Richie Havens Nobody Left To Crown

nel 1969 a Woodstock ci sarei potuto (anagraficamente) essere! in quei giorni di mezz’agosto che cambiarono e ridisegnarono l’idea di musica e società mi sarei presentato neonato e piagnucolante e ben poco avrei ricordato. ci sarei potuto essere ma non c’ero e poche memorie ho raccolto! eppure i ricordi, evocati dai dischi e colorati dallo schermo, in qualche modo si sono costituiti! e se posso fare una confessione, per me Woodstock è soprattutto Richie Havens. i suoi sandali, la schiena fradicia, la bocca sdentata e la pennata vigorosa. quella voce che innalza il grido di Freedom alla fine del suo set che fu il debutto ufficiale del festival.

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afroamericano di Brooklin, classe 1941. comincia a farsi le ossa (e l’ugola) cantando agli angoli delle strade il doo-wop e sulle panche della chiesa il gospel. al debutto dei ’60 è nel Greenwich assieme ad illustrissimi colleghi di nome ZImmerman, Neil e Baez e nel ’67 ottiene un contratto con la Verve che è alla ricerca di cavalli da far correre sulle praterie del folk revival! Mixed Bag resta qualcosa di seminale per la musica di lì a venire (l’ho ritrovato di recente a 3,99 euro nel bel mezzo di un cestone da supermercato, sic!). molte (e celeberrime) le covers, da Fuller a Dylan, Beatles, Lightfoot. voce nera caldissima e ruvida rubata al soul, gli accordi aperti e le pennate furiose. un giusto equilibrio fra folk, cantautorato, attitudine groove e prodromi di suono psichedelico.

nel ’69 viene quindi invitato ad aprire il grande festival e dopo un set che tra l’altro prevedeva High Flyin’ Bird, I Can’t Make It Anymore, With A Little Help From My Friends, Strawberry Fields Forever, Hey Jude e Handsome Johnny si giunge a quella benemerita Freedom (improvvisazione spontanea, e quanto mai contestuale, sulle note di Motherless Child). straordinaria performance diventata, suo malgrado, croce e delizia di tutta una carriera. da quel momento Havens verrà immancabilmente associato a quell’apparizione dal sapore mistico, immortalato ad icona.
ma la carriera è proseguita ben oltre quel 1969. e io non so ben dire se per limiti artistici propri o se per negligenza del music business ma quella carriera non è mai definitivamente decollata. eppure i dischi ci sono. non credo si possano sottovalutare Stonehenge (1970) o Alarm Clock (1971) che meritano rinnovata attenzione. e ritengo quantomeno interessanti ed esaustive le due raccolte del periodo Verve e A&M: High Flyin’ Bird: The Verve Forecast Years e Dreaming as One: The A&M Years (la prima se una delle due si deve scegliere).
e gli anni ’80 e ’90 effettivamente non hanno portato grandi glorie a Richie Havens che è rimasto intrappolato fra vecchie sonorità ritenute obsolete e incongruenze con le tendenze in voga. la sua attitudine folkster male si accompagnava con le esigenze commerciali di questi due decenni e fra raccolte e riproposizioni di celebri cover (
Sings Beatles & Dylan, 1987) bene o male credo sia potuto sopravvivere.
ma come molti vecchi leoni dei ’60 e ’70 che furono ha saputo attendere e crescere nell’ombra fino a che qualcuno non ritornasse ad accorgersi di lui. nuovo millennio e nuova linfa, nuova vita.
mi imbattei per caso in Wishing Well nel 2002 e decisi di lasciarmi convincere da quell’aria da santone che si sporgeva dalla copertina, o come minimo tributargli quella fiducia che mi pareva potesse meritare. lo acquistai e lo ascoltai davvero a lungo. la voce cresciuta in profondità e complessità, un impasto travolgente e decisamente soulful. una manciata di canzoni di squisito equilibrio fra folk, sonorità indiane e grande anima soul.

nel 2004 esce Grace of the Sun che non posseggo ma che mi procurerò al più presto, e nella terda primavera di quest’anno, ed è di questo che volevo parlare, giunge Nobody Left to Crown che sto ascoltando da qualche giorno.

