The Tiger Lillies Freakshow

il 2009 doveva per forza lasciare strascichi che giungessero come eco lontane su quest’anno; amnesie, bellezze sfuggite, distrazioni, atti mancati. e dunque eccone qui uno che incarna per antonomasia le molte altre sbadataggini in materia di dischi preziosi (perduti). The Tiger Lillies, per loro stessa natura, faticheranno a raggiungere una ribalta che li illumini ad occhio di bue ben visibili al grande pubblico. innanzitutto perché il loro terreno è variabile e multiplo, la materia che hanno per le mani ampia, ostica e atemporale, e in più sono poco raccomandabili, sconvenienti e scomodi, così come dovrebbe essere l’arte.
un trio acustico incarnato da Martyn Jaques, Adrian Stout e Adrian Hughes. anglosassoni in attività dalla metà dei ’90 e prolofici come criceti: quasi un disco ogni anno fra studio, teatro e live. ma la ribalta langue malgrado i teatri calpestati, i tour internazionali e una maestria d’altri tempi: il loro artigianato attinge a piene mani dal teatro della repubblica di Weimar, dall’opera e dal cabaret senza dimenticare la vocazione circense, l’opera buffa e il surrealismo dadaista. in più, e non guasta, sono capaci e valenti musicisti che sventolano il vessillo della presenza scenica e della voce dell’istrione Martyn Jacques; marchio indelebile e riconoscibile, vera e propria cifra di queste tigri trasversali.

per chi ama i concept album (io alzo la mano) questo vaudeville circense potrebbe davvero rappresentare una lieta delizia. l’idea è quella antica e mai sfiorita di Phineas Taylor Barnum: raccogliere e mostrare le deformità, le stranezze e le brutture come fossero epifaniche meraviglie di cui ridere, emozionarsi o ritrarsi offesi. in realtà è il gioco dello specchio rivolto verso il pubblico che (ignaro) addita il freak ridendo infine di se stesso e dei suoi simili.
Freakshow (Misery Guts Music, 2009) è quel piccolo tendone delle meraviglie sotto il quale si accampano una ventina di ritratti grotteschi: la donna serpente, la grassona, l’avaro, il nano e quello con tre gambe. l’immortale, il cappelluto, l’orribile e anche Normo; tutti assieme raccontati e derisi, compianti e adulati.
per rallestire tutto questo si sono arrangiate canzoni travestendole di cerone, cipria e belletto, trasportando l’ispirazione dai balcani alla Francia, da Weimar alla Transilvania passando da Broadway. sarà difficile tenere fermi punti di riferimento che possano raccontare la diversità di queste composizioni che spogliate mostrano indecente bellezza: la voce di Martyn Jacques dondola come un trapezio dalle raucedini di Vysotsky alle delizie (mezzo)sopranili di Baby Dee passando per il tono naturale di un cantautore adulto e consapevole. ballate, polke e valzerini ebbri e sconvenienti, ogni ritmo atto all’uopo di raccontare delle brutture e delle debolezze del genere umano, senza mediazioni, pillole indorate o lusinghe.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=RdUMloxitRA]

molto probabilmente non vi sarà una singola nota di questo lavoro che sembrerà inaudita proprio perchè la commedia dell’arte e il teatro sono più vecchi di chi scrive e di chi ascolta. a tal proposito loro le hanno propriamente battezzate OdditiesA carnival of oddities, but who is the freak, them or YOU? questo è il problema! nell’attesa di darsi un risposta che temo di saper già mi fermo per la replica che ricomincia proprio ora. un loro tour italiano pare un miraggio e dunque è bene accontentarsi di questa manciata di canzoni gettate sulla pista fra la segatura e il sipario.

The Tiger Lillies Freakshow

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Mike Cooper
Rayon Hula

se passeggiando per le vie della città eterna ci si dovesse imbattere in un canuto e bizzarro signore che ha superato da poco la mezz’età, con occhiali da presbite, aria trasognata e l’inseparabile camicia hawaiana, lo si potrebbe facilmente confondere con un turista smarrito. ma se, puta caso, lo stesso signore avesse con sé una custodia per chitarra e dentro di essa riposasse il materiale  antico di una National Steel Reso-Phonic degli anni ’30, state pur certi di trovarvi di fronte al nostro uomo.
come un personaggio laterale di un romanzo di Burroughs, quell’uomo (e solamente lui) è in grado di consegnarvi il lasciapassare transgalattico per transumanare nell’universo sonoro parallelo di un pacifico lontano: pochi rintocchi di un gamelan immaginifico, l’impostazione reiterante di un pattern circolare sapientemente dosato assieme a field recordings oceanici, qualche disco rallentato e fatto marciare al contrario e dosati slide della chitarra di cui sopra. ghiaccio, ombrellino decorativo, seltz e l’exotica cocktail polinesiano è servito.
al secolo quell’uomo porta il nome di Mike Cooper, ma chiedere in giro non aiuterà assai. conviene forse raggiungere il suo sito su piattaforma mac (come non amarlo?) e ficcanasare nei meandri di una carriera lunga e trasversale per sua stessa natura. chitarrista, giornalista, sperimentatore, esploratore dei confini del suono moderno e collaboratore dei più diversi intelletti creativi del panorama delle altre musiche che affollano questo tempo. un’esaustiva e consapevole intervista in proposito, a cura di Daniele Cascella, è disponibile qui.

