AKG K 315

esulo un poco dalle consuete questioni che riempiono questo spazio: ma neppure troppo. mi è soggiunta un’anomala tentazione di onorare e tributare il giusto ringraziamento ad un oggetto che da più di un anno mi accompagna indefesso e silenzioso (o quasi), prezioso esempio di come, non sapendo se davvero il fine giustifica i mezzi, a volte i mezzi glorificano il fine.
sto parlando delle mie cuffie (portatili, tascabili) che gli specialisti definiscono in-ear. un solerte commesso di un grande store me le presentò entusiasta esulando per un breve istante dagli intenti commerciali del suo datore di lavoro. mi fece capire con un’occhiata che quelle, e non altre, rappresentavano il miglior rapporto qualità prezzo, snobbando e insinuando disgrazie a proposito di quelle bianche ed ufficiali che ogni iPod vorrebbe con sé. e non si sbagliava.
AKG K 315 (marca e modello) fecero immediatamente capire di che pasta erano fatte, e nonostante i quasi 30 euro che dovetti esborsare, mi ritrovai proiettato in una nuova dimensione sonora della quale ero ignaro. una relazione che durò poco più di un mese perché un bel mattino mi ritrovai il canale destro defunto e irrimediabilmente perduto. due ore dopo avevo una copia gemella di cuffie identica a quella che avevo appena seppellito, a dimostrazione che l’epifania del primo istante continuava a guidare i miei gesti.
quel secondo paio è dunque con me da più di un anno e subisce da allora uno stress quotidiano che si agira dalle 3 alle 5 ore. stress dovuto alla qualità di musica ascoltata e ancor più dalla serie infinita di arrotolamenti, attorcigliamenti, strappi, cadute e di tutta la polvere che si beve nel mio peregrinare lavorativo.
senza scendere in dettagli tecnici che ciascuno può trovare in questa scheda, e senza indagare sul mio insano rapporto con il materiale “tecnico” in genere, sia bastante questa mia sperticata lode per un oggetto che mi stupisco di trovare ancora integro nelle mie mani, mezzo beatificatore di gradito isolamento dalle nefandezze verbali del popolo italiota e, ancor più, messo angelico di musiche che provengono dal luogo più incredibile che mi sia concesso portare in tasca: il mio iPod.
precisando che non percepirò denaro per quanto sopra scritto (semplicemente perché non mi è stato offerto), termino qui quello che potrebbe pure essere un semplice consiglio per gli acquisti, ma che è per me un tributo doveroso e emozionato.
p.s. visto che la sfortuna e la scaramanzia parlano lingue diverse, preciso ulteriormente che se, a causa di quanto scritto, dovessi trovarmi assai presto a seppellire le mie care compagne auricolari, non esiterei ad acquistarne immantinente un paio ulteriore.
(speriamo che serva)

Pubblicato in iNmobilità | Lascia un commento

Roy Nathanson's Sotto Voce Subway Moon

in un immaginifico habitat naturale che ha New York come sfondo e l’aspirazione internazionalista come paradigma, immaginiamo di impostare alcuni punti cardinali di riferimento: innanzitutto la parte colta della no-wave rappresentata dal lampo di stile dei Lounge Lizards e quindi, va da sé, i fratelli Lurie (Evan e John) e, di naturale conseguenza, Arto Lindsay e Steve Piccolo; inoltre, come ulteriore orientamento, si potrebbe prendere in considerazione un manipolo di musicisti che rispondono ai nomi di Marc Ribot, Greg Cohen e John Zorn (e tutta la famiglia Tzadik al seguito). per precisare ancor meglio il campo si pensi alle pellicole bianche e nere di Jim Jarmusch, ad una certa cultura ebraica che ha felicemente contagiato l’intrattenimento statunitense e, non ultima, la scena jazz bianca occidentale fra free, loft e avanguardia in perenne movimento.
in questa giungla urbana e culturale così delineata si potrà esser certi, con buona approssimazione, di incontrare anche la figura contagiosa di Roy Nathanson. sassofonista, compositore, attore, insegnante, marito e padre: di certo fomentatore e attivo promotore, da più di 30 anni,  di quella foresta urbana più sopra descritta. prima la frequentazione con le lucertole dei fratelli Lurie e di seguito fondatore dei Jazz Passengers con cui si è intrattenuto fin circa alla metà dei ’90. da lì in poi il percorso si è fatto sghembo e trasversale ed ha toccato la composizione, l’insegnamento, le apparizioni cinematografiche, la scrittura e le troppe (da citare) collaborazioni.
poi fra la fine del 2005 e l’inizio dell’anno successivo compaiono le sagome dell’ensemble Sotto Voce e il primo disco per la AUM Fidelity. naturalmente c’è Roy Nathanson alla regia. da allora il progetto ha preso spazio e tempo e si è nobilitato della presenza di nuovi e altri collaboratori e verso la fine dell’anno scorso è uscito per la Enja l’atteso seguito.

