Jimmy Giuffre 3 1961

è da quando ha preso forma quest’idea di blog, di questo blog, che rimando ed attendo un tempo idoneo per raccontare di un disco imprescindibile per la mia formazione e per la definizione della mia sensibilità musicale. in questi quattro anni ho tergiversato altrove oscillando fra l’imprecisa capacità di trovare idonee parole e la malcelata volontà di non esporre la nuda anima, l’istante privato dell’ascolto e della significanza appiccicata ai miei giorni.
tanto tempo è trascorso nell’attendere che nel frattempo è scomparso il leader del trio che, nel marzo e nell’agosto del 1961, entrò due volte in studio per incidere, in due diverse e singole session, i due dischi Fusion e Thesis che nel 1992 l’ECM di Manfred Eicher raccolse in un unico ed elegante doppio cd.

Jimmy Giuffre è scomparso nell’aprile del 2008 dopo una carriera quieta e discreta ai margini del mondo del jazz. vi sarebbe assai da dire sulla sua traiettoria artistica e sulle difficoltà che incontrò la sua musica in costante frizione con il suo tempo e con le tendenze del jazz, ma il discorso sarebbe lungo e forse tedioso e in realtà successivo all’incisione di questo disco.

1961: ribadisco la data perché credo fermamente nella necessità di contestualizzare questo disco, per quanto difficile oggi, e collocarlo esattamente in quell’anno magico per il jazz, principio di un decennio ancor oggi eclatante.
Jimmy Giuffre non era nuovo all’idea del trio e neppure alla sua concezione senza la batteria, ma la formazione composta dal pianista Paul Bley e dal bassista Steve Swallow doveva portare le sue idee musicali lontane dal decennio precedente e in uno spazio di avanguardia al tempo stesso classica e visionaria.

Fusion (Verve, 1961) vede dunque il trio incidere per la prima volta assieme. nove composizioni originali: due di Carla Bley (Jesus Maria, On the Morning of the Mountain) e le restanti di Giuffre. è purezza, classe e inaudita bellezza. parti scritte si alternano a improvvisazioni in un legame complice e reciproco che chiamano interplay, ma che in questo caso andrebbe aggettivato oltremodo. liberato il suono dalla schiavitù del ritmo percosso dalla batteria, la musica pare spalancare le pareti della camera alla quale il trio sembrerebbe vocato e andarsene davvero altrove. folklore, blues, classica ma soprattutto il silenzio usato come quarto strumento ad interagire con il resto. il suono di Giuffre spaventa per concretezza ed equilibrio, una forza calma quieta e sorniona capace di intonare melodie che andranno a conficcarsi per sempre nella memoria vigile.

Thesis (Verve, 1961) è inciso pochi mesi dopo dallo stesso trio ma paiono passati lustri. consolidato il rapporto musicale dei musicisti si apre da qui in avanti la teorizzazione di quanto precedentemente intuito e fuso. irrompe l’avanguardia a scompaginare gli ultimi dettami di classicità rimasti impigliati nelle corde e nelle ance: si esplora la possibilità di una rinnovata libertà e di territori sconosciuti e, proprio per questo, bramati. ancora Carla Bley a comporre (Ictus) e Paul Bley a dedicare alla moglie un blues (Carla). c’è spazio per uno standard (Goodbye) e le restanti composizioni di Giuffre sono veri e propri tentativi di volo che si trasfigureranno nel successivo Free Fall del 1962 (Columbia). ma questo è già altro discorso.

