seguo da anni più di un centinaio di blog, mi informo attraverso una mezza dozzina di riviste cartacee, ne spulcio una dozzina intera in formato digitale. in più sono iscritto a svariate newsletters e follower di innumerevoli bandcamp. ascolto una buona manciata di prestigiose trasmissioni radiofoniche ed ho amici che non mi fanno mancare suggestioni e suggerimenti. una specie di mania, forse anche una malattia che a questo punto sarebbe più difficile guarire che assecondare: eppure continuo a pensare che il vero scopo di questo blog è continuare a curiosare oltre questa moltitudine di informazioni per cercare il pesciolino d’oro sfuggito alle grandi reti a strascico, una musica altra che mi folgori all’istante, che mi procuri il deliquio e la catarsi: persevero a farlo con lo spirito del flâneur che passeggia in questa selva oramai rigogliosa e ridondante che è la musica presente nella rete (nel senso di internet).
è proprio per questo che una cassetta uscita in tiratura limitata a 50 copie per un’etichetta misconosciuta di Canberra è bastante per allargarmi il sorriso e principiare lo scodinzolamento. Moontown Records: proprio nell’angolo più lontano del globo, altra latitudine, opposta longitudine. l’innamoramento scatta repentino e incontrollato: vuoi quell’insana idea di pensarsi etnomusicologi da sofà, vuoi la sempiterna fascinazione dell’altrove o forse stavolta è bastato soltanto il nome del gruppo e quelle brevi note per descriverne la musica (weird, impro, free, chamber messe in relazione al sostantivo jazz). The First Baboon Civilization, bisognerà ammetterlo, è un nome che già di per sé salta all’occhio (ed all’orecchio). la prima civilizzazione del babbuino: che vuol dire? di cosa stiamo parlando? qual’è il primate in questione? vi sono state altre civilizzazioni?
domande vaghe e vane, ma sufficienti a far venir prurito ad un ragazzo scimmia del jazz!
confesso di non sapere assolutamente niente di loro a parte quel poco e nulla che si fatica a trovare in rete: un collettivo di una decina di musicisti volutamente nascosti nelle fronde più alte della selva oscura. potrei copiare ed incollare i loro nomi ma è più semplice dirigervi alla line-up con la quale hanno presentato il nastro il 21 febbraio scorso a Melbourne. confesso di non sapere niente di più ma di aver fatto girare la cassetta in autoreverse più e più volte: e forse tanto basta ad invaghirsi! The First Baboon Civilization sono weird quanto basta: strani, strambi e stralunati. ma anche sghembi e slabbrati, sdrucciolevoli. una musica cameristica con una forte attrazione verso il cosmo ed un doveroso riconoscimento alla divinità jazzistica di questo sistema solare (leggi Sun Ra). Through The Sun and Beyond o Jupitergoon sono titoli eloquenti quanto basta: ma c’è ben altro. un’idea selvatica e primitiva del ritmo, una solennità mesopotamica (non chiedetemi che vuol dire, nella mia testa ha un senso e funziona), una tensione armonica che mi viene istintivamente da ricondurre a quella lettera Z presente in ben tre titoli. non so a voi, ma certa musica rocambolesca e scellerata unita alla lettera Z mi fa subito venire in mente un paio di baffi!
forse un’indizio per raccapezzarsi un poco di più potrebbe essere la cover che chiude il nastro: Song of Happiness è un brano di McCoy Tyner tratto da Expansions (Blue Note, 1970). il jazz spirituale che si fonde con l’avanguardia, e ci potrebbe pure stare se non fosse che la versione sulla cassetta in questione si trasforma in un trambusto percussivo che deraglia in una fanfara ebbra e scalcagnata (ma alquanto meravigliosa).
le immagini ciclostilate qui sopra paiono rubate da una fanzine di qualche decennio addietro, in realtà è tutto quanto ci è dato di vedere dal sito facebook dell’etichetta: che è un po’ come dire circolate, non c’è niente da vedere. ma c’è da ascoltare eccome.
resta da capire chi sia il babbuino a cui si riferiscono, da dove scappi fuori questa verve freak australiana e cosa ci potrà riservare la seconda civilizzazione; per il momento questo nastro continua a girare che è un piacere e oltre che soddisfare la mia insana curiosità di stanare meraviglie nascoste credo possa essere una delizia anche per chi frequenta queste lande. lo so, sono stato parco d’informazioni, ma loro sono giungla.