Subway Moon (Enja, 2009) è uno di quei dischi che (mi) riconcilia con la musica e con ciò che gli gira attorno a dieci anni dalla svolta del millennio. fa stare bene direbbe assai propriamente un mio conoscente.
formazione nobile impreziosita da volti noti (Bill Ware, Napoleon Maddox) e consapevoli di questo tempo e del fare (e pensare) musica in esso. Roy Nathanson, con quel ghigno sardonico alla Groucho Marx, ci ha messo del suo ed ha pensato e sviluppato una suo ragionamento a proposito del suo spostarsi nella metropolitana newyorkese, e più precisamente nella Q Line che porta da Brooklyn a Manhattan (e viceversa).
ma ciò che potrebbe far pensare ad una vera e propria colonna sonora cinematografica ha in realtà come contraltare un libro che porta il medesimo titolo del disco ed è pubblicato dalla tedesca Buddy’s Knife. i volti, le storie e le impressioni di un viaggiatore urbano diventano le tracce e le parole sulle quali costruire immaginari sonori e narrazioni acustiche.
disco prezioso e straordinario, lo ripeto; vivido e sanguigno come le menti pensanti, osservanti e curiose. e il viaggio non poteva partire meglio: Love Train assomiglia davvero ad una geniale omaggio a quella People Get Ready che invitava a salire a bordo senza biglietto, il soul come lasciapassare e un grande messaggio da raggiungere all’orizzonte. a partire da qui il viaggio si fa notturno, in quell’oscurità fittizia e artificiosa che crea la sotterranea: sferragliare di vagoni e binari, raglio di rotaie e soffioni d’aria che si incanalano nei tunnel. un jazz bianco che non trascura le narrazioni spoken di Nathanson, il free compunto e melodico, vaghissime influenze klezmer e gospel; assoli di buskers all’arrivo delle scale mobili, strascichi d’opera e contaminazioni black dalla beatbox umana incarnata in Napoleon Maddox. e poi pioggia, brandelli di conversazione, annunci ai viaggiatori che sgocciolano dagli altoparlanti, rapidità, movimento e andature dinoccolate. fa piacere poter ascoltare (e vedere) Roy Nathanson che racconta qualche faccenda sgangherata a proposito del disco e della sua esistenza in genere…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=1wAHWfLIT3o]

al terzo (o quarto) ascolto cominciano a sbucare dalle gallerie della memoria sensazioni già vissute, fotogrammi già visti, memorie di suoni e giorni passati e futuri. niente panico: gli scambi, gli snodi e le traiettorie sono talmente tante che non vale la pena mettersi a vidimarle tutte, piuttosto è bene considerare la subway come entità circolare, con andate e ritorni, arrivi e partenze, come le nostre vite. sensazione straniante e paradossale, certo, come rimirare la luna nella sotterranea.
in poche parole uno dei grandi dischi “mancati” dell’anno scorso: se solo non avessi perso la coincidenza!

People get ready, there’s a train comin’
You don’t need no baggage, you just get on board

Roy Nathanson’s Sotto Voce Subway Moon

Pubblicato in 2009 | Lascia un commento

Ortometropolis/8 di Costantino Spineti

guai a chi si fosse dimenticato di Costantino Spineti! altre, ed esotiche faccende, lo hanno affaccendato e tenuto lontano dal blog, ma (altri) guai a pensarlo azzittito. tutt’altro. il suo procedere ed insinuarsi si è fatto vieppiù tortuoso e sotterraneo. le materie e le questioni di questo blog divengono per lui spunti e pindariche riflessioni in cui frulla e smonta (per restituirle sottosopra) le idee e i suoni di cui vado parlando. è l’inviato speciale nella capitale (urbi et orbi, in realtà) in grado di raggiungere appuntamenti e incroci per altri difficilmente raggiungibili. e da lì raccontarli da par suo. così lo spunto relativo al caro Mike Cooper diviene per lui una riflessione ben più profonda che dal pacifico porta assai più lontano, fino a raggiungere il Pigneto e il suo più illustre narratore. (borguez)

Mike Cooper/Bellatalla/Spera live@Fanfulla

Slamm! Fa la porta del bar, mentre frettolosamente esce col suo impermeabile beige, i suoi occhialoni da vista e quei capelli che sembrano pettinati con uno schiaffone.
Roma, Pigneto, Via Fanfulla da Lodi, Bar Necci, sedia centrale del secondo tavolo. Qualche volta triplappì l’ha chiamato Bar de la cortellata, da non confondersi con quello che sta a Pietralata, quello fa parte di un’altra storia.
Provo un certo imbarazzo a star seduto proprio qui, sulla stessa sedia dove Lui scrisse il suo primo film da regista: Accattone. Esattamente cinquantanni fa.
Oggi il Pigneto è cambiato, non è più “la corona di spine che cinge la città di Dio”, oggi al Pigneto un monolocale costa 900 euro al mese in affitto o 5000 euro il metroquadrato. Anche gli Accattoni sono cambiati, oggi girano a bordo di piccole automobili che tutti si ostinano a chiamare Smart, indossano piumini neri lucidi che mi fanno ricordare i sacchi dell’immondizia, hanno sopracciglia modellate come mongoli della dinastia dei Ming, e portano occhiali da sole giganteschi, anche di sera, quasi sempre con la montatura bianca.