lo slancio di Giuffre sembra qui esaurirsi: passeranno 10 anni (1962/1972) prima che torni ad incidere ed allora tutto sembra già successo e soprattutto nulla assomiglia più a niente, almeno nella musica. altre e diverse rivoluzioni hanno scosso il jazz ed il vicolo solitario additato da Giuffre pare non condurre in nessun luogo. nel 1992 Manfred Eicher comprende la potenza seminale di questo disco e ripropone i due lavori raccolti in un unico cofanetto, conseguenza inevitabile dopo la riformazione di quel trio che attraverserà gli anni ’90 con alcuni dischi memorabili (The Life of a Trio: Saturday, The Life of a Trio: Sunday) che non faranno altro che rammentare di una epifania dimenticata.
il tempo non ha tradito questi dischi perché al tempo non appartenevano. oltre, altrove in un’imprecisata collocazione restano a splendere in attesa di essere percepiti da chi ha sensibilità per intendere. del tempo implicito e sotteso i tre si fecero discreti portavoce, accolsero il sacrosanto silenzio e lo addobbarono di misurata bellezza. tutto questo ho avuto la fortuna di incontrare e da allora mi è impossibile prescindere. canone di eleganza, stile e occidentale bellezza. 1961, ma non importa oramai più.

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Dead & Gone #1 Funeral Marches/Trauermärsche

innanzitutto lungi da me l’idea di tediare con il manto greve delle musiche da trapasso il clima spensierato delle vacanze mezzagostane, ma la vicenda che intendo narrare prende l’abbrivio proprio da una raccolta di composizioni funebri che la gloriosa Trikont raccolse e dette alle stampe nel 1997. trattasi di una di quelle elucubrazioni onanistiche di cui privatamente mi nutro e che sempre più spesso hanno a che fare con la musica e i suoi dintorni (starò invecchiando?): piccole e innocue ossessioni che producono circuiti (virtuosi? viziosi?) di significato e soddisfazione e delle quali non saprei dov’altro parlarne se non qui. anzi, a dire il vero, già me ne occupai proprio su queste sponde anni addietro, tanto per confermare che le ossessioni perdurano e una seppur minima coerenza senile me la posso pure meritare.

Dead & Gone #1 Funeral Marches/Trauermärsche raccoglie 19 brani opportunamente compilati da Fritz Ostermayer per la Trikont: un breve e sapiente trattato musicale inerente la mortalità e le melodie che accompagnano l’ultima sorte umana. disco assai più che curioso e rigorosamente serio: si spazia da una cerimonia funebre del Ghana alla banda della Vuccìria palermitana passando per le svariate Brass Band sparse inevitabilmente per il mondo. ma c’è posto anche per Albert Ayler, Robert Wyatt e Tom Waits, in caso qualcuno necessitasse di un Virgilio familiare.

fra le tante meste melodie lamentose buone per l’ultima cerimonia rimasi colpito, allora come oggi, da un duo da camera (ardente?) composto dai misconosciuti Buck Funk & Reverend Anthony W. Reves: elegia funebre registrata a New Orleans nel maggio di un imprecisato 192? e che accorpava due traditional del genere come West Lawn Dirge e Just A Closer Walk With Thee. proprio da qui prende il via quella elucubrazione masturbatoria di cui mi accingo a raccontare.

l’inequivocabile friggione che faceva da sottofondo a tutto il brano non lasciava dubbi sulla sua natura di 78 giri, ma qualcosa di “moderno” esalava dall’esecuzione per sax soprano (inizialmente lo avevo confuso con un clarinetto) e pianoforte. la prima parte larga, con un pianoforte impressionista a sostenere alcune diacroniche note libere del sax, poi, nella parte finale, in ottemperanza ai dettami delle funzioni di New Orleans, il brano si “rallegra” in un cantabile con accenni di (pre)swing anacronisticamente sospetti.
ma era il 1997 e non avevo avuto dubbi sulla veridicità di quell’incisione, ben lungi da avere questo strumento su cui pigio tasti di fronte e quindi impossibilitato (così come avrei voluto) a curiosare oltre e sapere da quale incisione provenisse quel brano e come, e dove, mi fossi potuto procurare altro.

