ci si provi a trasportare lo spirito misterico di un popolo attraverso l’Oceano, ridurlo in cattività sopra un’isola caraibica, lasciare che il susseguirsi delle generazioni ne forgi il DNA (nell’arco di una manciata di secoli) e poi pretendere di ritrovarne e riconoscerne la natura originaria ed originante. dall’antico Regno di Dahomey alla regione delle Gonaïves ad Haiti ci sono migliaia di chilometri e altrettanti nodi inestricabili che hanno sballottato il culto di un popolo da una sponda all’altra dell’Atlantico, un culto che si è nascosto, mescolato, innervato ed infine definitivamente impiantato attraverso i figli dei figli di coloro che furono sradicati dalla Madre Africa.
ripercorrere a rovescio questa storia è pressoché impossibile, la ricostruzione di questa diaspora forzata è forse il Santo Graal bramato da ogni etnomusicologo o appassionato di musica afroamericana in genere: mancano le fonti, i nessi ed i passaggi obbligati, ma l’evidenza di queste discendenze continua a pulsare forte al ritmo di lontani tamburi e a far fibrillare l’enigma e il desiderio.
nel villaggio di Petite Rivière Bayonnais (dove a tutt’oggi non c’è acqua corrente e neppure energia elettrica) tutti conoscono Charles Simé e la sua bottega artigianale di tamburi: sono il frutto più pregiato della comunità e non c’è ragazzino che non cresca con il desiderio di impararne l’arte e di possederne uno. i tamburi di Charles Simé sono il motore inesauribile della mizik rasin (la musica delle radici) che si nutre di percussione, voce e danza: laggiù lo chiamano vodou (paese che vai, appellativo che trovi) e nessuno potrà negare la sua natura rurale e fieramente grezza oltreché l’innegabile discendenza africana.
un vodou materiale, carnale, che fra feticci, credenze e rituali non dimentica di riverire i lwa, vere e proprie divinità che fanno da tramite fra il supremo e le umane genti confondendo le loro agiografie con quelle dei santi della santa romana chiesa in un trasformismo dovuto ai divieti, agli adattamenti e ad un vago pressappochismo storico.
il gruppo Chouk Bwa Libète rappresenta il fiore più pregiato di questo crogiuolo culturale e Jean-Claude ‘Sambaton’ Dorvil ne è il leader maximo oltreché paroliere e voce di riferimento. le dinamiche dell’etnomusicologia di questo millennio paiono avere le medesime traiettorie: un viaggiatore curioso con le orecchie acute e l’idea chiara di cosa sta cercando si imbatte in una sacca di musica e cultura incontaminata (e straordinaria: ça va sans dire) e la propone ad un’etichetta discografica illuminata ed interessata alle musiche del mondo (Buda Musique per non fare nomi). ottenuto il benestare se ne torna spedito sul luogo rinvenuto con un poco d’attrezzatura audio, foto e video ed il gioco è praticamente fatto. così ha fatto Michael Wolteche che, partito da Belgio e giunto ad Haiti, non deve averci messo molto a rendersi conto della straordinaria ricchezza musicale di questo angolo sperduto dei Caraibi. così in fretta e furia è tornato in Europa per farsi accompagnare dalla strumentazione e dalla perizia tecnica dell’ingegnere del suono Xavier Yerlès e in una sola settimana nell’aprile 2014 hanno registrato questo piccolo gioiello dell’etnografia moderna.
Se Nou Ki La! (Buda Musique, 2015) è stato registrato all’interno di una capanna di paglia (ajoupa) con un paio di microfoni stereo nel bel mezzo delle faccende e della vita degli abitanti del villaggio. il suono è caldo, grezzo, fisico; un’eco organica che mozza il fiato e la netta sensazione di aver carpito quanto di più naturale accade quotidianamente nella comunità di Petite Rivière Bayonnais. la voce profonda e ruvida di Sambaton duetta con i cori (maschili e femminili) dei giovani compari mentre le poliritmie dei tamburi intessono trame contagiose.
percussioni organiche, percussioni di fortuna, wuwuzela improvvisate ed un’intricata trama di call and response fanno da motore e benzina alle danze e ai rituali di questo culto antico. l’Africa non pare così lontana ed il segreto di questo legame fra le antiche musiche del continente nero e la contemporaneità di questi canti si manifesta ad un palmo di naso ma non appena si prova ad afferrarlo sfugge per ogni angolo della diaspora schiavista.
il gospel, lo spiritual, i forsennati ritmi latini e persino il blues paiono palesarsi per poi scomparire di nuovo in un caleidoscopio che mostra e nasconde quel segreto imprendibile che continua ad affascinare e stordire chi ha orecchie per goderne.
buon ascolto.
Chouk Bwa LIbète Se Nou Ki La!