un disco gradevole, mi sia concesso un aggettivo tenue e per me inusuale. disco di canzoni, di chitarre e di voce. mi verrebbe quasi da dire che assomigli ai dischi di una volta! non scalerà le classifiche, cadrà assai presto nell’oblio e probabilmente è solamente destinato a vecchi fan e nostalgici eppure ci sono brani che si sostengono per coerenza e struttura, una qualità autorale che benemeriti giovinastri si sognano di raggiungere. piacevole, caldo, concreto e solare se proprio dovessi aggettivare!
scopro dal suo sito che instancabilmente è in tour da molto e per molto tempo ancora. e malgrado ad ogni performance più o meno autorevole non possa mancare la rievocazione del fantasma di cui sopra (Cannes 2008), io credo che la dignità di questo artista permanga integra e splendida in questi tempi che mi limito a definire amari. per questo Richie Havens dice Obama e anche per questo invito ad ascoltare il disco (due click: qui e qui) e poi che ciascuno tragga i suoi giudizi.

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Leonard Cohen live@Lucca

Mica facile trasformare lo straordinario in ordinario, ci vuole semplicità e serenità!
(Anonimo che vuol restare anonimo)

si potrebbe partire dall’età anagrafica o da quella voce, da una lista di canzoni che credo pochi (li conto sulla punta delle dita di una mano) possono vantare oppure da una coerenza che appare enorme a fronte della degenerazione generale, globale e incondizionata. ci sono tante (mai troppe) cose da cui si potrebbe incominciare a parlare del live di Leonard Cohen, ma io davvero comincerei dalla sua autoironia, che unita a quella semplicità e serenità (di cui sopra) rappresentano la grandezza di quest’uomo.
la gag (come altro battezzarla?) sul finale di Tower Of Songs è la dimostrazione di come Cohen pare davvero non aver preso sul serio nessuna delle sue imprese, delle sue canzoni, dei suoi eremitaggi e delle sue parole. alle coriste l’ordine di non fermarsi, la preghiera di continuare all’infinito quel doo dam dam dam da doo dam dam mentre Cohen rivela al pubblico di aver compreso alla fine quale sia la risposta, il senso della vita. e ad un pubblico oramai smanioso che pende dalle sue labbra annuncia sardonico che in realtà la risposta si riduce tutta in un doo dam dam dam da doo dam dam!
scrivo, ma in realtà non trovo parole per descrivere uno dei concerti più importanti della mia vita. sono rimasto muto per lungo tempo, frastornato, incapace persino di applaudire. sono restato a cercare di comprendere quale fosse in realtà l’essenza di tanta bellezza e mi sono risposto che in fondo erano solo canzoni, che loro erano responsabili di quella tensione fra palco e platea, loro ciò che sarebbe restato togliendo il superfluo. e sono le canzoni per le quali Cohen ha ringraziato il pubblico, per averle sostenute in tutti questi anni (parole sue), come se fossero figli mandati in giro per il mondo, pellegrini o alberi o giardini di cui prendersi cura. quelle canzoni che hanno attraversato quattro decenni senza accumulare il peso del tempo, restando essenziali, fuggendo i simboli e scrollandosi di dosso facili mitizzazioni.
le si potrebbe elencare quelle canzoni o sottolineare l’affiatamento fra i musicisti che le accompagnavano, raccontare della scaletta o dei bis infiniti (alla fine 3 ore di concerto) ma io preferisco tenermi a mente l’eleganza di un uomo, lo stile inarrivabile e l’umiltà concreta. piccoli gesti come togliersi il cappello o inginocchiarsi, riverire e ringraziare così sinceramente da non credere a cotanta semplicità. per chi vorrà sapere tutto e di più rimando al sito ufficiale per notizie e scalette, dettagli e foto. io preferisco le foto di Enrico scattate dalla seggiola a fianco alla mia, fra il suo ed il mio stupore e i nostri volti beati a fine concerto.
mi ero appuntato tre cose che inevitabilmente volevo riportare qui. la prima è che fino ai bis mi pareva che nessuna canzone da New Skin For The Old Cerimony fosse stata eseguita. mi sbagliavo! Who By Fire all’inizio del concerto l’avevo quasi lasciata evaporare nella memoria e poi è giunta in chiusura Tried To Leave You ad omaggiare il mio disco assoluto di Cohen!
la seconda è che chi organizza eventi come questi non dovrebbe permettersi certe orrende figure e inspiegabili mancanze. parlo a chi, come me, occupava Piazza Napoleone l’altra sera perché mi risulta impossibile spiegare agli assenti cosa è realmente accaduto. così come sarà difficile raccontare ai nostri nipoti lo scempio di questa Italia di inizio millennio.
la terza è che ho vissuto ogni saluto e ringraziamento alla fine dei bis come se fosse davvero l’ultimo, un commiato con l’emozione in gola e la sensazione duplice di un primo incontro e di un prematuro addio. la gioia di esserci assieme alla consapevolezza di un mai più! e invece, e per fortuna, mi sbagliavo un’altra volta. il tempo di tornare a casa e scoprire che il tour prosegue per l’Europa fino alla fine dell’anno, ripassando dall’Italia e aggirandosi meraviglioso per il continente. forse non era un addio, io ci sto seriamente pensando…
non sono riuscito a dire neppure un poco di ciò che avrei voluto, me ne rendo conto. mi aiuti chi vuole, chi può. l’emozione resta immensa, le parole strozzate e stordite. volevo solo testimoniare di aver vissuto poche ore della mia vita di fronte ad un cantautore, ad un uomo e ad un poeta.
e alla fine tutto è così semplice e sereno da sembrare persino ordinario…