passa così il tempo ed io dimentico (in parte, perché certe cose ancora non le dimentico) e con strana discronia, giunge fra le mie mani, per impervie vie, un disco del 1983 di Lol Coxhill che mi accingo ad ascoltare mentre sciacquo stoviglie.
CousCous, con mio sobbalzante stupore, si apre proprio con quel West lawn dirge/Just a closer walk with thee!
pochi secondi a saltellare fra link (oggi si fa così) e il falso d’autore è disvelato: quel guascone di Lol Coxhill (accompagnato al piano da Veryan Weston) si divertì a istituire appositamente una fasulla fonte della quale, nel seguito del disco, ripropone una versione avant moderna (pur sempre ’80 erano) in compagnia di un manipolo di fidati e sodali. ma tutto il disco (a quanto pare mai ristampato in digitale) è divertito e impertinente, gradevole e iconoclasta al punto che è quasi un piacere che questa privata faccenda onanistico/musicale si concluda così.
se non fosse che nel disco, ed in particolare in quel gioiello finale che è And Lo! The Chapel Walls Trembled At The Voice Of The Mighty Cuckoo ci suona un tale Mike Cooper che non è nuovo a queste lande e che apre inevitabilmente una ulteriore piroetta virtuosa o viziosa che dir si voglia.
ma questa è già un’altra storia.

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Next Stop… Soweto Vol.3
Giants, Ministers and Makers: Jazz in South Africa 1963-1978

e così si è giunti al terzo e conclusivo episodio che la Strut ha dedicato all’esplorazione della musica sudafricana. ammetto segretamente di esser stato alla finestra ad osservare e godere di cotanta bellezza, leggendo, ascoltando e cercando di colmare una mia lacuna colpevole legata a qualche malriposto pregiudizio che mi faceva preferire altre musiche africane a queste. sbagliavo e sono lieto di ammetterlo.
e così dopo le prime due fermate nel suono delle Township (Next Stop… Soweto Vol.1 Township Sounds From The Golden Age Of Mbaqangwa) e in quello afroamericano (di ritorno) incentrato su funk, soul e R’n’B (Next Stop… Soweto Vol.2 Soultown. R&B, Funk & Psych Sounds from the Townships 1969-1976) eccoci giunti a quella personalmente più gradita.

Next Stop… Soweto Vol.3 Giants, Ministers and Makers: Jazz in South Africa 1963-1978 racchiude in due dischi un distillato di luminosa bellezza, un grido di libertà che assomiglia ad una risata liberatoria. ritorno alle parole che usa l’amico Roberto per tentare di descrivere questa musica imprendibile: il jazz ti insegna la libertà o non ti insegna nulla! e mai come in questa storia sono così vere: le stesse parole che ha giustamente preso a prestito Giulio Mario Rampelli per raccontare la storia vergognosa che questa musica orgogliosamente sublima in bellezza e fiera libertà.
consiglio allora la lettura delle pagine di TP Africa e l’ascolto del sapiente excursus che Alessandro Achilli ha fatto in sei puntate andate in onda su Prospettive Musicali: a me non resta altro da fare che il gioco sporco di chi per eccesso di gioia brama dalla voglia di condividere cotanta bellezza; e per questo rimanda ai commenti.

Pubblicato in 2010 | 30 commenti

ciao Mary

agosto è incominciato in fretta e sembra voler correre. poco tempo da dedicare a questo spigolo.
riapro la pagina per annotare un ricordo, veloce per necessità e pressochè muto per assenza di pensieri sensati.
è per un saluto a Mary Monaco che se ne va, e un abbraccio sincero ad Enzo Motta.
sono i protagonisti del film più vero ed umano che ho visto negli ultimi anni: La Bocca del Lupo di Pietro Marcello.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=fiwiDSFuK0o]

la storia d’amore di Enzo e Mary esondava dalla pellicola, tenera e forte oltre la loro stessa capacità di narrarla con le voci roche fuori campo. per questo il film sembra proseguire dolorosamente dentro questa triste notizia e nell’appendice amara che vena il film e le vite che vi sono narrate. Lisetta Carmi aveva rubato fotogrammi di vita dal ventre scuro della città, altri ne hanno cantato le storie, Pietro Marcello ha saputo ascoltare i miasmi dei vicoli e raccontarli: fra quelle facce un po’ così di chi prova a raccontare Genova ne ricorderò una di più.
ciao Mary

