Rod Hamilton
Atitlán

il meriggio canicolare porta, da sempre, acume di percezioni e ottundimento, sonnolenza e beata solitudine: è uno spazio idoneo per suoni immaginifici, onirici, per innocue allucinazioni e divagazioni esotiche. quando la buona sorte sospinta dalla curiosità ci fa giungere ad incontrare sonorità apparentemente pensate all’uopo per quell’ora pomeridiana si compie una di quelle piccole epifanie che appiccicano ancor di più la musica all’esistenza (la nostra), spingendola più a fondo e un poco oltre la percezione cosciente.
sono giunto a Rod Hamilton attraverso uno di quei percorsi sghembi che si fanno in rete, fra rimandi, sponde, suggestioni e parole che si credono fidate: posso confessare di non saper nulla di lui oltre al fatto che proviene da Baltimora e che conta nella sua discografia due episodi: Teal del novembre 2012 e questo Atitlán pubblicato all’inizio di luglio 2013. entrambi pubblicati da per sé, entrambi resi disponibili con la politica sociale del name your price, entrambi avvolti da una coltre di piacevole silenzio e mistero.

di Rod Hamilton neppure una foto, un segno di identità o di riconoscimento: qualche fortunato potrà vederlo dal vivo negli Stati Uniti in alcune date annotate di spalla al suo bandcamp. abbiamo appena una copertina boreale e la consapevolezza che il titolo dell’ultimo lavoro fa riferimento al lago e al vulcano Atitlán collocato nelle alture del Guatemela: a quanto pare Rod Hamilton si è arrampicato fin lassù e dopo una permanenza necessaria a distillarne il suono che percepiva dal paesaggio circostante se ne è uscito con questo disco.

un disco fatto di percussioni stratificate, sovrapposte, reiterate. un disco organico di ambientalismo dell’ascolto, ecologico e biodegradabile all’uso. marimbe, legnetti, campanelle, xilofoni ed elettronica quanto basta per amalgamare il tutto: non una parola, non un field recording, nulla di più che percussioni. non ingannino le molteplici tracce sovrapposte: non di poliritmìa africana si sta parlando quanto piuttosto di una specie di gamelan subacqueo un poco ottuso, imbambolato e primordiale. assai poco concesso all’armonia ma molto dello sforzo compositivo a definire la cifra materica delle composizioni, la loro natura fisica di suggestione ed intreccio.
piuttosto che sperticarmi a raccontare preferisco consigliare l’ascolto magari in quel tempo della giornata che i napoletani chiamano controra: un momento in cui la sonnolenza, qualche allucinazione e qualche residuo di thc sclerotizzato dal tempo nelle arterie possono incontrare degnamente questi suoni storditi e suggestivi. e se dovesse sopraggiungere il sonno auguro almeno di sognare il Guatemala ed i fiori della copertina, fiori del Guatemala (ma questa è già un’altra storia).
buon ascolto

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