– Portami un Fernet doppio con due cubetti di ghiaccio a parte, mezzo limone e due pacchetti di sigarette per favore Maddalè. Ma che hai visto Pier Paolo?
Chi??
Come chi?
A Costantì, ma a te te và sempre de scherzà… Beato a te!!

La saluto con un ghigno pregustando il Fernet.
Ma ecco che arriva l’uomo che aspettavo, il grande e prezioso cameraman Valerio Baffidifildiferro, un uomo carico di provvidenza, un uomo che stimo, e a cui voglio bene.
Bene, siamo pronti. Andiamo al Fanfulla, andiamo a filmare il concerto di quell’eccentrico, esploratore visionario chitarrista che risponde al nome di Mike Cooper con Roberto Bellatalla al contrabbasso e Fabrizio Spera alla batteria. Peccato per Leila Adu… Non c’è!! Voci alquanto indiscrete mi hanno riferito che tra lei e Fabrizio Spera è finita… e non solo artisticamente!

Al Fanfulla non si paga il biglietto, è un’Associazone Culturale, si fa la tessera Arci che vale un anno… eppoi ci si consuma!!
Entro carico di aspettative, voglio annusare l’odore del blues rurale del grano appena trebbiato del Texas, ma voglio anche perdermi nelle sfumature azzurro-verdi dell’acquamarina all’estremo Sud dell’Oceano Pacifico, a uno come Mike Cooper, si può chiedere anche questo!!
E infatti gliel’ho chiesto. L’ho incontrato al bancone del bar al quale sornione mi ero recato per fare rifornimento, e lui se ne stava seduto dentro una delle sue camice hawaiane con un berretto con la visiera a sorseggiare una birra parlottando con Spera. Alla mia affermazione mi ha guardato fisso diventando improvvisamente serio, poi mi ha sorriso… quel sorriso la sapeva veramente lunga!!L’espressione e la luce che erano nei suoi occhi mi hanno improvvisamente fatto ritornare alla mente un altro bizzarro signore, l’indimenticabile clarinettista Anthony Joseph Sciacca, al quale invece chiedevo, una quindicina di anni orsono, di farmi annusare l’odore dei divanetti del Minton’s mischiato col mercato della Vucciria di Palermo.
Eppoi improvvisamente, tra un sorso e un altro di Salice Salentino, è iniziato il concerto. Bellatalla ha iniziato a pizzicare il suo contrabbasso con fare furtivo, Spera a rullare la grancassa e a “giocare” con i suoi accessori dandomi una gradevole sensazione di luce sonora, Mike ha appoggiato la sua slide su un tavolinetto iniziandola a solleticare, profondendola elettricamente per tutta l’aere, senza mai smettere di far partire dei loop che avevano un fortissimo retrogusto di field recordings.
Truth in the Abstract Blues
, è un lavoro molto ambizioso, innestare l’Astrattismo all’interno delle ferree regole delle dodici battute non è cosa da poco, specialmente se si decide di pescare nel repertorio di Signori del calibro di Skip James, Robert Johnson, J.B.Lenoir o Blind Boy Fueller.
Nel 1961, Oliver Nelson incise Blues and the Abstract Truth facendo suonare insieme Bill Evans, Freddie Hubbard ed Eric Dolphy, il risultato è rappresentato da gemme preziose come Stolen Moments, che ritmando in 16 misure riesce a trasmettere dei veri miracoli di semplificazione armonica.
Il lavoro di Cooper è però qualcosa di diverso, a mio avviso è molto più astratto, fauve e cubista insieme, i suoi intensi colori e le diverse angolazioni, mi fanno venire in mente dei versi del mio Avvocato preferito… Il mio viso s’intontiva, davanti al tuo parlare difficile… C’era da indossare subito, una camicia hawaiana… E sventolare contento… davanti a un cielo primitivo (Blue Hawai, Paolo Conte). Alla fine del concerto, il mio amico Gianluca Diana, conduttore di Mojo Station mi ha promesso a breve un’intervista a Mike Cooper, ho già allertato il mio cameraman Valerio Baffidifildiferro, ora non mi resta che indossare subito…una camicia hawaiana anche a me!!