Pubblicato in 2010, Kino | Lascia un commento

Malick Sidibé oltre La Vie en Rose e la Dolce Vita Africana

così, in uno dei giorni più bollenti di luglio, io e alice decidiamo di risalire al contrario la piana padana contro la mano dei vacanzieri che discendono come fiumane verso la riviera. dobbiamo raggiungere Reggio Emilia e più precisamente la Collezione Maramotti per poter rimirare in cellulosa fotografica alcuni scatti raccolti nella mostra La vie en rose.
entrare alla Collezione assomiglia più ad una convocazione per un consiglio di amministrazione fra giardini lussureggianti, cancelli automatici e portinerie di affettata cortesia: per ora l’unica cosa che assomiglia all’aria subsahriana è un vento caldo di scirocco che asciuga la saliva e insabbia alcune porsche parcheggiate. l’aria condizionata settata sui 10 gradi centrigadi fa svanire l’unico barlume africano, ma siamo dentro la collezione.

Malick Sidibé non è certo dentro il suo studio artificiosamente ricostruito dentro l’esposizione, ma mi sarebbe piaciuto sentir risuonare la sua risata all’inaugurazione della mostra alla quale è stato invitato, e vedere il suo bubu fra i tacchi a spillo e i misto lana incravattati. 50 scatti (meravigliosi) sono un granello di sabbia nel deserto che non consentono neppure quel lento processo che si innesca in ogni esposizione che si rispetti: una soave immersione in un mondo altro che disconoscevamo pochi istanti prima.

tutto così veloce che provi a fare un secondo giro dentro la grande stanza della mostra ma l’effetto primissima impressione è, ahimè, già svanito. resta l’afrore di un’allegria danzante di un tempo selvaticamente vergine dentro un continente verginalmente selvatico e splendido, e quei pochi scatti sono lì a testimoniarlo.

così decido di carpire un souvenir ma il catalogo della mostra sfoggia un formato anomalo per contenere e rimirare fotografie che meriterebbero aria, spazio e tempo. rimuncio. uscendo ritorno ad un algido televisore all’ingresso che avevo visto trasmettere fotografie e interviste di Malick Sidibé. mi accorgo, in un silenzio dirigenziale interrotto da proposte manageriali che provengono dagli uffici contigui, che si tratta di un vero e proprio documentario sottotitolato in inglese e mi fiondo a chiedere delucidazioni alla reception della collezione.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=XuRIQebQOr0]

e in effetti si sa che non tutti i Mali vengono per…
esco dal gelo condizionato della collezione con un pizzino in tasca su cui  ho annotato gli estremi di quel documentario: Dolce Vita Africana. a tarda notte, raggiunta la rete casalinga mi precipito a scoprirne oltre: documentario-film televisivo andato in onda sulla BBC Four in data 4 marzo 2008 per il programma Storyville. la rete solidale tace e non consente nè la visione e neppure l’acquisto.
il mattino seguente mi rituffo dentro e, a seguito di alcuni scambi cornucopio/epistolari con Maurizio Ribichini, instillo la pulce pure nel suo orecchio: lui più cocciuto e caparbio di me e con ancora qualche granello di sabbia maliana in qualche tasca dimenticata, mi telefona nel meriggio gongolando come un griot.
mi lascia scivolare nella buchetta elettronica un link e se ne parte per le sue vacanze estive, sorridente lui, e pure io. a me non resta quindi che rigirare il favore a coloro che vorranno vederne, saperne, e ridere un poco oltre.
sfugge a me il motivo per cui da questa sponda del primo mondo (se è vero che quello è chiamato terzo) si debbano  occidentalizzare a tutti costi fenomeni sociali dei quali, in fondo, ci sfuggono ragioni e motivi profondi: così una mostra diventa La vie en rose e un buon documentario Dolce Vita Africana: mah!
probabilmente sfugge dalle mostre e dai documentari pure Malick Sidibé e quello stesso mondo che ha provato a catturare nel suo divenire, ma la sua risata e il mondo che oggi lo circonda fuori dal suo studio a Bamako valgono sessanta minuti del nostro tempo occidentale.
buona visione.