per molto tempo Mike Cooper ha usufruito dell’etichetta personale Hipshot per diffondere e pubblicare i suoi cd-r autoprodotti e assemblati di suo pugno, e il rischio che in molti abbiamo corso è che il passaparola carbonaro non giungesse a tutti i clandestini desiderosi di quei lasciapassare da argonauti. nel 2004 usciva in quel formato Rayon Hula: omaggio sentito e doveroso alla memoria e alla musica di Arthur Lyman, vibrafonista jazz hawaiano in forza alla grande orchestra di Martin Denny insieme al quale fondarono il suono lounge e il concetto di exotica.
ma il tributo Mike Cooper l’ha fatto da par suo, riprendendo i tanti dischi di Lyman e riproducendoli rallentati, stralciando loop e quelle sonorità in bilico fra il subacqueo e l’etereo. ad essi ha aggiunto field recordings ambientali e ornitologici carpiti nei suoi viaggi nel Pacifico (così come faceva Lyman nei dischi di Denny) e rielaborazioni chitarristiche della propria esperienza avanguardista. il rischio di pastiche pasticciato era dietro l’angolo, ma la misura e la concretezza di Cooper hanno prodotto un gioiello dondolante e cangiante come la copertina con la quale la ::Room40 ha voluto rivestire questa doverosa ristampa.

l’estratto video immobile e ipnotico restituisce l’onirico della suggestione e del suono suadente e sonnolento. un capolavoro misconosciuto che riemerge dalle acque turchesi dell’atollo, mescolando l’idea rinnovata di exotica, l’ecologia acustica e concreta di una sonorità ambientale e l’ipotesi del viaggio dentro una dilatazione. avrebbe gradito Burroughs, gradiranno i nostalgici del più celebre ammutinamento della marina inglese, e coloro che avrebbero voluto viaggiare verso le Marchesi assieme a Jacques Brel. Haloa!

Mike Cooper Rayon Hula

Pubblicato in 2010 | 12 commenti

William Basinski Vivian & Ondine

ho sempre associato le sonorità di William Basinski a qualcosa di acquatico, liquido e in movimento. anche quando il nome del compositore americano balzò alla ribalta per aver condensato in suono l’emozione e lo stupore attonito del vuoto di Ground Zero, anche allora io percepivo acqua. la saga della disintegrazione in quattro atti evocava matericità, fibra, polvere e dolore, ma io continuavo ad avvertire acqua in ogni dove. e del resto, vado chiedendomi oggi, cos’altro sono i loops se non rappresentazioni algebriche di onde, flutti e flussi?
vengono in mio soccorso i titoli compresi nella discografia di Basinski: Watermusic (I e II), The River e soprattutto, malgrado il titolo, Variations For Piano And Tape pensato e composto nel bel mezzo del mediterraneo che bagna l’isola di Pantelleria, rappresentazione idrografica della lascìvia marina e dell’ozio arcadico. vengono in mio soccorso, dicevo, a conferma di una percezione che il nuovo disco uscito a dicembre dell’anno scorso finisce per sancire definitivamente.

Vivian & Ondine (2062, 2009), sin dalla copertina che ritrae ancora il mare pantesco, si immerge completamente nel flusso eterno dei moti ondosi. mi permetto di non entrare nei dettagli tecnici della creazione proprio perché preferisco ribadire e attribuire a William Basinski quella capacità che molti suoi colleghi faticano a possedere: il calore denso del suono analogico e la capacità di creare umane sonorità manipolando algide apparecchiature elettroniche.
una sola traccia di 45 minuti e pochi ulteriori secondi: una calda e fluttuante marea che vagheggia sull’elasticità delle onde. l’apparente immobilità che dondola e si increspa nell’intrusione di lacerti sonori, una reiterazione identica e mai uguale a se stessa.
il mio consiglio è di rubare questo tempo al tempo: 45 minuti distesi dentro una vasca calda o adagiati fra le increspature delle federe a basculare lenti cullati da questo caldo magma marino. se sopraggiungerà fastidio o irritazione è bene sospendere l’esposizione, ma se la percentuale idrica presente fra le nostre membra entrerà in osmosi con il suono di Basinski, ogni cellula ne trarrà giovamento.
e se fosse invece il sonno a giungere lento poco importa: leggevo in rete una mail che due genitori hanno inviato a Basinski per ringraziarlo dell’unico rimedio contro l’insonnia caustica del loro neonato. in più il disco è il benvenuto alle due sopraggiunte nipotine del compositore: Vivian e Ondine, onomatopea ondosa la prima e leggenda acquatica la seconda. buona immersione.

William Basinski Vivian & Ondine

Pubblicato in 2009 | 1 commento

Chicago Underground Duo Boca Negra

c’è stato un tempo in cui ho creduto che al jazz toccasse la stessa sorte del rock: la morte, quella brutta e un poco triste. quella che arriva per sfinimento di ideali, mancanza di sogni e fallimento di progetto. un trapasso reso ancor più gretto da parrucconi e baracconi sostenuti a forza malgrado l’inconsistenza del messaggio e il cambiamento inevitabile dei tempi.
ho temuto, dicevo, che anche all’adorato jazz potesse accadere e forse ci si è andati vicini più di una volta: vuoi certa fusion che ascoltata oggi fa letteralmente inorridire e vuoi la stanca e trita ripetizione di standard e stili che non fa altro che apparentare una musica nata per vocazione di libertà a quell’altro baraccone reiterante che è il mondo dell’opera e della classica più stantia. ma come ammonisce il mio amico Jazz from Italy: Il jazz ti insegna la libertà o non ti insegna nulla e per fortuna qualche paladino di questo messaggio non ha mai smesso, come un hidalgo di Cervantes, di tramandare verbo e suono attraverso tempi e luoghi, fottendosene di gloria, fama o denaro. Anthony Braxton, Cecil Taylor, Don Cherry, Ornette Coleman o Sun Ra per non fare nomi, fino a giungere a quella città ventosa che diede i natali all’Art Ensemble of Chicago e sparse spore ai quattro punti cardinali. in quella stessa città, come Marcovaldo nell’urbe, Rob Mazurek deve essersi accorto dei funghi che crescevano un poco ovunque e deve essersene saziato con voluttà.
a lui oggi il compito (ed il merito) di portare oltre un messaggio antico e di non far morire la musica più libera, anarchica e irriverente che mi sia mai capitato di incontrare. e non credo certo di essere il solo. di Rob Mazurek si potrebbe parlare a profusione perdendosi nei meandri di una carriera oramai decennale, in progetti che moltiplicandosi producono senso e bellezza. ma io posso qui solo soffermarmi sull’ultimo, in ordine di tempo, che giunge come un balsamo vitale a rinfrancare cuore e padiglioni auricolari di coloro che hanno a cuore questa musica.