Poi, una volta uscito fuori, dopo aver abbracciato e ringraziato il preziosissimo Baffidifildiferro, ricordandogli di salutarmi la Sora Bice, lungo Via Fanfulla da Lodi di nuovo Lui: stavolta correva trafelato reggendosi l’impermeabile beige coi suoi occhialoni e i capelli svolazzanti. Non ho resistito, ho avvicinato le mani alla bocca a cucchiarella, e ho gridato: “Pierpaolooo… Ma ‘ndo vaii?” “Viaaa… Vado viaaaa!” Ha urlato da lontano Lui, correndo verso la Casilina, oltre la ferrovia, verso il Mandrione.
L’aria si fa più dolce qui a Roma, anche di notte, la primavera bussa alle porte. A meno di due isolati da qui abita una meravigliosa profumatissima pansè dal nome Sara che ho conosciuto dieci giorni fa e per la quale sto sconsideratamente svendendo innumerevoli tonnellate di banane. Deve aver chiuso le finestre della sua camera da letto proprio in questo istante. Se allargo le braccia e chiudo gli occhi… Aulisco i suoi feromoni… Domani la chiamo! Le devo assolutamente parlare!

Pubblicato in Ortometropolis | Lascia un commento

in movimento

mi rimetto in movimento. qualche giorno a Barcellona a slacciare consuetudini e impegni. ah, voglio suonare e camminare… recitava il testo di una canzone che qualcuno spero ricordi. più o meno questo, niente di più e niente di meno.
camminare e pensare, ascoltare e vedere. e poco altro.
per quanto riguarda questo blog (e l’altro) si tratterà di una breve pausa: in realtà non smetterò di pensare ad una serie di cambiamenti che già da tempo affollano l’orizzonte di questo spazio della rete. ci sono provvedimenti da prendere e diversi (nel suo duplice senso) sentieri da percorrere. mediterò deambulando, camminerò cogitando. peripateticamente.
per chi non si fosse ancora accorto che lentamente e inesorabilmente stanno mutando usi e costumi della fruizione musicale in rete giungo novello informatore, con tutti gli altri mi piacerebbe intavolare una serie di discussioni e scambi reciproci d’idee. e spero che ciò avvenga.
chiudo.
a presto.

Pubblicato in iNmobilità | Lascia un commento

John Coltrane The Complete 1961 Village Vanguard Recordings

il tempo e gli ascolti hanno consolidatato in me un’idea che molti anni addietro si palesava tiepida e incerta ed eppur così vivida e tenace: la musica è un luogo! l’affermazione è imprecisa e credo debba esser presa col giusto beneficio, ma dietro di essa sussiste (in me) la percezione di una realtà. la musica è uno spazio, immaginato o reale, dentro al quale addensiamo passioni e ansie, ludibrio e sentimento: molto spesso si è materializzato in un luogo fisico, come una stanza, una città o un viaggio. tornarvi, ove possibile, rinvigorirà la memoria in un gioco reciproco di rimbalzi, il luogo suonerà quella musica e quel suono renderà vivifico quello spazio.
altre volte la musica è in grado di creare spazi indefiniti e privati, intangibili per lo stessa natura eppure riconoscibili e odorosi, amniotici. il diciannovesimo gradino della scala di Calle Garay, a Buenos Aires, era l’unico punto possibile per raggiungere quell’Aleph che Borges seppe immaginare: con alcune musiche succede lo stesso, ed in modo univoco. da quel suono a quel luogo, e non il contrario.
John Coltrane The Complete 1961 Village Vanguard Recordings rappresenta per me uno di quei luoghi.

mi fu donato da mio padre verso la fine del 1997. uscì allora quel cofanetto lussurioso con  la registrazione integrale e completa di 4 serate del novembre 1961 al Village Vanguard di New York. etichetta Impulse, naturalmente. oggetto di desiderio e di brama in grado di restituire a chi lo maneggia (ancor prima dell’ascolto) poteri benifici di illusoria immortalità.
il quartetto di John Coltrane era quello “storico” composto da McCoy Tyner al piano, Reggie Workman al contrabasso ed Elvin Jones alla batteria. in quelle serate (mercoledì 1, giovedì 2, venerdì 3 e sabato 5 novembre 1961) risposero alla chiamata del leader e si aggiunsero anche Eric Dolphy al clarinetto e clarinetto basso, Ahmed Abdul-Malik all’oud, Jimmy Garrison al contrabasso e Roy Haynes alla batteria.

sovente mi chiedo se quello sparuto manipolo di occhialuti intellettualoidi che spuntano dalle rarissime foto della serata si rendessero conto in quale punto preciso della storia spazio temporale dell’umanità si trovassero. appesi alle loro sigarette poterono assistere ad un’epifania più unica che rara. chi ha già potuto ascoltare parte di quel concerto nelle edizioni precedenti sa a cosa io mi stia riferendo. forse da quella data, e da quel concerto, è bene ricominciare a considerare un prima e un dopo, un canone estetico o la cifra di un’estasi.