Dolce Vita Africana

Pubblicato in 2010, Kino, Libercoli | Lascia un commento

Bill Callahan Letters to Emma Bowlcut

credo di dover immediatamente avvertire la truppa dei fan (della quale mi compiaccio di appartenere) che non si tratta propriamente del nuovo disco di Bill Callahan. peccato davvero: titolo e copertina avrebbero lasciato presagire alla catarsi.
in realtà si tratta di una novità che a ben pensarci poteva essere pensata da chi a più tempo di me per pensare: Bill Callahan pubblica un libro per l’etichetta (l’editore?) Drag City, evviva Bill Callahan.
ora, se come me calpestate il suolo italiota, vi sarete di certo accorti che da molto tempo il sito della Drag City risulta quantomeno irrangiungibile da qui. e di conseguenza non è dato, per ora, poter acquistare questo cimelio del futuro a venire. dunque ciò che solo oggi posso fare e additare un sito (bombsite) dove appare l’intervista rilasciata a Jon Raymond in cui si sposta l’obiettivo sull’aspetto letterario della carriera di Callahan, che, da qui in avanti, sarà da prendere in seria considerazione (per chi non l’avesse già fatto).
79 paginette che contengono 62 lettere non autografate di un uomo ad una donna conosciuta ad un party. an epic poem in the form of letters rimuginato e trascinato nei trascorsi 8 anni in cui Callahan ci ha potuto lavorare, concedendosi delle intermittenze dal suo mestiere principale.
mi siedo e attendo di poterlo leggere.
in questo frattempo (che immagino lungo) qualsiasi notizia ulteriore è alquanto gradita.
R.S.V.P.

Pubblicato in 2010, Libercoli | Lascia un commento

Ortometropolis/9 di Costantino Spineti

Mike Cooper plays Rayon Hula
live@Half Die Festival

Morpurgo Roof

– non è un party, non è un aperitivo, è un festival di musica, se non siete interessati non venite.
– è gradita la prenotazione via e-mail
– non parcheggiare e non entrare con macchine e motorini  dentro il vicolo di Porta Furba
– non fare schiamazzi e non dare fastidio al vicinato già di per sè tollerante
– portare qualcosa da bere
– rispettare gli orari e osservare un religioso silenzio durante lo svolgimento della performance live
– no scarpe aperte
– venite con chi vi pare purchè sia edotto delle regole.

Così diceva il flyer dell’ invito al concerto mandato via e-mail da Morpurgo Benerecetti, ideatore dell’Half Die Festival che si tiene ormai da più di una decina d’anni a Roma tutte le domeniche pomeriggio di Luglio.

SITO PORNO PER ADULTI “MEZZI MORTI”
Half Die, infatti, s’ispira alla sezione di un sito porno dove i protagonisti sono persone tanto adulte, da essere apostrofate, appunto, mezze morte. “Ho voluto sdoganare i canoni classici di bellezza – racconta Gianni Rosace (in arte Morpurgo Benerecetti), professionista per lavoro ma musicista e organizzatore, da 10 anni, del festival – andando oltre i limiti dell’età e dei tratti estetici”.
In un clima di ricercata stravaganza, e con le scarpe chiuse (sarà un vezzo?), Rosace ha realizzato le prime edizioni del festival, prima dell’attuale location (Porta Furba al Mandrione), sulla terrazza di un grande capannone adibito a deposito di pullman, facendo rientrare i Morpurgo Roof in quegli inusuali palcoscenici capaci di far vivere spazi domestici, attraverso momenti di aggregazione.

e nel tardo meriggiar, pallido e assorto del Luglio romano…
al Mandrione, con vista acquedotti romani mi sono recato…

Quivi Mike Cooper in consueta mise hawaiana e le sue sculture sonore, un vero e proprio cesellatore di suoni capace con la sua sound art di portarti immantinente dall’altra parte della crosta terrestre, precisamente in Oceania, tra le acque cristalline del sud est asiatico, insomma, agli antipodi del Mandrione in un sol schiocco di dita (…snap!!). Solo un’altra persona è stata capace di provocarmi simili sensazioni, ma… trattavasi di un certo Emilio Salgari!