Boca Negra è il quinto episodio del Chicago Underground Duo; esce per l’etichetta Thrill Jockey di Chicago, ovviamente. quinto lavoro per il duo in mezzo ad altri episodi dell’intero collettivo in assetto variabile, ma qui siamo di fronte ai soli Rob Mazurek ed a Chad Taylor. il primo si divide fra cornetta, flauto e programmazione, mentre Chad Taylor prende per mano bacchette, percuote il vibrafono, disegna linee al basso, utilizza la sua mbira e martella il pianoforte oltre a prendersi cura di elettronica e bellezza varia assortita.
disco registrato a San Paolo sotto l’egida di Matt Lux, dove Mazurek risiede da qualche tempo, nell’arco di tre anni a causa dei diversi impegni dei due (tre). è nato un dialogo in bilico fra raziocinio e improvvisazione, brani originali ingentiliti da un omaggio a Ornette Coleman con una cover del brano Broken Shadows. è il frutto di due teste pensanti, consapevoli, adulte e conscie della bellezza di un rapporto duplice e mai banale che si sviluppa in dieci composizioni diversificate, distinte e disperse. sono talmente tante le piste tracciate che a raccontarle si rischia lo smarrimento, tante le direzioni additate, eppure una coesione di suono e intenti stupisce per lucidità e lungimiranza. non mi metterò certo qui a raccontare il free e le sue ascendenze: è un po’ come quando il prete prova a spiegare la trinità o lo spirito santo, o ci credi o non sarà certo lui a convincerti.
mi accontento di fare un punto nave e dire che siamo in qui ed ora dove Africa, Don Cherry e il Miles che sarebbe potuto essere convivono assieme ad una blanda elettronica, visioni notturne e a quel messaggio primigenio che il jazz non deve smettere di trasportare; del resto le coordinate che i due musicisti stanno spargendo per i sette mari portano a Marc Ribot o agli Iron & Wine, passando per i Digital Primitives per giungere ai Land of Kush. in ogni caso ciò che conta è che il disco è qui e molto presto lo sarà anche Rob Mazurek per il tour di quell’altro suo capolavoro che è Sound Is: credo se ne riparlerà.

Chicago Underground Duo Boca Negra

Pubblicato in 2010, zzaj | 4 commenti

Birdie Hop

se è vero che una rondine non fa primavera e che per prendere due piccioni necessita una sola fava e pur vero che tre civette sul comò (oltre a far l’amore con la figlia del dottore) debbono pur significare altro. tante sono infatti, nella consueta girandola di ascolti e riproposizioni, le civette appollaiate sullo schermo della mia scrivania, e, vuoi il gioco o l’insanabile infantilità, mi viene illogico e pertinente accomunarle e proporle qui.
la canzone per bambini racchiude spesso insondabili motivi d’interesse anche per il pubblico più cresciutello, vuoi per quel fanciullino che ciascuno si porta dentro o forse perché dietro una maschera di apparente semplicità si nascondo in fondo verità che non temono smentite. in più la licenza di spaziare fra fantasia e demenzialità ha sempre attratto compositori di tutte le età e movimenti culturali che al sogno (naturale o indotto) e alla naturale innocenza rivolgevano le loro aspirazioni creative.
ho spesso rivolto la mia attenzione, a questo proposito, verso l’universo anglosassone, sin da quando, ancora piccino, mi chiedevo perché mai un sommergibile dovesse essere giallo e perchè mai tutti ci stessimo vivendo dentro. pure da adolescente restavo perplesso leggendo il capolavoro di Lewis Carroll trovandoci sfumature assai diverse da una favola apparente. poi fattomi ometto ho capito che le pillole che mi dava la mamma non facevano assolutamente nulla e che i conigli bianchi la sapevano assai più lunga di quanto osassi immaginare. e infine spaventapasseri, elefanti effervescenti e il Birdie Hop (da cui ho rubato il titolo) hanno fatto il resto.
è per questo che appena scoperta questa preziosa ristampa della Poppy Disc mi sono catapultato nell’ascolto. vuoi perchè la voce femminile era di quella (non ancora) Mary Poppins tanto cara ai fanciulli e soprattutto perché le musiche erano composte da un vero e proprio vichingo della sesta avenue.
Tell It Again – Songs Of Sense & Nonsense fu inciso nel 1957 da una giovine Julie Andrews affiancata dall’esperto attore inglese Martyn Green: i due cimentarono le loro ugole in una serie di filastrocche e indovinelli, scioglilingua e giochetti, e lo fecero sulle musiche sghembe e curiose di un Moondog (già si disse) che iniziava allora a far conoscere una delle carriere più strambe e laterali della storia del ‘900. pensavo a quei fanciulli cresciuti ascoltando la stranezza di quei tempi dispari e di quelle percussioni indigene che nel bel mezzo dei ’50 saranno parse perlomeno evocative; ne è uscito un lavoro curioso e divertente, per chi vorrà ascoltarlo, che rinfranca quella piccola dose di non senso necessaria ad affrontare la modernità sordida e indecente.

Moondog with Julie Andrews & Martyn Green Tell It Again – Songs Of Sense & Nonsense

ascoltando le musiche di Moondog mi è tornata alla mente una raccolta di qualche anno fa compilata dall’etichetta Trunk. raccoglieva un caleidoscopio di canzoni e melodie folk che gravitavano attorno alla pioneristica trasmissione inglese Vision On trasmessa dalla BBC dal 1964 al 1976 (video). o meglio: l’emissione era pensata come didattica per i bambini non udenti e utilizzava a tal proposito una serie di animazioni e di figure in movimento. fra queste le celebri fuzzy-felt, vere e proprie pezze multiformi di stoffa utilizzate per comporre figure e oggetti, un gioco comune fra i fanciulli inglesi di quel periodo. musiche e canzoni accompagnavano la trasmissione e furono di certo fonte di ispirazione per tutti quei bambini che più in là imbracciarono una chitarra e si misero a strimpellare.