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Silver Jews Lookout Mountain, Lookout Sea

i più accaniti detrattori del download selvaggio e delle nuove frontiere della fruizione della musica sostengono, fra le altre molte ragioni, che l’ammasso sconsiderato di mp3 e di bytes non favorisce in definitiva l’ascolto dei dischi stessi. che la superficialità con la quale si piglia, si consuma frettolosamente e si getta il “lavoro” dei musicisti tutto è tranne ascoltare musica! e che alla fine si finisce pure per non ascoltare neppure e ci si limita ad accumulare sconsideratamente fino alla prossima pulizia dell’hard disk!
e anche questo potrebbe essere assai vero! ma io continuo a difendere l’immensa autorevolezza di chi ascolta, la sua capacità di discernere e le stanze dorate e privatissime dei suoi gusti personali. e se non posso (e non voglio di certo) ergermi a paladino delle scelte di chiccessia mi sia concesso almeno di battermi per le mie e di gratificarmi onanisticamente (figurativo) degli ascolti ai quali approdo!
e se fra la moltitudine (davvero troppi) di dischi che escono incessantemente mi capita di imbattermi nell’ultimo lavoro di David Berman e dei suoi Silver Jews posso stare certo che le mie capacità di ascoltare (captare, carpire, vibrare) schizzeranno in piedi sull’attenti! Lookout Mountain, Lookout Sea è uno di quei dischi che (a me) non può sfuggire sbadatamente, neppure se lo scoprissi sdraiato sotto al trapano del dentista.

di recensioni a proposito di quest’album pullulerà la rete e a quelle rimando per dettagli e delucidazioni. a me non interessa aggiungerne un’altra. sono invece assai più interessato a comprendere la vetusta relazione fra il cercare ed il trovare, l’istante esatto in cui si viene colpiti come da un proiettile e si capisce senza ombra di dubbio che quel disco era pronto a scovarci. si trova ciò che in realtà già ci sta cercando? cercare e trovare come l’uovo e la gallina?
non saprei! di certo è che nella fitta rete cognitivo/musicale (???) della mia corteccia cerebrale, sviluppatasi a dismisura a discapito di funzioni assai più importanti, questi suoni fanno l’effetto della pallina nel flipper. schizzano, rimbalzano, accendono special e fanno vincere altre partite e nuove palline.
potrei fare i nomi dei punti nevralgici toccati. forse servirebbe. tentare di risalire a ritroso l’albero genialogico dei miei ascolti cercando di non dimenticare vecchi cugini e zie defunte. e allora dico nonno Lou Reed innanzitutto e poi gli zii d’america Lambchop, Howe Gelb e Bill Callahan insieme a molti altri che ho dimenticato. ci sono gli spazi immaginati e le case che ho davvero abitato, il suono della strada di notte inghiottita dentro al cerchio del volante, l’incanto cristallino del suono della chitarra e la perfezione che sanno avere certe canzoni! è qualcosa che riconosco inconsciamente ancora prima di mettermi a cercare o di presumere di trovare e a quel richiamo mi arrendo impossibilitato a difendermi. aggiungo un altro ganglio alla corteccia e vi incido le iniziali di questo disco mentre già sto mi muovendo verso il prossimo.
e se c’è qualcuno che vi sta accusando di accumulare insensatamente, annuite e rispondete che siete proprio in procinto di accumularne un altro, questo