Confesso che sino a qualche anno fa facevo fatica a concepire il laptop come un vero e proprio strumento musicale, ma galeotto fu l’incontro con Mike Cooper e i suoi fields recordings, e soprattutto la sua steel guitar suonata col bottleneck! Mike Cooper che parte come cantante di musica folk quarantanni fa, per approdare oggi ai margini della scena glitch internazionale, in mezzo… di tutto e di più!!

Devo riconoscere che l’idea di assistere ad una performance live di Rayon Hula outdoor mi intrigava pareccchio, e le aspettative sono andate ben oltre l’immaginabile. Pattern estatici che si incrociavano con loop ipnotici, sinuose melodie che cercavano ombra sotto le arcate a tutto sesto degli acquedotti, vibrafoni incantatori in salsa reverie che indugiavano in un oceano di fields recordings…il tutto condito in uno scenario veramente… Ortometropolitano!!

Incorporare i suoni ambientali nella musica è un elemento fondamentale nella sound art di Mike Cooper. Ma come nasce Rayon Hula? Stando alla versione dell’autore basta giocare d’estate con un sampler utilizzando dischi di Arthur Lyman, rallentandoli e riproducendoli al contrario; ma io non gli credo, come non gli credo quando mi dice che Truth in the abstract blues è stato inciso senza conoscere bene il disco di Oliver Nelson. Del resto, una cosa fondamentale credo di averla capita di Mike Cooper: quando lo senti parlare, non devi ascoltare solo la sua voce e quello che ti dice, devi fare molta attenzione anche ai suoni che (gli e ti) girano intorno.

E ora c’è una sorpresa per gli aficionados, mettetevi pure comodi (anche senza scarpe!) sdraiati con i piedi sulla scrivania o sul tavolo che avete davanti, munitevi di un bicchiere rigorosamente di vetro spesso, fateci pure scivolare dentro due bei cubetti di ghiaccio tintinnanti, sto per versarvi tre dita di quintessenza… Sorseggiatela pure… Nutritevi l’anima!!
E se qualcuno avesse bisogno di un pasto completo, rivolgetevi pure senza indugio a mio fratello borguez, saremo ben lieti di dar da mangiare agli affamati a prezzi modici e popolari, poi, io e borguez divideremo tutto in vivande e bevande da buoni compari di osteria.

Haloa, Prosit e Buona Visione!!

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=WV7HYFxphbE]

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Taraf de Haïdouks live@Verucchio Music Festival

e così dopo una lunga attesa perdurante, incontri mancati e lontananze nostalgiche, finalmente il mio cammino ha incontrato le traiettorie imprevedibili dei Taraf de Haïdouks. più di tre anni or sono confessai la mia devozione incantata per questa musica e questi volti legati fra loro inscindibilmente: così dopo i dischi, le foto, i film ed i video mancava solo di poter incrociare i loro sguardi ed offrirgli i miei applausi.
Verucchio non è Clejani, è evidente, ma al tramonto non è difficile riconoscere alcuni figuri foresti che si aggirano per la piazza. hanno custodie di strumenti inequivocabili, la lentezza digestiva del dopo ristorante e la bonarietà di chi ha un villaggio nel cuore e il mondo come confine. la piazzetta di fronte alla Chiesa della Collegiata è un piccolo balcone sulla Valmarecchia: alberi frondosi, gradoni e acciottolato. comincia pure ad alzarsi la brezza del vespro e se non fosse che ci sono troppe sedie e pochi cavalli, niente fango e neppure l’ombra di bevande alcoliche, ci si potrebbe far trasportare dall’immaginazione fino alla Muntenia.
quando salgono sul palco provo a contarli: 11, tutti rigorosamente uomini e fieri di ventri prosperosi camuffati sotto camicie da poco prezzo. alcune facce note e altre giovanilmente sconosciute. almeno 4 generazioni sul palco, una parentela che in qualche modo ne lega fra loro parecchi ed altri che si aggiungono a sostituire indisponibili per impegni seri o definitivi.
4 violini, 2 fisarmoniche, clarinetto, cymbalon, piffero, contrabasso e un cantante dall’eleganza balcanica del tempo che fugge.