Fuzzy-Felt Folk è una deliziosa raccolta di quelle canzoni in bilico fra folk classico anglosassone, un tocco di quella psichedelia che invadeva il globo e l’illogica allegria dell’infanzia. gradevole e curiosa, per strani adulti (non cresciuti) e magari pure per i loro figliastri, così come recita la copertina. in più, aggiungo io, il disco contiene una rivelazione relativa al brano My Mother Said di Christopher Casson: lo getto lì a mo’ di indovinello, ma purtroppo non si vince nulla se non la mia stima.

Fuzzy-Felt Folk

e per ultima, ma solo di posto, viene la terza civetta sul comò a conferma della stretta parentela fra la canzone folk e le narrazioni musicali per i più piccoli. risale al 2001 un cd-r di debutto per la cara (al blog e a chi lo scrive) Josephine Foster: si chiama Little Life e credo sia stato successivamente ristampato dalla Kung Fu Records (non ne sono certo). in ogni caso mi preme sottolineare come si trattasse di una raccolta di canzoni per l’infanzia, udite direttamente o ripescate dalla florida tradizione anglosassone, come volevasi appunto dimostrare. ninna-nanne, filastrocche e strutture giocose accompagnate da banjo, arpa, pianoforte e chitarra e dalla voce di Josephine mai così materna e consolatrice. bellissimo, ma non c’è bisogno che lo aggiunga.

Josephine Foster Little Life

e così si può cantare l’ambarabacci ci cocò di infantile memoria, le tre civette in bella mostra sul comò e tre curiosi dischi a compendio di un ragionamento attorno al quale mi trastullo da qualche tempo.
chi vuol giocare metta un dito qui sotto!

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Harappian Night Recordings Non Euclidean Elucidation Of Shamanic Ecstasies

mi sia concesso di intrattenermi per un poco attorno ad un progetto che non finirà di certo nelle playlist di fine anno (di quello passato o di quello corrente), e che per stavolta esulerà i concetti di qualità musicale o di valore intrinsecamente elevato, ma la mia porzione di anima stravagante è stata letteralmente rapita da questo trip mesopotamico.
Harappian Night Recordings è lo pseudonimo che ha scelto Syed Kamran Ali per catturare e registrare le sue fantasticherie musicali, veri e propri viaggi a bordo di kilim volanti sulle alture caucasiche e più giù verso l’universo arabo e l’oriente indostano. di Kamran Ali potrei dire assai poco anche perché la sua figura è circondata da un velo di mistero; di residenza anglosassone ma di ascendenze asiatiche di seconda (o terza generazione) e noto come facente parte del gruppo The Hunter Gracchus e gravitante attorno all’etichetta ascendente di Sheffield che porta il nome di Singing Knives.

l’esordio per la Bo’Weavil dal titolo The Glorious Gongs Of Hainuwele non era sfuggito agli amanti di un certo suono deviante e di matrice freak-etnomusicologica. un composto organico assemblato con field recordings (rituali, suk, divinazioni) e da dischi misteriosi suonati sovrapponendo ad essi percussioni, chitarre acide o suoni radiofonici captati dalle sponde orientali del pianeta. lavoro apparentemente ostico e fuorviante ma che lentamente, ascolto dopo ascolto, concedeva intromissioni e percorsi ambigui verso i suoni dell’emisfero arabo-indostano. come ascoltare un mangianastri che trascina una audiocassetta stropicciata nella bottega del barbiere mentre sulla piazza di fuori esplodono le urla del mercato soleggiato – il tutto in una qualsivoglia piazza mediorientale. un poco di gamelan, del misticismo sufi e qualche raga indiano mischiato alle carovane tuareg e alle preghiere di un bramino.
per chi volesse ascoltarlo per intero rimando alle sponde di uabab oppure ci si può accontentare di questo video (e stabilire che non si vuole procedere oltre).

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_AzLV7zDMtM]

ma la vena prolifica e aberrante del nostro non pare arida. e se a qualcuno (me compreso) è parso già abbastanza stravagante il debutto è bene prepararsi ad uno sproloquio di dischi e suoni in arrivo da vari angoli del pianeta. al solo volgere dell’anno sono usciti ben tre nuovi lavori a nome Harappian Night Recordings: un cd-r per una neonata etichetta egiziana (100Copies) che dovrebbe portare il titolo di Ten Reveries On Psychopathic Alchemy (il sito non ne evidenzia traccia e sono gradite eventuali segnalazioni) e un ulteriore cd-r per la Singing Knives dal titolo International Sex Hits For Persian Miniatures (e anche qui le notizie scarseggiano). ciò che è certo invece è che l’etichetta Ikuisuus ha pubblicato quello che a tutt’oggi è considerabile il seguito del debutto di cui sopra.

Non Euclidean Elucidation Of Shamanic Ecstasies è, se possibile, assai più deviante e destabilizzato del precedente. l’etichetta lo descrive così: Winnowed from the polymath, alchemist, “the man who could walk through in-between positions”, arch Black Duke of Maknovischina, peripatetic flux ingester haji gutterpup Ustad’s Almanac, his scribblings and tapes spanning 31 yrs, “Non-Euclidean Elucidation Of Shamanic Ecstacies” was hastily transcribed and assembled sixty nadis travel west of Sahiwal by an assemblage of Vamachara hounds and the Abdals of Rum wearing black mantles and animal hides over their shoulders with pouches of flint and herbs. Some with felt cloaks carrying drums, bells and horns, sometimes screaming. Others carrying large yellow spoons, iron rings, sucai clubs, ankle bones and singing bowls. Swords drawn across their chests and snakes twining the arms. After 30 days of pitri they sculpted 10 psychic enemas.
e io non so sinceramente cosa potrei aggiungere oltre se non che sembra una approsimazione per difetto. distorsioni, improvvisazioni acide che cozzano con tamburi erranti, canti di pastori e litanie di transumanza. onde lunghe ricevute da antenne traballanti ritrasmettono l’idea punk addosso ai caffetani odoranti di incenso e montone. ripeto, forse è più il valore immaginifico di quello strettamente musicale, ma l’idea stuzzica il mio esotismo e l’anarchia intrinseca al progetto.
sbirciando fra influenze e similitudini del myspace, fra nomi sconosciuti e impronunciabili spunta per incanto il nome dell’illustre cugino Jorge Luis Borges e probabilmente proprio a lui si potrebbe far riferimento per catalogare questo delirio di stravaganza e inusitata immaginazione.
non me ne abbiano gli amanti della melodia e del clavicembalo ben temperato, ma le mie orecchie abbisognano di viaggi inaciditi e miraggi da mille e una nota, e se poi fossi riuscito ad incuriosire qualcuno non resta che seguire la cometa qui sotto.