buon ascolto
Boxers and Dancers (for Getatchew Mekuria and Melaku Belay) (excerpt) Ken Vandermark’s Audio One What Thomas Bernhard Saw (Audiographic Records, 2015) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Mademoiselle
Jean Claude Soul Sok Séga
Séga Sound From Mauritius 1973-1979 (Strut, 2016) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Gadni (Spirit of the Mountain) Ande Somby
Yoiking With The Winged Ones
(Ash International/Touch Records, 2016) more details ( ( ( ↓ ) ) )
As Adam Early in the Morning_I Am He That Aches with Love Iggy Pop / Tarwater / Alva Noto Leaves Of Grass EP (Morr Music, 2016) more details ( ( ( ↓ ) ) )
My Dove, My Beautiful One Josephine Foster No More Lamps In The Morning (Fire, 2016) more details ( ( ( ↓ ) ) )
Vous ne connaissiez pas Allain? non conoscevate Allain Leprest? non è un fatto assai grave da questo versante italico delle Alpi e forse neppure dalla sponda francese. la chanson non è disciplina obbligatoria neppure lassù. eppure chi si scalda anche solo una volta al fuoco sacro di quell’arte sublime, a quel tepore ritorna, anela, brama. Allain Leprest è stato un’artista marginale anche in Francia, uno chansonnier randagio e difficile: davvero ostico allora pensare di evitare la strisciante antipatia diffusa (come un luogo comune) che ci divide reciprocamente dai nostri cugini (chissà perché poi?), difficile dunque mutuare e scambiare musiche, artisti e poesia. difficile che la voce di Allain Leprest potesse scavalcare valichi e vallate e giungere fin qua, difficile che il suo nome dica qualcosa a nous italiens.
ancora più difficile ora che Allain Leprest ci ha lasciati decidendo da solo i tempi di sopportazione della dolce metastasi procuratagli da un cancro ai polmoni. un suicidio fiero nel giorno di ferragosto del 2011, come sanno fare alcuni uomini coraggiosi, coraggiosi come Mario Monicelli.
una dozzina di album per lasciare un segno ruvido nella gloriosa storia della chanson francese, una penna amara, maudit; una voce che il tempo e le tante gitanes (a cui dedicò una splendida canzone) avevano reso lo strumento più consono per raccontare d’amore, solitudine e di quel turbine che inghiotte la gente quando è rapita dal dolore d’esistere (chi avesse tempo per una splendida intervista la può trovare qui).
aveva collaborato con tanti artisti francesi (Richard Galliano nello splendido Voce A Mano del 1992), scrivendo, duettando e circondandosi di amici ed estimatori. per questo il giorno dei suoi funerali erano in molti a rendergli il commosso omaggio. poi finita la funzione laica ciascuno di loro, alla spicciolata, è tornato ai rispettivi impegni. due di loro hanno però deciso che il giusto tributo da onorare all’amico fosse quello di finire dentro un bistrot ad innaffiare di pastis il ricordo (Le Temps de Finir la Bouteille), cantando e suonando le sue canzoni.
JeHaN e Lionel Suarez avevano lavorato entrambi con Allain Leprest e poi successivamente assieme. una ventina d’anni di differenza fra la voce nobile e finissima di JeHaN e l’arte dell’accordéon espressa da Lionel Suarez: in quel bistrot il mantice del piano à bretelles soffiava note che la voce di JeHaN cavalcava appasionatamente. nasceva così l’idea di un disco tributo che ha avuto una gestazione lunga nell’indecisione di vestire ulteriormente quelle chansons o di lasciare così nude come si erano manifestate nel pomeriggio ebbro di una commozione subitanea.
Leprest – Pacifiste Inconnu – (Ulysse Productions, 2016) è nato dunque così, semplice, disarmato (come lo splendido sottotitolo del disco) ed essenziale. l’omaggio dei due amici è limpido, sentito: forse sin troppo edulcorato rispetto al malessere che Leprest faceva sgocciolare da ogni strofa, ma in filigrana ed in controluce traspare netta la capacità di scrivere canzoni nobili, dolorose ed adulte. la voce di LeHaN è chiara, di razza, una voce straordinaria nel seguire le curve flessuose di linee melodiche contagiose che l’accordéon Lionel Suarez lascia respirare ed ampliare dentro le ance del suo strumento.
il mio francese è claudicante su entrambe le gambe su cui prova a reggersi, ma non smette di deambulare in quel sentiero fascinoso che è la chanson francese. zoppicando e traducendo, imparando ed inciampando mi addentro come meglio posso nell’arte di Allain Leprest con il buon viatico di due amici che hanno realizzato un disco piacevole ed essenziale che spero sia lo stimolo per conoscere questo pacifiste inconnu.
un disco insomma per chi ama la chanson o per chi vuole liberarsi di quel fastidioso pregiudizio che porta a disprezzare a prescindere i cugini d’oltralpe e la loro arte che (il più delle volte) sa essere sublime. bonne écoute