mia figlia si sta incuriosendo nel mescolare i colori per scoprire cosa possa saltar fuori pastrocchiando quello con questo, lo fa scarabocchiando e schiacciando tubetti di tempera: risultati spesso mirabolanti in cui si esercita pure a livello teorico interrogandomi su cosa succederebbe a miscelare una tinta con un’altra. non sempre ho la risposta pronta e forse non le interessa neppure troppo: è l’esercizio immaginifico e mirabolante che l’appassiona, come del resto a me ha sempre appassionato mescolare i suoni delle lettere in una specie di fantafonetica per ascoltare che suono farebbe l’incestuoso connubio di due vocali. esercizi futili (sono pur sempre i miei favoriti) che ho associato all’ascolto di un disco che mi è capitato fra le orecchie e che si vanta di essere il primo eseguito su di di un revolutionary acoustic musical instrument! di cosa stiamo parlando?
Geoffrey Smith è un musicista di Brighton (classe 1961) considerato uno dei più virtuosi suonatori di hammered dulcimer: la sua esigenza di trovare nuove intonazioni per il suo strumento lo ha portato a costruirne di sua sponte per ottenere un’intonazione fluida (fluid tuning), ossia un modo per ottenere suoni microtonali che esulassero dal sistema temperato. un’idea tira l’altra ed ecco che il nostro, trovando appunto rivoluzionaria la sua intuizione, decide di applicarla allo strumento principe della musica occidentale: il pianoforte!
un lavoro lungo che ha coinvolto liutai e teorici, iniziato più di dieci anni fa è giunto di recente alla realizzazione di quello che da ora in avanti verrà battezzato The Fluid Piano. senza entrare specificatamente nei dettagli tecnici, si tratta di un pianoforte che ha la possibilità di intonare la nota suonata (percossa dal martelletto) a piacimento, spaziando in quell’ambito tonale che separa i gradi della nostro temperamento equabile. dico nostro perché è arcinoto che ad altre latitudini esistono scale ed intervalli diversi e forse proprio qui risiede la portata internazionalista dell’intuizione teorica di Geoffrey Smith: un uovo di Colombo che in un sol colpo ricongiunge la diaspora sonora delle molteplici tradizioni musicali sparse per il globo. orizzonte amplificato e allo stesso tempo limite di un’operazione teorica slegata dalle implicazioni storiche e culturali che quelle stesse tradizioni hanno creato.
inventate le ali ora si tratterebbe di trovare qualcuno in grado di volare! e qualcuno in effetti si è fatto avanti: Utsav Lal è un giovane e talentuoso pianista indiano che da par suo stava intraprendendo un percorso associabile a quello di Smith, ossia sta tentando di introdurre il pianoforte all’interno di quel santuario che è la musica classica indostana. i due si sono incontrati, annusati e hanno scoperto a vicenda che erano fatti l’uno per l’altro.
nasce così The Fluid Piano (Fluid Piano Recordings, 2016) il primo disco pensato, suonato e concepito per un revolutionary acoustic musical instrument. ci sarà voluto un discreto tempo per apprendere una tecnica del tutto nuova da applicare a questo novissimo modello di pianoforte, ma forte della sua educazione immersa nei raga della tradizione indiana ecco nascere un suono verosimile, possibile e a tratti persino bello.
è assai probabile che il disco non sposterà di un millimetro l’asse su cui ruota la storia della musica, non la scinderà in un prima e neppure in un dopo anche perché del tutto svincolato da quella stessa Storia (con la maiuscola), ma l’aneddotica si nutre anche di questo e lo spiraglio di svariate possibilità che potrebbe aprire questo manufatto andava in qualche modo annotato.
forse la tecnica (specifica di questo strumento) è ancora un poco primo primordiale, forse se proprio si avesse voglia di un raga si saprebbe con certezza dove rivolgere le orecchie, ma la novità – ed il coraggio cocciuto di Geoffrey Smith – credo valgano il biglietto.
del resto cosa si ottiene mescolando il viola e l’arancione non lo si sa finché non lo si prova.
buon ascoouolto
Utsav Lal The Fluid Piano