il work in progress di quella fucina in bollore che era l’immaginifico di Coltrane e dei suoi sodali stava, in quel tempo, producendo tentativi di volo e bellezza. i brani eseguiti erano quelli che, da quel momento in poi, sarebbero stati considerati standard: Impressions, India, Chasin’ The Trane, Naima, Spiritual, Miles’ Mode. le differenti interpretazioni nelle diverse serate testimoniano lo sviluppo e la progressione di concetti e stilemi ai confini di quella che, allora (e forse giammai più), poteva essere considerata l’avanguardia di una ricerca di splendore.

la produzione di Bob Thiele e la perizia tecnica di Rudy Van Gelder fecero il resto. la restituzione digitalmente rimasterizzata ci consegna un suono carnale e fulgido nella sua definizione: pare a volte di essere seduti in quella platea e di poter avvertire il calore di quel flusso denso e spirituale. Coltrane e Dolphy, nei loro assoli, paiono sciamani capaci di condurre ovunque le coscienze dell’ascoltatore rapito, lo smarrimento è prossimo e la bellezza cristallina e scintillante.

questa testimonianza sonora è per me un luogo. irraggiungibile imperfetto ed incerto eppur vero e in grado di rapirmi. uno spazio altro nel flusso del mio tempo: una tana, un rifugio, a shelter from the storm o la coordinata di un segreto. posso recarmici ogniqualvolta necessito di estasi, bellezza ed astrazione, a leccarmi ferite o ricostituire senso o traiettoria. per ricordarmi chi ero, chi sono o cosa potrà mai essere di me: non Coltrane o Dolphy e neppure più mio padre possono più dirmi dove o come; ma loro hanno già detto ed io da quel pulpito posso ascoltarli.

il consiglio è ritrovare quel cofanetto, farlo proprio, possederlo e condividerlo: vi è contenuto il senso di un’idea che avrebbe dovuto cambiare il corso delle cose e il fatto che ancora non sia accaduto è semplicemente secondario. il fatto stesso che quel suono (quel luogo) risplende fulgido è bastante ad illuminare l’oscurità che ci circonda. nell’attesa di quel ritrovamento lo rendo disponibile nella sua dimensione massiva ed ingombrante, alla migliore risoluzione sonora possibile. mastodontico e vasto è questo luogo: uno spazio di apparente silenzio. mio. siate i benvenuti.

John Coltrane The Complete 1961 Village Vanguard Recordings
(1 / 2 / 3 / 4 / 5 / 6 / 7 / 8 / 9)

Pubblicato in zzaj | Lascia un commento

Rob Mazurek Quintet live@Area Sismica

quando al secondo bis Rob Mazurek ha alzato gli occhi al cielo (soffitto) meditando sul brano da eseguire per soddisfare le richieste di un centinaio di entusiasti jazzofili, dopo breve pensamento, se ne è uscito introducendo una composizione dedicata alla poesia di Robert Frost, e forse è proprio a quel punto che una fugace illuminazione e un circuito virtuoso si sono riuniti in un solo istante. la strada non presa, la meno battutta, ha spalancato l’immensa differenza che sostanzia la carriera di Rob Mazurek e la differisce da molti suoi contemporanei.
nel caldo e angusto spazio della tenace Area Sismica il quintetto di Rob Mazurek pareva un manipolo allampanato e inacidito fuoriuscito dal kibbutz: barbe lunghe e nobili, agghindati alla moda dell’esercito della salvezza. meditabondi e pacati fino a quando il band leader non ha staccato il primo four e il sabbah ha avuto inizio: Rob Mazurek alla cornetta, John Herndon alla batteria, Matthew Lux al basso elettrico, Josh Abrams al contrabbasso e Jason Adasiewicz al vibrafono. gli stessi che hanno dato vita a quel Sound Is (Delmark, 2009) che avrebbe dovuto scuotere ben più clamore di quello che in realtà gli è toccato, almeno in patria italiota.
il live è denso e consapevole di stare disegnando il futuro utilizzando pennelli e colori vecchi come il ‘900: ciascuno può davvero riconoscerci dentro uno spicchio della propria sensibilità musicale passata. un magma caldo e ventrale contrappuntato dalla doppia linea di bassi che tirano la giacca verso Mingus o verso Michael Henderson, a piacimento. il free, ortodosso e concreto, è completamente sotto controllo, come in un paradosso: cresce la materia sonora, ingigantisce senza perdere dimensione e misura. pare grande la capacità di restare in ascolto reciproco, di curare l’interplay come un pargolo irruento che solo il leader sa richiamare all’ordine con il suo fraseggio ipnotico saturato di delay.
non so a quanti capiti di chiedersi dove stia andando il jazz; e se proprio non si riesce ad individuare una meta almeno si vorrebbe individuare il come. a me capita, spesso. di fronte al quintetto di Mazurek all’opera paiono dipanarsi il bandolo della domanda e il nocciolo della questione: derivazioni e discendenze diverse si incontrano e additano una via che si è certi di poter percorrere. i membri del gruppo provengono da esperienze varie (Tortoise, Iron and Wine, Town and Country o Loose Assembly) che segnalano le periferie e la geometria di questo progetto, e Mazurek, da far suo, conduce e traduce queste spinte verso quel “dove” difficile da immaginare.
la risposta, a questo punto, la si potrebbe trovare stasera (28 febbraio) all’auditorium di Roma per la rassegna Be Music Night oppure ritornando a quel disco che si trova alla fine del sentiero