Harappian Night Recordings Non Euclidean Elucidation Of Shamanic Ecstasies

Pubblicato in 2009 | Lascia un commento

uabab
BLOG IN MANUTENZIONE
BLOG UNDER MAINTENANCE

uabab suona come un palindromo zoppo o come un ballo da soubrette se letto allo specchio. è il rovescio di uno spavento atavico che si inerpica in tre vocali e due consonanti. due sillabe a fare dispari lettere. acromino improbabile e onomatopea araba, non è un babà e neppure un bau bau: è uabab!
è il nome che ho scelto per battezzare un blog gregario a questo. si prenderà il peso delle borracce e delle forature, fenderà l’aria in pianura e ricucirà strappi di fuggitivi di giornata, per lo più fatica, e poca gloria.
non c’è bisogno che racconti di una nuova e inattesa maniera di fruire la musica, lo sanno tutti, e così dopo un garage pieno di vinili e una libreria piena ed impolverata su cui impilare cd è giunto il tempo di uno spazio intangibile e idoneo, assai più capiente dei precedenti. per di più luogo condiviso e discretamente pubblico, a suo modo generoso, specie di coscienza auditiva dove finiranno diligentemente i suoni di questo mio tempo incerto e di quello che sarà e verrà.

nacque tutto ripensando a quel panoptikum praghese in cui si accumulavano memorabilia e chincaglieria varia e assai di più a quel film (straordinario) in cui Nicholson facevi i conti con i suoi fantasmi (anche musicali): si chiamava five easy pieces. ne vennero fuori due rubriche che continuano a fiancheggiarmi qui a
destra, io le nutro del mio disordine e loro mi restituiscono scampoli di coscienza e apparente logicità.
ebbene, da qualche tempo vado diligentemente affastellando quei dischi nel blog gregario, gemello eterozigoto e cugino sciocco; andranno a formare quel panoptikum udibile che (forse) rappresenterà ciò che, da un certo tempo in avanti, ho ascoltato, amato e con il quale mi sono trastullato.

www.uabab.wordpress.com

a borguez audible panoptikum – così recita il breve e sintetico pistolotto esplicativo e mi auguro siano comprensibili intento e fini. il work in progress cincischiava da un paio di mesi e ho pensato che fosse bene porre bando alle ciance e presentarlo in società. ci lavorerò ancora, è certo, ma per ora eccolo qui (lì).
in più, e non è cosa da meno, lo spirito divulgativo renderà disponibili (ove possibile) i suoni e i dischi che si ammucchieranno in quel luogo. sarà come rifare ciò che in fondo ho sempre fatto dalla tenerà età in cui sono stato in grado di premere il tasto rec di un tape: incidere nastri, assemblare compilations, regalare dischi, masterizzare cd e scambiare (condividendo) musica.
è tutto
uabab (a mo’ di saluto)

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Gil Scott-Heron I’m New Here

debbo confessare che molte sorprese mi sarei aspettato da questo nuovo anno musicale, ma che per quanti nomi avessi divinato non mi sarebbe mai venuto in mente quello di Gil Scott-Heron; anzi, le ultime cronache a me giunte lo davano amaramente prossimo a tristi sponde, affondato per suo stesso pugno in vortici di vizio e sconfitta, definitivamente perduto. la rivoluzione non è giunta, la televisione infatti non ne ha dato notizia: The Bottle e la Angel Dust dalle quali Scott-Heron metteva in guardia le giovani generazioni afroamericane dei ghetti hanno finito per inghiottire lo stesso predicatore fino ad affondarlo nell’oblio del mondo e di se stesso. nascosto così a lungo dallo stesso immaginario che aveva contribuito a creare che persino le nuove generazioni di musicisti a lui debitrici ne avevano perso spirito e coordinate.
ma non si può mai dire che è finita finchè non è finita, e Gil Scott-Heron è tornato!

I’m New Here (XL, 2010) è l’atto di nudità e redenzione di chi ha conosciuto sconfitta e peccato, sin dalla foto copertina. annichilite le forze, tarpate le ali di una voce che ha fatto sognare una comunità, perduti denti e chilogrammi. disco duro, per un pubblico adulto: non nego che ho immediatamente pensato alle dolorose contorsioni di Billie Holiday in quel Lady in Satin il cui ascolto risulta quanto meno doloroso per chi la ha amata.
arrangiamenti scarni, beat dolenti e blandi a costruire un tappeto sul quale la voce di Heron può ancora splendere di dolore e umana bellezza. c’è spazio per confessioni in brandelli rubati in studio che danno l’incipit a digressioni ritmiche che si raccolgono a sostenere preghiere laiche.
contrizioni di chi ha camminato su piste di zolfo (Me And The Devil) diasattendendo promesse calde di mattino (I’ll Take Care Of You), incubi notturni ebbri e angoscianti (Where Did The Night Go) in una Grande Mela che diventa il pulpito da cui intonare un gospel mefistofelico e asfittico (New York Is Killing Me). scappare angosciati dai propri incubi (Running) a bordo di stampelle claudicanti (The Crunch) fino a raggiungere l’unico specchio che riflette il proprio volto sfatto e vinto. On Coming From A Broken Home (in due parti) apre e chiude il disco in un rituale salmodiante di ammissione di colpa.