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Tom Waits live@Teatro degli Arcimboldi

mi pesto i piedi e mi mordo la lingua fra l’impossibilità di descrivere e l’ansia intima di raccontare. si potrebbe tacere eppure testimoniare. scorticare il calendario o lasciare che la memoria faccia il suo giro.
decido di dire. poco. nel modo più breve che potrò.
ho visto Tom Waits! ho visto un’artista di 59 anni che attendevo da più di venti! un giocoliere, uno scimmione, un cantastorie e l’imbonitore della piazza! l’ho visto circondato da una scenografia scarna fatta di cianfrusaglie raccolte dalle sue canzoni. su un palchetto da giostra o da circo a scalciare e sbattere gli anfibi su assi schiodate, a sollevare polvere e accumulare sudore sotto al cappello.
ho sentito quella voce arrivare dal fondo, dal basso dei tanti ascolti e da una consetuedine che pensavo presunta. e invece l’ho scoperta sorprendermi d’incanto. baritonale, quasi lirica, stropicciata e appiccicata addosso a quella figura sghemba, dinoccolata, spastica come il gorilla in gabbia, il guitto e il giullare.
e poi le canzoni. gettate sul tavolo come noci o tenute in pugno come passeri. maltrattate, stirate e arrangiate come vecchi ombrelli. un vaudeville istantaneo, un cabaret mitteleuropeo o il sermone del pastore “cialtrone”. quelle canzoni che scodella pescando come il prestigiatore dal cilindro.
funky mariachi rumba e klezmer frullati assieme, indistintamente. ma non c’è trucco e non c’è inganno pare gridare il nocchiere dal ponte. e i marinai gli sono fedeli. remano e suonano come una ciurma a cui il capitano ha aggiunto due dei suoi pargoli, affidandoglieli come nelle vecchie famiglie circensi. Casey e Sullivan Waits sul palco a guardare loro padre ciondolare ed ammaestrare il pubblico.
c’è il tempo per sedersi dietro al pianoforte e gigioneggiare fra ballate memorabili e fatti inimmaginabili. tempo dilatato di applausi e cialtronerie e grida di un pubblico in delirio. ho guardato i volti dei mille e più che scendavano le scale, a fine concerto, per riversarsi nel piazzale. ho indovinato fra quelle lacrime e quella gioia la mia stessa faccia, beata e incredula come quella di un bambino.
volevo usare poche parole e non credo di esservi riuscito e del resto Tom Waits non necessita delle mie. ma io delle sue.
ringrazio fishlung delle foto e non so chi del video qui sotto che rende assai di più di tante lettere messe in fila. io sono semplicemente felice che un istante di storia mi sia passato addosso…
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Giuseppi Logan