…two roads diverged in a wood, and I
I took the one less travelled by,
And that has made all the difference.

Rob Mazurek Quintet Sound Is

Pubblicato in 2010, Ao Vivo, zzaj | 11 commenti

David Grubbs & F.S.Blumm Back to the Plants (Music for Drawings)

mi sia concesso di rubare poco e breve tempo. giusto quello che ci vuole ad abbozzare uno schizzo o un semplice scarabocchio. piccolo e minuto è anche il formato di questo disco: 7″ o, si preferisce, 45 giri. come una annotazione a margine, un orecchio alla pagina di un libro. esigua anche la durata dei brani suddivisi in fila per due sui due lati del vinile: poco più di 12 minuti, lo spazio di una divagazione, un orlo di tempo ripiegato nello spazio del giorno. part three/part one sulla prima facciata, part four/part two sul retro.
le chitarre di David Grubbs e F.S.Blumm si incontrano a Siviglia il 2 luglio 2008 per una improvvisazione estemporanea “dentro” una scultura dell’artista Peter Coffin: Untitled (Greenhouse). elettrica quella di Grubbs e classica quella di F.S.Blumm, nella vegetazione verdeggiante, si intrecciano e annodano un sentiero clorifilliaco che riporti Back to the Plants.

la tedesca Ahornfelder riprende in mano questo materiale e lo affida alla rielaborazione dello stesso F.S.Blumm, che lo tratteggia cautamente con sonorità di contorno che non inficiano la naturalezza del gesto improvvisativo. il tutto (il piccolo disco) accompagna alcuni disegni e bozzetti che lo stesso Blumm ha schizzato negli anni precedenti a creare un piccolo cofanetto di squisita fattura.
musica atta a deliziare lo spazio di una sosta nel verde, nella quiete agreste di una pausa boschiva: musica che si dirige verso il poco, il piano e il piccolo. avevo promesso di rubare quasi nulla, spero di esserci riuscito: nei commenti qui sotto l’indicazione del sentiero.

Pubblicato in 2010 | Lascia un commento

Mulatu Astatke Mulatu Steps Ahead (promo)

nel 1972, nel bel mentre del regno di Hailé Selassié I (già noto alle cronache per altre vicende rastafariane), Mulatu Astatke, protetto e coccolato dal suo imperatore, diede alle stampe un vinile dal titolo Mulatu of Ethiopia. la peculiarità di questo disco, prescindendo momentaneamente dalle qualità musicali, è che portava in copertina il logo delle Ethiopian Airlines che contribuirono, nelle figure di Mr.Hagos Legesse e di Mr.Girba Gebu, alla realizzazione del disco.

e fecero anche di più. promossero il disco a colonna sonora dei voli della compagnia e gadget internazionale da distribuire ai gentili viaggiatori che usufruirono delle linee etiopi. si potevano sentire le note dell’ethio-jazz di Mulatu risuonare fra le vetrate dell’aereoporto di Addis o nelle cabine pressurizzate degli aerei. una specie di lounge lussuosa e sinuosa, nazionale e istituzionalizzata.
fra pavimenti di linoleum o moquette, in divanetti in simil pelle, si poteva sorseggiare un drink in attesa dell’imbarco facendo gniccare i mocassini ai ritmi contagiosi di Mulatu. ancor prima di Brian Eno, e della sua sonorizzazione concettuale per aereoporti, il grande Astatke aveva raggiunto la quintessenza della soundtrack concreta.

