Makaya McCraven), mixato e definitivamente masterizzato. La testimonianza più vivida di questo concepimento è il breve filmato promozionale realizzato da Ben Holman.
Nasce così FLY or DIE II: bird dogs of paradise (International Anthem, 2019) che dal primo disco ruba e aggiunge un titolo/sottotitolo intrigante, ma che tiene ben stretta quella alternativa indispensabile fra volare o morire che è sempre meglio farsela spiegare da lei piuttosto che da un economista. Chi siano i cani uccello (o gli uccelli cane) non è ben chiaro ma non riesco a scrollarmi di mente un parallelo con i cani della pioggia di Tom Waits, magari proprio gli stessi cani ma stavolta trasportati in un paradiso terreno e dotati di ali per volare. Un giorno forse ci apparirà lampante quell’incessante nesso fra ornitologia e jazz: per ora ho soltanto supposizioni vaghe e un bel po’ di dischi che mi tengo stretto, e sempre sia lodato Bird!
Quello che è lampante è che il disco è stato pensato come una suite, non proprio un concept album ma piuttosto un disco con un concetto ben chiaro: fuck your technique, sound first! E così sia! Ma c’è di più, c’è che Jaimie Branch aggiunge la sua voce a quella della sua tromba e a volte è persino difficile distinguerle. I brani si susseguono e si compenetrano lungo 45 minuti compatti, dolenti, gioiosi, incazzati e liberatori. Preludio, ballata, blues, cancion, funk, punk, spoken word, politica, interludio, urgenza, Mingus e Cherry e poi il gospel, brass band e marchin’ band, latin sound e poi urgenza, alcool e ancora urgenza. Tutto dentro, tutto indispensabile e tutto necessario come recita il dilemma che non lascia scampo: Fly or Die.
Si comincia dal mantra organico di Birds of Paradise con la mbira di Chad Taylor che imbambola e rapisce, la tromba si attorciglia in un suono algido e caldo e gli archi punteggiano e garriscono. Un preludio al blues dolente e calante di Prayer for Amerikkka pt 1 & 2 in cui giunge a tradimento la voce di Jaimie Branch punteggiata dai latrati gospel e spoken di Ben LaMar Gay e Marvin Tate: è l’invettiva contro l’America di Trump e la preghiera laica per una qualsivoglia redenzione, e non appena finisce l’omelia Chad Taylor raddoppia il tempo e arriva improvvisa dal confine messicano la chitarra di Matt Schneider a caracollare un tempo latino; ecco che la tromba si fa gitana a trasformare questa preghiera in una cancion che racconta di migrazione con tutta la rabbia strozzata nella gola e nella melodia ranchera della Branch, qualcuno li chiama instant classic!
Appena il tempo per un passaggio della suite con il violoncello di Lester St. Louis che tratteggia Lesterlude (che bel titolo!) ed ecco giungere twenty-three n me, jupiter redux che pare puro punk travestito da camera, con la testa che ondeggia in avanti al ritmo picchiato da Chad Taylor e l’elettronica che stride in sottofondo, il basso indugia e dubita e la tromba urla e si aggroviglia finché tutto non si perde in un sogno di ninnoli che cinguettano, ed è a questo punto che violoncello e contrabbasso, elasticizzati, intonano l’interludio bluesy di Whales. Giusto in tempo per far partire la marcetta infantile di simple silver surfer che se ne va spensierata trascinata dalla melodia appiccicosa della tromba, vien quasi da fischiettare al ritmo percussivo di Taylor che accarezza lo xilofono con Ajemian e St. Louis che gigioneggiano come degli Aristogatti sornioni. Disney, Walt intendo, non se la sarebbe fatta scappare.
È tempo di capire chi siano questi bird dogs of paradise: una suite da camera sospesa si protrae e tergiversa sulla risposta, l’attesa si fa attendere finché i tamburi ed i piatti di Taylor non introducono un overdubbing carpito live con latrati e ululati che molto hanno del cane e poco del volatile; è un prendere tempo o forse solo un ponte verso nuevo roquero estéreo che giunge con incedere latino (nelle vene di Jaimie Branch scorre sangue colombiano per discendenza materna) martellato da basso, violoncello e batteria. È qui che la tromba spicca il volo (ornitologicamente) in un solo che avrebbe fatto la gioia del Don Cherry più gaudente. E poi la stessa si sdoppia in una magia da mixer, il synth sporca la tela e Chad Taylor pare posseduto in un ritmo che farà esplodere le esibizioni live; è il preludio per il gran finale rappresentato da una love song scritta dalla Branch in gioventù e tenuta a decantare per un tempo equo dentro qualche cassetto. Una torch song anticonvenzionale dedicata a tutti gli assholes e ai clowns là fuori: lei inizia ad intonarla confidenziale e sorniona, quasi svogliata, punteggiandola con un miagolìo di tromba. Poi, a forza di ripetersi l’idea e a ripensare alla propria biografia, le sale una vaga incazzatura e il cantato si fa punk, straziante, ma forse è meglio non prendersi troppo sul serio e tornare a sussurrarla fino allo sfinimento mentre gli archi e la tromba garriscono fino ad esaurimento concetto. Ma resta il fatto che this one goes out to all those assholes and all those clowns out there. You know who you are!, e che gli instant classic, a questo punto, son due!
FLY or DIE II: bird dogs of paradise è un disco urgente e necessario come lo è rispondere (e rispondersi) al più presto alla domanda ribadita nel titolo. Attenderlo non è stato vano e nell’attesa non c’è stato inganno perché questo è per certo uno degli ascolti più appaganti di quest’anno, una voce definitivamente riconoscibile ed un approccio al jazz sgarbato e dolcissimo, dolente e sanguigno come la vita che Jaimie Branch rimescola dentro la sua musica fino a confondere arte e biografia, aspirazione di molti, prerogativa di pochi.
Applausi, sipario e buon ascolto.
Jaimie Branch FLY or DIE II: bird dogs of paradise
Amen, caro Borguez, condivido pienamente la tua bellissima analisi. Trovo che la International Anthem sia una tra le più interessanti etichette nell’attuale panorama musicale. Non sbagliano un colpo, e anche questo ultimo lavoro di Jaimie Branch troverà posto nella mia collezione di vinili accanto a Makaya McCraven, Jeff Parker, Emma-Jean Thackray e gli altri della scuderia. Ti ringrazio come sempre per il tuo prezioso lavoro di divulgazione, e per la possibilità che offri di ascoltare in anteprima una grande quantità di musica di qualità.
Cheers
G/LF
Anch’io caro Borg sono oberato da dischi da ascoltare, radio online da sentire e podcast in sospeso. Finalmente una cara e vecchia recensione che descrive un disco magnifico. Hai buon gusto ed un’ottima penna. Scrivi più spesso, per favore, te ne saremo grati.
A presto
M
(Il parallelo can Rain Dogs ci sta tutto.)