ho fin qui taciuto del sussulto al cuore avuto all’ascolto della title track: I’m New Here è la cover che giunge dritta dritta dalla penna di Bill Callahan e da quel capolavoro affettivo che è A River Ain’t Too Much to Love che ho appena collocato fra i dischi del decennio scorso (e in realtà della mia vita tutta). interpretazione folkster, come il Cash degli American Recordings, chitarra e voce sbilenca a cucirsi addosso una canzone di contrizione e rinascita. credo di aver bisogno di qualche giorno per rendermi conto e realizzare quanto appena scritto, e magari proverò a esplicitare meglio e con la dovuta calma.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=gbZVdj_d62M]

un suono ventrale, una voce immensa nella sua decadenza a ricordarci le origini dell’anima afroamericana. un disco crudo (credo di averlo già detto) e con le budella di fuori. credo se ne riparlerà qui e soprattutto altrove. l’anno (il decennio) non poteva sorprendermi oltremodo.

Presto, portate qui la veste più bella, e rivestitelo, mettetegli un anello al dito e dei calzari ai piedi; portate fuori il vitello ingrassato, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,  perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita; era perduto, ed è stato ritrovato.
(Luca 15,31-32)

Gil Scott-Heron I’m New Here

Pubblicato in 2010 | 23 commenti

2000/2009 le plausibili considerazioni

più o meno un mese fa mi sono promesso di pensare un poco al decennio trascorso, e di pensarci in termini musicali: questo posso, al limite, riuscire a fare. l’idea era di prendersi la calma necessaria per ripercorrere uno spazio oramai impalpabile e irraggiungibile, ritrovarlo attraverso quei dischi che lo hanno segnato e significato. trastullo personale, sia ben detto a scanso di equivoci assolutisti. quindi non ne gioverà né la storia della musica e neppure la completezza enciclopedica, tutt’al più sarò io che potrò procurarmi qualche emozione quando domani leggerò di cosa ho scritto oggi a proposito di ieri.
mentre li conto ne annoto 18, numero anomalo e per lo più incapace di raccontare un decennio. molti gli esclusi, tanti quelli amaramente scartati e, spero, pochi i dimenticati. D’angelo a far debuttare un decennio, forse il canto del cigno di un suono e di un pensiero soul: ho creduto giusto celebrarlo anche per questo (con buona pace di Cody ChesnuTT che ancora attendo come fosse Godot). di cigni e di ultimi canti si potrebbe parlare anche per Marvin Pontiac: John Lurie ha taciuto per tutto il decennio finendo per intristirlo un poco, ma i cigni sono pink flamingo e i canti sono d’Africa. la più perfetta sintesi fra canzone d’autore e l’idea del continente primigenio: definitivamente imperdibile!
Vincent Gallo ha realizzato nel 2001 un one-shot di rara bellezza. la canzone rarefatta e slabbrata, dolente, la più malinconica delle dolcezze. attendo il seguito inutilmente da chiunque sia capace di tanto: ancora non giunge. forse è uno di quei dischi che mi prenderà alle spalle invecchiando e a lui mi arrenderò.
Beth Gibbons & Rustin Man hanno messo in chiaro l’inadeguatezza della stagione sin dal titolo, ma la circolarità del tempo non fa che riportarci ogni volta ad emozioni conosciute. non ho ancora smesso di ascoltarlo, credo che alla fine tutto si riduca essenzialmente a questo fatto. dello stesso anno e a memoria dell’evento del decennio l’intuizione sonora di William Basinski: chi conosce la caduta amerà la lentezza e la dispersione dei pezzi della propria anima, ascoltarne il suono. ho viaggiato così tanto dentro questi spazi che ho l’impressione di non essermi mai mosso. ed è pure possibile.
molti dischi ancora nasceranno dalle dolenti pene del cuore, Beck ha parlato del suo. raccolta organica e dolente, integra e fiera: sono nate canzoni così languide e dense che si finisce per fingere di soffrire al posto suo. o lo si fa sul serio.
per tutte le notti solitarie che verranno, quelle lunghe e incerte. per tutte quelle e queste passate porterò con me il disco dei Lambchop a dipanare i pensieri e calmare le membra. la notte è femmina: Is A Woman!
David Sylvian ha riscritto la forma canzone, è stato bello potervi assistere. da questo punto indietro non si torna se non a caro prezzo. è già stato gettato il ponte sul prossimo decennio (Manafon): è bene essere pronti ad attraversarlo.

Leonard Cohen, dopo questo disco, avrebbe potuto raggiugere il suo buen retiro di saggezza e bellezza. non lo ha fatto, e questa è tutta la meraviglia che ne consegue. a bassa voce dico disco del decennio.
appena ascoltai Tom Waits ingarbugliare il suo funky cubista mi ripetei che ci sarebbero voluti anni per comprenderne la grandezza e la lungimiranza: molti ne sono passati ma non bastanti ad abbracciarne il delirio. avanti così!
il più prolifico e beato dei cherubini della canzone ha invaso il decennio, scegliere ha significato scremare bellezza ma di Bonnie ‘Prince’ Billy porterò questo disco nel nuovo tempo, e lui mi confonderà ancora.
le canzoni del battello ebbro che spesso ho creduto di timonare le ha scritte Matt Elliott. affinchè ci siano ancora bottiglie, sbandamenti, cori da intonare fra amici e quelle stesse paure che fanno ritornare alla bottiglia. alla salute!
Howe Gelb ha raccolto, in memoria di un amico perduto, un pugno di canzoni incantate di polvere e deserto. l’America (maiuscola) non mi è mai stata così vicino, per poi allontanarsi nuovamente…
il suono del mio silenzio se lo sono rubato due sconosciuti finlandesi: non sapevo di avere una coscienza al fosforo piantata fra l’aorta e l’intenzione. The Gentleman Losers sono giunti laddove non sapevo di essere vulnerabile, quello spazio e quel suono definitivamente occupati.
Bill Callahan nell’incarnazione Smog ha realizzato il disco che verosimilmente ho ascoltato di più. ne conosco pieghe e sussurri, fruscìi e sbavature: posseggo un luogo di rifugio dalle intemperie e da ogni mala tempora, tornarvi sarà come tornare indietro, in alto e a margine di tutto il resto.
l’Africa è giunta alla mia porta nella sua versione più elegante e occidentale, le ho ceduto volentieri. Toumani Diabaté dialogando con se stesso ha finito per parlare la lingua colta di questo pianeta distratto. la porta si è aperta ed è entrato tutto il resto, ma a lui l’onore della prima accoglienza.