Mulatu Astatke Mulatu Of Ethiopia

antefatto necessario a narrare invece una vicenda alquanto odierna, se non appena futuribile. la prestigiosa Strut è impaziente di distribuire su tutto il globo terracqueo il nuovo disco del nostro Mulatu Astatke. il chiodo va battuto finché è caldo, eggià, e quindi dopo la sbornia dell’anno scorso assieme agli Heliocentrics, e alla successiva raccolta antologica, ecco giungere un nuovo disco di materiale originale firmato esclusivamente a proprio nome, dopo vent’anni dal precedente.
Mulatu Steps Ahead vedrà la luce fra qualche settimana coaudiuvato dalla presenza di membri degli stessi Heliocentrics, musicisti etiopi, jazzisti dell’area londinese e della Either/Orchestra di Boston.
la Strut, ben conoscendo la bramosìa dei fan e il flagello del dowloading selvaggio, gioca una carta curiosa e involontariamente straordinaria: mette in circolazione un promo integrale del disco e, per salvaguardare vendite e copie piratate, lo screzia con l’intrusione di un elemento di disturbo. idea interessante che avrà certamente dei seguaci, se non fosse che ciò che voleva in realtà danneggiare finisce per impreziosire.
è la voce dello stesso Mulatu Astatke, con il suo inglese africanizzato, a sovrapporsi ad ogni brano è a sillabare dolcemente frasi del tipo You’re listening to Mulatu Astatke’s Mulatu Steps Ahead, oppure This is Mulatu Astatke and you’re listening to my new album Mulatu Steps Ahead.
l’effetto che ne deriva è semplicemente devastante: paiono i messaggi del capitano ai passeggeri in volo, o gli annunci per gli imbarchi immediati ai gates. la memoria ritorna al disco menzionato più sopra e a questa idea di viaggio insita nella musica del nostro.
fra qualche giorno sarà disponibile la versione originale ed integrale, ma credo sia bene conservare e non farsi sfuggire pure questa, perché il rischio Gronchi rosa è in agguato. la voce di Mulatu è calda e lussureggiante, afosa e polverosa come l’Ethiopia. le note sulle quali si adagia vengono impreziosite fino a creare quell’effetto straniante che non sfuggirà ai più attenti.
del disco (meraviglioso, sia ben detto) e dei particolari tecnici credo se ne tornerà a parlare al più presto. per ora sarà bene non farsi sfuggire questo volo anomalo e a suo modo prezioso. Welcome on board!

Mulatu Astatke Mulatu Steps Ahead (promo)

Pubblicato in 2010 | 10 commenti

Rimorso/Rimosso

Mea culpa, mea culpa, mea glandissima culpa!
(dove il superlativo sta ad evidenziare la parte anatomica utilizzata nell’errare)

ci sono cascato ancora. è più forte di me. mi sono fatto prendere dall’entusiasmo infantile ed ho agito con l’istinto basso-ventrale. spunta fuori un nuovo disco di Madlib che frulla cataste di vinili brasiliani ed io, incapace a resistere, butto giù due righe e linko l’indirizzo dove reperirlo. tempo 60 minuti e l’implacabile DMCA mette in moto gli sceriffi internauti che bloccano sito e link. era già successo e per questo mi autonomino glandissimo prepuzio. spacciare di fronte alla questura o rubare alla mafia sono attività che denotano sagace stupidità, ma essendo ancora a tutt’oggi l’entusiasmo a guidare le mie passioni, sono suscettibile a questo tipo di errori. chi adora il dio denaro ha coerenza e determinazione da vendere (sic!) e non ammette che il primo pivello provi a riportare la musica nel luogo d’origine: nella strada, nelle piazze e fra la gente. stupisce che la Stone Throw predichi bene e razzoli male, ma ha per le mani un purosangue che trasforma in oro ogni cosa che tocca: guai a toccarlo! eppure la musica di cui si fa portavoce l’etichetta proviene da ghetti e ambienti dove la legalità non abita più da tempo. coerenza? carneade.
i catechisti di wordpress hanno un fare contrito e misericordioso che aiuta il pentimento: assai gentilmente ti fanno capire che sei piccolo e stai sbagliando, e che le regole le hanno fatte loro affinchè tu le rispetti. discolo è l’appellativo per definire chi sbaglia come me. mi pare appropriato. dunque afflitto e turbato da profondo rimorso mi sono adoperato affinchè il link al disco venisse rimosso. di seguito le poche parole che costituivano il mio post.
p.s. se qualcuno non riuscisse proprio a trovarlo in rete e non potesse fare a meno della dose media giornaliera di tropicalismo in bustina, mi scriva all’indirizzo qui a fianco e gli verrà somministrato e spacciato via mail!

spero non sia una novità il fatto che Madlib, da queste parti, è ben voluto e ammirato come si conviene; altrettanta speranza ripongo nel fatto che mi si perdonerà un piccolo passo indietro ad un post di poco più di un anno addietro. scovai, scodinzolando come un bracco, un tartufo brasiliano del peso di 60 minuti abbondanti seppellito e aromatizzato dal talento del dj americano. raccontai la storia di quel ritrovamento e indicai il luogo del reperimento (è ancora lì) e poi non ne seppi più nulla e pure la rete tacque misteriosa.
per questo non vorrei correre il rischio di ripetere il mio stupore, e la mia meravilha, nell’apprendere che il secondo carrozzone itinerante della serie dei Medice Show, che la Stone Throw a commissionato a Madlib, prevede proprio un volo radente sull’universo immenso della musica brasiliana. check-in, imbarco sul boeing e messaggio confidenziale del pilota: si parte!