quando battono il tempo del primo brano ci si accorge di essere immediatamente trasportati lontani: l’indiavolato esercizio di violini all’unisono sembra più un saggio per scaldare legni e muscoli e fiato. il cymbalon, da qui in avanti, non smetterà di dondolare saltellante come fa la catena della bicicletta quando canta nelle discese della vita, e il basso a punteggiare bofonchiando i ritmi danzanti sottesi alla funzionalità delle musiche. loro si scambiano gli strumenti, salgono e scendeno dal palco senza fretta e si guardano prima di ogni brano come se divinassero quale brano dell’immenso repertorio gli possa saltare in mente.
tempi dispari a volontà e spifferi orientali che incendiano inseguimenti immobili di violini. sorridono fra loro e lentamente scaldano pubblico e strumenti per preparare l’entrata in scena del decano violinista e cantore. lui ha una camicia e una cravatta inavvicinabili e il sorriso contagioso di chi ne ha viste assai. lo presenta il violinista più adulto dicendo due semplici parole: Dada, Familia! le canzoni (ahimè incomprensibili) sono delle lunghe evocazioni porte al pubblico con la mano sul cuore e la voce sdentata, quel botta e risposta fra singulti e traiettorie melodiche fascinose. di certo nascondo improvvisazioni da cantastorie, dediche e suggestioni momentanee: ballate del tempo, di tutto il tempo.
vanno avanti per due ore e mi accorgo che mi dolgono le mascelle per il sorriso ebete che mi si è stampato in faccia dall’inizio del concerto. la gioia infantile nel vedere la musica incarnata nella sua forma più semplice, e per questo, definitivamente complessa. da nonno a padre, da padre a figlio a celebrare i tempi e i riti della comunità e della vita che la riguarda. la funzione fisiologica della musica conservata e trasportata nel sangue e nelle scarpe in giro per il mondo, senza fronzoli e senza scuse.
incamminandomi verso l’uscita incrocio il passo lento del decano che porta a dormire il suo violino. gli stringo la mano:
buonanoçe
buonanotte

Pubblicato in 2010, Ao Vivo | 1 commento

Body & Soul Storia disinvolta del Jazz

credo di averlo già detto, ma lo ripeto: amo profondamente RadioTre. è un baluardo, l’approdo necessario e la testimonianza udibile che questo paese (chissà come?) potrebbe ancora farcela. sono da più di vent’anni quello che si potrebbe definire un fruitore militante: tanta della mia percezione e della mia conoscenza di molte musiche, e dei suoi dintorni, derivano da lì. ho ascoltato succedersi programmi e conduttori, direttori e speaker; da qualche anno un nuovo corso sta umilmente e degnamente tracciando una traiettoria che approvo e sostengo. la direzione della rete affidata a Marino Sinibaldi è uno di quei gesti logici e sensati che dovrebbero essere presi d’esempio da altri, in più alti ambiti. suppongo si debba a questo cambiamento ai vertici l’aumento di collaborazione (e spazio) che Pino Saulo sta meritatamente ottenendo dall’emittente. così dopo la mia troppo lusingata battiti (che nel frattempo estivo ha aumentato a sette le puntate settimanali) e una serie di concerti trasmessi nella seconda serata radiofonica, il nostro Saulo ha pensato bene di riempinguare il palisensto vacanziero della rete con una trasmissione che fa dell’efficacia e della necessaria semplicità le sue armi imbattibili.
Body & Soul si propone di raccontare in modo agile e disinvolto la storia del jazz. Tre conduttori di provata esperienza si alterneranno al microfono per narrare, con l’ausilio di ascolti selezionati, le grandi figure che hanno scritto la storia del jazz, i momenti epocali e le correnti principali“.