mancano Dylan e Cash, ma il verbo non è appropriato alla loro grandezza. manca molto altro ma non me ne cruccio. la scelta, come si diceva, è solo mia e se qualcuno avesse rimostranze da fare sono lieto di poter rispondere. gentilmente.
per il resto non posso che decretare la fine di un decennio che ne prevede da subito uno nuovo. va così, non credo ci si possa fare nulla e dunque così sia.

p.s. i link di questo post rimandano ad un luogo di cui presto sarà bene parlare. poi.

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2009: un plausibile resoconto

nel 2009 ho ascoltato così tanta musica che il miglior auspicio che possa farmi per l’anno appena iniziato è di ascoltarne almeno altrettanta. è definitivamente esplosa e si è cronicizzata la mia inguaribile esigenza di ascoltare, scoprire e curiosare attorno al mondo dei suoni: avrei già potuto saperlo all’età di 6 o 7 anni, ci è voluto un poco di più, ma ci sono arrivato comunque.
continuo irrimediabilmente ad ascoltore di tutto, oltre i generi, il tempo e molto spesso oltre quelli che pensavo fossero i miei gusti. mi muovo senza confini in un territorio apparentemente immenso con una bussola rodata e parzialmente arrugginita: riescono a darle noia solamente l’opera, il noise estremo e chi fa finta – ciò che resta mi trova disponibile.
annata di termine e di passaggio verso la decina successiva, chiave cruciale verso ciò che sarà: mi permetto l’artificio di individuare grandi aree dei miei ascolti per trarre fuori una decina di dischi che tenteranno di tratteggiare l’anno oramai fuggito.

vecchi leoni
non hanno mancato di ruggire e di far sapere ai cuccioli riottosi chi ancora detiene regale discendenza e venerabile conoscenza: Bob Dylan segna ancora svogliatamente il tempo, Tom Waits ha preso una tangente irraggiungibile per chiunque, Leonard Cohen deve aver scoperto qualche fonte miracolosa di purezza, Joe Henry studia per divenire gigante, Lee Perry è caduto nel dub da piccolo e non abbisogna che di una miccia per riappicciarsi, Ramblin’ Jack Elliott è l’unico credibile zio d’America e David Sylvian è il santone della mia religione silenziosa (ammesso che io ne abbia una).
ma il vero ruggito giunge dalla culla della civiltà etiope, sorvola questo tempo distratto e si pone, viscerale e siderale, nel groove ipnotico del tempo che verrà: un vero ponte sotto al quale ci si deve ritenere fortunati di esser potuti passare.

cantautorato adulto
amo la canzone costituita di quel niente che è capace di mettere in piedi il cantautorato, quello adulto e consapevole. i bardi di questa dottrina non hanno mancato di distinguersi: stavo per dire che Vic Chessnutt aveva raggiunto l’apogeo del suo songwriting ma lui non ha più avuto voglia di ascoltare. poi Bonnie ‘Prince’ Billy che non ci fa mancare la messe annuale di bellezza, Bill Callahan che non vorrei citare da fan geloso di condividere, Brian Blade che mi ha sorpreso, James Yorkston & The Big Eyes Family Players che sarà bene i vecchi nostalgici di certo folk non perdano d’occhio e Richard Hawley che ammansisce le mie disparità.
ma il debutto di questo fanciullo imberbe ha sbaragliato la concorrenza: oscure profondità stracolme di bellezza, strutture sghembe e notturne, una voce perfetta per cantare canzoni perfettamente diverse. sta ancora crescendo ascolto dopo ascolto e io non posso che attendere un seguito.

l’altra metà del cielo
alla fine è sempre una donna che ti frega! chiosava un qualche western di cui non ricordo più titolo o circostanze: le pulzelle della canzone non hanno mancato di moltiplicarsi e di incantare così come da molti anno accade. la scoperta di Tiny Vipers va accolta con letizia, Hope Sandoval ha sposato notte e oscurità e trova le mie felicitazioni, Elysian Fields hanno quel fare ruffiano e sornione al quale finisco per cedere, Tara Jane O’Neil è alla ricerca del volo definitivo verso la consacrazione e Alela Diane prova ad imitarla.
ma io sono cocciutamente innamorato di una maniera antica di salmodiare canzoni, di una grazia goffa da albatros e di un folk ancestrale ancora per oggi inarrivabile. specchio, specchio delle mie brame…

afrolatinamerica
quel grande bacino culturale che ha l’oceano atlantico come confine continua a fluttuare e ad alzarsi con le maree. le sponde di quel luogo rimbalzano suoni che si intensificano e si mischiano da secoli. parlano la lingua del paese più ad ovest d’europa.
Caetano Veloso porta la bandiera, Maria Bethânia l’orgoglio muliebre della tradizione, Yoñlu è la promessa che ha voluto negarsi, Cesaria Evora la musa di una saudade sciabordante, Bonga l’entusiasmo mai domo e Deolinda la declinazione più giovane del vecchio continente lusitano.
ma il giaggiolo più sorprendente e iridescente rinasce ogni volta da una nuova marea, da una nuova generazione figlia di uno dei più importanti patrimoni folclorici popolari: ed è meraviglioso!