forse che di questi tempi, che dicono moderni, la celebrità o la notorietà, l’esistenza in vita e la gloria postuma si possono davvero soppesare semplicemente affacciandosi alla finestra fiorita di google e gridando il proprio nome? può darsi!
di certo la semplice menzione o la seppur piccola citazione garantiscono rintracciabilità e segno inequivocabile di interesse, di scoperta o disvelamento, e così facendo un poco di eco pare già rimbalzi in un futuro oscuro e incerto!
Giuseppi Logan una pagina su wikipedia ce l’ha!
chi era? chi è Giuseppi Logan?
mi imbattei in questo nome alcuni anni fa bighellonando in rete alla ricerca di misconosciuti e dimenticati clarinettisti della storia jazz. quel nome a dir poco strano non ci mise molto a catturare attenzione. ma le informazioni a cui giungere si limitarono a quelle riassunte nel wiki.
Logan fu una vera e propria meteora di passaggio in una stagione straordinaria del jazz che per sempre si chiamerà free. epoca straordinaria di assoluto anticipo, come sempre hanno fatto gli afromericani, sulle tendenze e le tensioni di lì a venire. Logan in quella New York culla di tanto splendore. Logan accolto da Bernard Stollman nella neo fondata ESP Disk. Logan circondato da veri e propri monumenti come Albert Ayler, Archie Shepp, Ornette Coleman, Pharoah Sanders e Bill Dixon. ma la storia a quanto pare si dimenticò di lui. perché?
due i dischi a suo nome. The Giuseppi Logan Quartet (ESP Disk 1007, 1964) vede comparire a fianco del sassofonista tre musicisti che la storia l’avrebbero poi fatta davvero. Don Pullen, Eddie Gomez, Milford Graves. paradossalmente è la tecnica incerta e la non luminosa capacità compositiva a mettere in secondo piano Logan. ma il disco c’è e forse è bene ringraziare i tre musicisti a fianco del leader. Logan appare guascone al limite dell’inappropriato, sconnesso e zoppicante. eppure cattura. suona, si affanna e rincorre. stride e recalcitra fino a definire per difetto una sua tecnica peculiare e stranamente riconoscibile. i critici e detrattori non furono esattamente magnanimi.
malgrado questo ci fu una seconda opportunità. More (ESP Disk 1013, 1965) vede gli stessi sideman del precedente (tranne un avvicendamento fra Eddie Gomez e Reggie Johnson al basso). sempre free ma assai più ingentilito e reso mansueto, più “melodico” e “coltraniano” (mi si conceda!) del precedente, forse anche meno pretenzioso e con sprazzi lirici assolutamente interessanti, ma non bastante a riscuotere le sorti di una carriera. carriera “ufficiale” che a quanto pare si chiude qui malgrado si narri dell’esistenza di un ESP Disk 1018 dal titolo “The Giuseppi Logan Chamber Ensemble In Concert” che però non vedrà mai la luce. ci fu anche il tempo per un tour con Patty Waters (accompagnandola sublime al flauto) e poi non si seppe più nulla.
anedotti si rincorrono e si smentiscono (i più significativi sono riportati sul wiki di cui sopra). chi parla di erratic behavior, chi di droga o più semplicemente di insanità mentale. ciò che però risultò evidente è che scomparve dalla scena e della ribalta musicale per sprofondare da qualche parte ad Harlem. ma ci fu giusto il tempo di un’apparizione in questo filmato del 1966 per la regia di Edward English (?): lo si vede passeggiare con prole e cagnetto al guinzaglio per qualche parco newyorkese, si ascolta la sua musica in sottofondo e lo si ascolta raccontare tranquillo a dispetto delle tante voci che lo riguardavano. e la cosa, sia ben detto, stride un poco e conserva qualcosa di sospetto… e pure d’inquietante!

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poi più nulla davvero… disperso e addirittura dato per morto agli inizi dei ’90 (allmusic a tutt’oggi riporta questo nella sua biografia) è stato probabilmente riscoperto tardivamente da quella long tail innescatasi dall’utilizzo delle risorse della rete. l’artwork di Howard Bernstein e Lee Greene che compariva sul primo disco di Logan è stato recentemente riutilizzato da Wu Ming per la copertina della raccolta The Old New Thing.
ma agli inizi di quest’anno il sito www.sermonaudio.com ha scovato Giuseppi Logan fra gli assidui fedeli di qualche chiesa battista o presbiteriana e il pastore non ha perso l’occasione di intervistarlo.
il risultato è a dir poco surreale!

Giuseppi Logan resta un personaggio quantomeno anomalo della storia del jazz. la sua vicenda valeva la pena di essere brevemente tratteggiata da queste righe. l’oblio allontanato un poco. la sua musica – assai più importante – resterà!