Madlib Medicine Show #2: Flight to Brazil è il concentrato possibile di 40 anni di musica popular brasileira liofilizzati in 80 minuti primi. tropicalismo, samba, nordest e prog-rock frullati assieme a jazz, trio electrico e canzone: la mano del dj è lieve come piuma, il vinile sfrigola lieto e i ritmi si susseguono come al carnevale.
non nascondo una personale soddisfazione nell’aver riconosciuto una buona parte di quelle voci e di quei suoni, in un gioco reciproco di assensi e conferme. Madlib pare divertirsi come un fanciullo inconsapevole del fatto che io godo il doppio di lui.
non debbo aggiungere altro, non voglio aggiungere altro: se non si ama la musica brasiliana se ne sconsiglia l’uso, ma se fosse altrimenti consiglio vivamente un giro nel paese dei balocchi tropicale.

Pubblicato in Vita Nova | Lascia un commento

Mike Cooper Blue Guitar (Ten Songs for Guitar and Voice)

torno su Mike Cooper a breve giro di tempo, ma si sa che l’infatuazione snobba le tempistiche e che la passione di nutre di eccessi. scrissi riguardo a Rayon Hula pochi giorni or sono e mentre quelle note dondolanti riempiono ancora gli spazi oziosi ecco giungere un nuovo lavoro del prolifico chitarrista. in più, il tempismo di “Lionel Essrog” nei commenti del post precedente giunge felicemente in contemporanea al mio intento di scrivere ancora a proposito del nostro.
(breve digressione: l’anonimato garbato e discreto è serenamente tollerato dal blog e da chi lo cura, ma di fronte all’acutezza e al buon gusto di alcuni commenti nascerebbe spontaneo il desiderio di saperne di più, di poter condividere e confrontarsi crescendo. mala tempora currunt, non disperdiamo intelligenza e resistenza).
dunque mentre la ::Room40 si accorge e ristampa quel piccolo gioiello di exotica futuribile che è Rayon Hula, il tenero Mike Cooper da seguito e continuazione ad un altro tesoro seminascosto del suo forziere segreto Spirit Songs (qui): ritorna al concepimento di canzoni per chitarra e voce, nell’apparente gesto primordiale del cantautore, ma qui siamo di fronte all’esperienza di una carriera ai margini della sperimentazione che si proietta straordinaria su di un futuribile in stretto contatto con la tradizione (anglosassone e mediterranea).

Blue Guitar Ten Son Songs for Guitar and Voice porta una ingannevole eloquenza in grembo, spiegata e narrata sapientemente dallo stesso Cooper. 10 composizioni scarne e ossute ridotte all’essenziale dalla nobile povertà di mezzi e accompagnate, in soli due brani, dalla chitarra dell’australiano Tim Catlin. è bene precisare sin da subito la tecnica compositiva (assemblativa?) di Mike Cooper: trattasi di improvvisazioni musicali e vocali registrate in tempi diversi e pensate separatamente le une dalle altre e successivamente sovrapposte. in più, la parte testuale, salmodiata e  intonata come una preghiera devozionale, proviene nella maggior parte dei casi dalle pagine di Gravity’s Rainbow di Thomas Pynchon sottoposte ad un ludico e casuale lavoro di cut-up di lontana memoria.
le premesse potrebbero spaventare chiunque, ed invece emerge la capacità innata di Cooper di giungere all’essenziale, emotivo e concreto, del suo fare musica. una musica che porta echi di blues antecedente la guerra, echi di folk ancestrale anglosassone, abbozzi di raga indiani o stralci di sonorità mediterranee che guardano alla diaspora rembetika. materia per la maggior parte acustica (fatta eccezione per un  paio di brani in cui la chitarra viene cautamente processata dall’elettronica) che potrebbe appartenere ad un lontano irraggiungibile e che invece scaglia l’idea di canzone e di improvvisazione in futuro altrettanto inarrivabile.
la musica di Mike Cooper possiede una freschezza benefica che mi riconcilia con questo tempo (musicale) incerto: mi addentro nelle sue composizioni con quel salvifico senso di smarrimento che giova all’ascolto e allo spirito. e lui non tradisce e non inganna mostrando limpido le sue intenzioni. canzoni buone per questi giorni imprecisi.

Mike Cooper Blue Guitar (Ten Songs for Guitar and Voice)

Pubblicato in 2010 | 8 commenti