afrique
la terra madre non smette di chiamare, di ingigantirsi all’orizzonte dell’occidente idiota e perduto. da laggiù (lassù?) provengono battiti cardiaci ancora veri, entusiasmi antichi e segreti inattesi. Bassekou Kouyate ha realizzato un disco ancor più bello del precedente e come abbia fatto non pretendo di saperlo, ho visto Oumou Sangare incarnare l’orgoglio e la fierezza delle donne africane e lo Staff Benda Bilili sovvertire l’ordine del fato e del destino. ma la mia scelta raggiunge lo spirito di combattenti che credevo sconfitti: le ultime prove avevano affievolito l’ardore degli esordi, le chitarre addolcite, le parole sedate e le sirene della celebrità tendevano imboscate. sbagliavo: mai dare per morti dei guerriglieri!

ridd’m (beat/hip/soul)
la mia piccola percentuale di negritudine sanguigna continua a scuotersi al battito dell’anima soul. subisco il fascino di un suono che non mi appartiene per formazione ma al quale ambisco per tentazione. The Sa-Ra Creative Partners una delle conferme cosmiche con la sua appendice oltranzista di Shafiq Husayn. Georgia Anne Muldrow ha riportatato il battito in casa d’Africa e splende di luce propria, mentre le Dillanthology della Rapster ci ricordano cosa abbiamo perso. e se Madlib è fuori categoria da assai, allora il beat più interessante e caustico è (per ora) l’ep degli EarPeace: li attendo al varco. ma è nel gotha degli mc’s che vado a pescare questa gemma scintillante: appartiene di certo al mainstream e alla cultura pop di vasta scala, ma non è peccato: possiamo dire che i Beatles non fossero mainstream?

ambiente
ho riempito il mio ambiente amniotico di suoni sempre più rarefatti e dilatati, ho virato decisamente, nell’anno trascorso, verso la conoscenza dell’approccio digitale e elettroacustico. ho fatto scoperte liete e mi riservo di imparare ancora. mi sono stati fidi compari i sempre amati Gentleman Losers, e mi sono sinceramente emozionato viaggiando in auto con Fuqugi. Fennesz ha inventato una nazione dove chiedere asilo e Musette ha distillato la primavera in musica. Les Lendemain e i Mountains hanno aperto orizzonti che il prossimo anno vorrei completare. il viaggio più profondo però è stato quello accompagnato da una voce sodale che mi ha guidato alle radici di un suono americano ancora da esplorare, verso la conoscenza di un compositore geniale e discreto.

avant (un poco oltre verso l’altrove)
le musiche che esplorano i confini della galassia segnano il passaggio ai futuri possibili, è bene prestargli orecchio e ascolto per sapere, con buona approssimazione, dove approderemo. suoni che mischiano attitudini e discipline, estrazioni culturali e sperimentazione. i Digital Primitives sono la piu straordinaria sorpresa di un suono che non smette di stupire, Pascal Comelade si è sobbarcato il suono europeo sulle spalle e lo porterà dove meglio crede. i Land of Kush soddisfano il fabbisogno lisergico di ogni idividuo di buona volontà, mentre John Zorn abbisogna di una dozzina di biografi per annotare diligentemente le frenetiche uscite discografiche. Paul Baran è il nome che rimane appuntato prima di gettarsi interamente nell’anno nuovo. fra questa babele di suoni mi sono lasciato irretire da un viaggio sicuro condotto da nocchieri esperti verso le lande arabo-mediorientali: ambra e delizia, saggezza e muta riconoscenza.

band
non saprei esattamente specificare quale macrocategoria rappresenti la definizione band nel mio apparato (audio)cognitivo: credo riguardi la creazione multipla, la polifonia vocale, la commistione di teste e idee. i Grizzly Bear potrebbero vincere a guantoni calati, ma da loro, sadicamente, so di poter attendere il reale capolavoro. Animal Collective e Dirty Projectors trovano il mio ascolto curioso e consapevole, conscio di trovarsi di fronte la frontiera più avanzate del pop corale 2009: resto stupito di come non finiscano per piacermi assolutamente, ma poi non lo dico, lo tengo per me, o al limite lo scrivo in un blog. la vera sorpresa, per questo, parla ispanico, mi confonde nel caos di suoni e voci e stordisce la mia attenzione: disco misterioso che ancora ascolto e che mi accompagnerà anche in quest’anno debuttante.

ristampe, riemersioni, riscoperte
il mio udito è anziano, nel senso che non smette di credere di avere un fututo misterioso alle spalle. il tempo, la rete e qualche speleologo di buon gusto non smette di riemergere dal passato con leccornie e vere e proprie epifanie. il mondo delle ristampe basterebbe (forse) a soddisfare la mia ansia di ascoltare. Betty Davis chi l’aspettava più? il lavoro della Analog Africa meriterebbe il Nobel per la bellezza (Legends of Benin, Orchestre Poly-Rythmo de Cotonou), così come la Strut Records o la Honest Jones Records, 0 ocosì come della Soundway vale quanto appena detto. io però resto incantato di fronte alla freschezza di una voce e di un suono ondulanti, al ritmo blando che addolcisce gli animi e alle straordinaria modernità di un calypso di mezzo secolo indietro. bellissimo!

sono arrivato in fondo, credo. chiedo venia se ho annoiato e a tutti quelli che mi sono dimenticato, ma il nuovo anno è già qui e del 2009 presto ci si sarà già scordati. ecco dunque dieci dischi che ricorderò, sono in ordine sparso (tranne il primo) e tutti ascoltabili (a buon intenditore): a presto!

Mulatu Astatke & The Heliocentrics Inspiration Information
DM Stith Heavy Ghost
Josephine Foster Graphic As A Star
Mayra Andrade Stòria, Stòria…
Tinariwen Imidiwan:Companions
Mos Def The Ecstatic
Brian Harnetty & Bonnie ‘Prince’ Billy
Silent City
Kronos Quartet Floodplain
Savath & Savalas La Llama
Blind Blake & The Royal Victoria Hotel Calypsos Bahamian Songs

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