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Congotronics Night

avevo cerchiato la data odierna sul calendario. e a fianco avevo scritto Congotronics.
perché oggi sarebbe dovuto essere il giorno in cui il Ravenna Festival ospitava nella stessa serata Konono N°1 e Kasai All Stars, splendore e meraviglioso “disordine” della musica congolese e africana tutta. l’avevo segnalato tempo addietro fra le date che avrebbero impreziosito questo luglio di cui da un po’ di tempo vado parlando.
ma il concerto non ci sarà!
un amico mi aveva accennato del probabile annullamento senza saperne spiegare il perché. successivamente un laconico comunicato stampa del festival confermava la notizia accennando a motivi relativi alla mancata concessione dei visti. punto!
ma poi ieri aprendo il manifesto scopro qualcosa di più. Marco Boccitto (caporedattore del giornale e soprattutto grande conoscitore della musica africana) pubblica il suo articolo Buonanotte ai suonatori relativo alla vicenda.
in questo clima di crescente xenofobia, di paure illogiche e terrore diffuso, fra la follia di provvedimenti di schedatura di triste memoria e l’introduzione del reato di clandestinità a fronte di assai peggiori provvedimenti d’impunità, mancava solo questa notizia a confermare inesorabilmente che al peggio pare non esserci davvero fine.
amaramente non mi resta che copiare ed incollare…
A dispetto della loro anzianità di servizio e delle risonanze ancestrali che la loro musica emana, i due gruppi congolesi Konono N°1 e Kasai All Stars – associati nel cosiddetto movimento Congotronics – sono considerati nel mondo l’ultimo grido in tema di scoperte inerenti alla musica africana. Il motivo è insito nelle sonorità che li rendono affini a certe sperimentazioni elettroniche occidentali – e dunque palatabili anche per un pubblico «straniero» – ma non certo riducibili a queste. Protagonista assoluto nel loro impianto sonico è il likembe, un lamellofono tradizionale che qui viene amplificato mediante magneti prelevati da motori di auto rottamate e risputato fuori da vecchi speaker a forma di cono, genere comizio anni ’60. Non sono maghi dell’elettronica ma tutt’al più geni della trance con la manualità di un elettrauto. L’effetto è dirompente, con armonici in tempesta, glitch naturali e un gusto per la distorsione che ridicolizza la seriosità teorica e la freddezza formale di un Glenn Branca qualsiasi.
Per il seguito che hanno, l’aura di rispetto e curiosità che li avvolge, per la quantità di festival che si disputano i loro spettacoli e la fama delle star internazionali che li vorrebbero come complici, da Björk ai Tortoise, dovrebbero in teoria godere di qualche privilegio in più rispetto ai normali migranti, se non altro nella trafila per ottenere i visti. Ma le misure che in modo vieppiù rovinoso vorrebbero arginare i flussi provenienti dal sud del mondo e le complicanze burocratiche che ne derivano presso le varie rappresentanze diplomatiche in Africa, oltre ad alimentare il dramma della tratta tra le due sponde e la clandestinità possono fare vittime eccellenti. Se persino Liza Minnelli ha avuto recentemente qualche problemino con l’ufficio immigrazione dell’aeroporto londinese di Heathrow, possiamo immaginare quali difficoltà incontrano i suoi colleghi africani. La musica circola già in maniera tribolata, se non in termini di merce. Ma è niente rispetto agli ostacoli che deve superare chi la suona. Nei fatti viene qui smentita anche la storia dell’«entra solo chi ha un lavoro». Soprattutto se il «lavoratore» in questione arriva dall’Africa.
Il fenomeno è tutt’altro che nuovo. In questo caso specifico all’ottusità consolare delle potenze europee va aggiunto lo sconquasso amministrativo in cui versa un paese come la repubblica democratica del Congo, eternamente sull’orlo della guerra civile. Risultato, un disastro. I 24 concerti previsti quest’anno in alcune delle rassegne più prestigiose d’Europa, dal celebre Sonar di Barcellona al Ravenna Festival, dal Womad al Coleur Cafè, sono stati spazzati via senza pietà. Con ripercussioni non tanto sul pubblico, privato dell’opportunità di ascoltarli dal vivo, quanto sulle decine di famiglie di Kinshasa (i due gruppi vantano organici numerosi) che per vivere contano sul lavoro di questi musicisti.
La storia comincia a gennaio. I passaporti vanno rinnovati perché sono infestati di visti, a riprova del fatto che negli ultimi anni le tournée internazionali non sono mancate. Gli stock di documenti vergini però tardano ad arrivare e quando arrivano vengono rispediti indietro perché contengono degli errori. Dopo innumerevoli pressioni, il ministero degli affari esteri congolese elargisce dei passaporti diplomatici. Ma il beau geste non basta per intenerire le autorità consolari di Francia e Svezia – i primi due paesi dell’area Schengen interessati dal tour – che non concedono il visto nei tempi previsti. Stessa storia per il Regno unito, che non avendo un’ambasciata in Congo rende obbligatoria una gita a Nairobi, in Kenya. Prima almeno bastava mandare una persona con i documenti di tutti, ma ora la necessità di acquisire i dati biometrici costringe ogni richiedente a recarsi di persona sul posto. E i costi lievitano già così. Nel frattempo le prenotazioni aeree scadono e le spese di viaggio raddoppiano. Inoltre saltano gli incastri e le coincidenze, quindi si moltiplicano anche i days off, i giorni forzosamente liberi nei quali è il promoter a dover sostenere i costi. Divano Productions, l’organizzazione belga a cui fanno capo le tournée congotroniche, a forza di incappare in infortuni come questo è praticamente finita sul lastrico. La passione per la musica africana può avere effetti devastanti, per chi cerca di tradurla in impegno professionale.
«Dopo mesi di lotta siamo costretti a cancellare il tour», comunica un desolato Michel Winter. «E a questo punto dubitiamo fortemente di poter andare avanti», aggiunge. Winter è un veterano della world music e conosce bene gli intralci del settore, ma stavolta non si capacita: «Le ambasciate europee in Africa si rimandano continuamente la palla e ognuno chiede documenti diversi. Figurarsi che i belgi pretendono un certificato di esistenza in vita dal comune di nascita, ma questo in un paese grande e disastrato come il Congo è praticamente impossibile. A nulla sono serviti l’interesse dei media e le pressioni politiche sulle varie sedi diplomatiche. La cosa paradossale – dice ancora Winter – è che i musicisti di Congotronics al termine delle precedenti tournée sono sempre tornati tutti alla base, senza approfittare del visto per restare in Europa, come vorrebbero insinuare i sospetti preventivi delle autorità. Non hanno nessuna intenzione di vivere in un posto che non sia il Congo».
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Caetano Veloso live@Ferrara Sotto le Stelle