Body & Soul Storia disinvolta del Jazz va in onda il sabato e la domenica dalle 14,00 alle 14, 50 (fino alla metà di settembre), proprio mentre il meriggio estivo può concedere solitudine, penombra e concentrazione. come dicevo il programma (il pensiero) è di Pino Saulo, la regia di Nicola Catalano e le voci che condurranno il programma sono quelle di Claudio Sessa, Stefano Zenni e Carlo Boccadoro. non si può trattare certamente di una visione enciclopedica e neppure di un banale bignamino (come purtroppo mi è capitato di leggere in rete), l’aggettivo disinvolta narra di per sé l’unica maniera di incontrare una musica per sua natura imprendibile e ampia. le prime puntate sono state quantomeno curiose e divertenti (scalette e podcast disponibili) e mi fanno tornare alla memoria alcune lezioni universitarie a cui ho assistito e che riguardavano lo stesso argomento. differisce qui la modalità più blanda e sbottonata (disinvolta si diceva), l’ausilio di ascolti e delucidazioni e la voce quieta e divertita del conduttore; in più la possibilità di ascoltare la lectio in un tempo differito, mentre si guida o si soffrigge la cipolla o si ozia passivi in perfetto swing.
la più grande rivoluzione musicale del secolo scorso merita questo e assai di più. per oggi vada il mio plauso a chi ha saputo pensare, progettare e realizzare questa trasmissione innamorata del jazz e dei suoi interpreti.
buon ascolto.

Pubblicato in 2010, Radio | 19 commenti

People Like Us & Wobbly Music For The Fire

tento il refrigerio, seppur cerebrale, con un delirio dal titolo Music For The Fire: illogico e blasfemo sotto la canicola che si aggira sui 40°. una musica da caminetto, domestica e disinfettata come hanno voluto le perfide logiche commerciali dai ’50 americani ad oggi. un cocktail tintinnante di delizie kitsch e cianfrusaglie acustiche del patrimonio popolare condiviso.
un frullato leggiadro per laptop e giradischi mescolato in salsa slapstick: a metà strada fra il collage e il patchwork sonoro con il buon gusto del collezionista di chincaglierie acustiche. lo hanno messo in piedi Vicki Bennet (alias People Like Us) in collaborazione con Jon Leidecker (alias Wobbly) affidando la loro collaborazione ai tipi dell’Illegal Art.
non c’è il capo e neppure la coda in questa sequela di allucinazioni e rimembranze sonore manipolate, cucite e tagliate. non c’è verso, eppure i 17 agglomerati producono una vicenda percorribile e, solo apparentemente, incomprensibile. faccenda familiare? sceneggiato radiofonico? poema sonoro concreto? non saprei! sulle prime si viene rapiti dalla perizia tecnica di confezionamento. un secondo ascolto consente di costituire l’inevitabile filo narrativo e, contemporaneamente, principiare la lunga sequela dei riconoscimenti. l’ulteriore riproduzione addensa la materia come nella gelatina di un pudding.

Music For The Fire mostra assai meno di quanto in realtà nasconda: riflesso involontario riconoscere brandelli di Bacharach, i Supertramp e lacerti di Marvin Gaye. alcuni standard jazz impastati a docili mambo dell’exotica vintage e allo yodel, voci confidenziali della radio valvolare dondolano fra Esquivel e la bachelor music. Barry White, Johnny Cash (!?!), gli Abba, Vic Damone e Demetrio Stratos (?!?): il rischio impazzimento della maionese è dietro l’angolo ma con con la perizia della casalinga esperta ogni ingrediente trova magicamente il suo giusto dosaggio.
probabilmente siamo più prossimi alla galleria d’arte e alla sound art ma il risultato resta curioso e divertente: pensavo fra me e me che il risultato raggiunto dai due non sarebbe poi così diverso da quello che potrebbe produrre (l’osannato) Madlib se gli si fornissero i medesimi materiali e gli si impedisse di usare i poteri magici (leggi beat).
non proprio Pop Art e non esattamente Easy Listening: di certo qualcosa di dissacrante e divertente. tre quarti d’ora di sintetica delizia da sorseggiare facendo tintinnare il ghiaccio nell’arcopal.
buon refrigerio.

Pubblicato in 2010 | Lascia un commento