quel luglio di cui parlavo è dunque giunto.
è cominciato da Ferrara dove sono tornato a rivedere Caetano Veloso.
ho perduto il conto di quante volte io lo abbia visto e davvero poco importa. lo rivedrei stasera stessa, se solo potessi. di nuovo un palco enorme e vuoto, una sedia, una chitarra ed un microfono per sgombrare immediatamente lo spazio dal superfluo, dall’inutile. 40 e più anni di carriera, un canzoniere smisurato e un talento che pare affinarsi nel tempo gli possono permettere di presentarsi “nudo”, essenziale, senza trucchi e senza inganni. è bastante una voce, qualche parola, una mimica spontanea e la semplicità di chi sa da dove giunge. lo stretto indispensabile direi, soprattutto quando si possiedono canzoni e le si ama cantare. e quando la passione di farlo traspare immanente. canzoni proprie, canzoni altrui, canzoni vecchie, canzoni nuove.
Michelangelo Antonioni
doveroso omaggio al regista e alla sua città. e poi Menino do Rio, Trilhos Urbanos e Você é Linda, Cuccuruccucu Paloma, Qualquer Coisa e Coração Vagabundo provando a citare a memoria. c’è lo spazio per rendere definitivamente assoluto classico una canzone come Sampa e per un’interpretazione davvero sentita di Terra (mai così intensa). e poi Desde Que o Samba é Samba e parole, risate, ambulanze che punteggiano in lontananza come un controcanto e un larsen improvviso e roboante che rompe il ghiaccio dell’emozione collettiva e regala un siparietto divertente e un’altra risata.
ma fra questa parata di grandes successos c’è anche lo spazio per un omaggio ad Ary Barroso. credo si intitoli Bahia Imortal il brano eseguito e invece sono certo di Na Baixa do Sapateiro e Aquarela do Brasil solo accennate per raccontare del grande vecchio della Mpb. c’è lo spazio per cantare in italiano Come Prima che Modugno scrisse nel 1958 per Tony Dallara e il tempo per omaggiare la scomparsa di un amico, che fu suo primo manager, dedicandogli La Mer di Charles Trénet. e poi un doveroso tributo al primo mezzo secolo della Bossa Nova eseguendo un brano (del quale non ricordo il titolo) “così come me lo ha insegnato Joao Gilberto!” . tanto per non dimenticare la grande umiltà e la grande riconoscenza che contraddistingue gli artisti brasiliani.
ma lo sguardo al futuro è assicurato dall’esecuzione di due brani “proprio” nuovi, come ci tiene a sottolineare lo stesso Caetano. il primo in falsetto, adagio ed etereo come solo lui osa fare. come un canto devozionale, una preghiera agli angeli. il secondo una piccola bossa irriverente, dal sapore retrò eppure moderna, un poco da malandro.
e poi è tempo di bis. Tonada de Luna Llena e Cajuína. Tigresa e O Leãozinho per poi accomiatarsi lasciando che il pubblico saluti cantando A Luz de Tieta.
Caetano pare non invecchiare. sembra incamminarsi verso un’essenza, verso la purezza di chi ha reso semplici e piccoli gli strumenti della propria arte interpretando canzoni, glorificando parole e suoni, e quel canto.
qui mi fermo perché rischio l’apologia e perché ho oramai finito parole che già scrissi e riscrissi. il tour prosegue per l’Europa. da Vienna (qui video e foto) verso il Bosforo e poi ancora Italia, Spagna e Lusitania.
ringrazio frabattista per la foto (un poco rubata) e invito chi può a non perdere l’incanto di un suo concerto.
io sto già attendo il prossimo…

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Micah P. Hinson and The Red Empire Orchestra

mi ero tacitamente ripromesso che non avrei occupato lo spazio di questo blog per “demolire”, ma piuttosto per stupirmi, per scoprire e per emozionarmi (ove possibile). ossia di non perdere tempo a parlare di ciò che non mi piace, di qualcosa che poco ha a che fare con i miei giorni o che poco ne avrà.
e c’ero praticamente riuscito a zittirmi. a non dire. a non dover sottolineare che l’ultimo disco di Micah P. Hinson proprio non mi convince per una discreta serie di ragioni, e averi taciuto dunque volentieri, ma poi mi ritrovo quello stesso disco in bella mostra di sé nella bacheca del disco del mese di BlowUp e leggendo e rileggendo la recensione di Marco Sideri mi dico che due parole potrei spenderle pure io.

Micah P. Hinson and The Red Empire Orchestra è il terzo disco e mezzo per l’ex ragazzo di Memphis ed esce per l’inglese Full Time Hobby. e dico ex perché credo sia giunto il tempo di evitare di stupirsi ancora del privilegio anagrafico della giovine età.
ho seguito Micah dal principio, quando abbastanza consapevolmente si gridò al miracolo per quel debutto del 2004. per quel Micah P. Hinson and The Gospel of Progress valeva davvero la pena della meraviglia in piena stagione di folk revival e di alt-country. c’erano le canzoni (indispensabili, a volte lo si dimentica), c’era una voce che non ci si poteva credere e tutta l’urgenza di un debutto. una materia praticamente perfetta da inaffiare con il talento, la dolcezza e il ruvido dell’esistenza.
ho avuto la fortuna di vederlo tre volte esibirsi live. la prima in una notte piovosa in cui mi arrampicai assieme all’amico Hank fino al Velvet di Rimini. e non ci si poteva credere che quel ragazzetto più simile ad un nerd che ad un folkster potesse fare uscire tanto struggimento da microfono e amplificatore e poi due memorabili set al Bronson che ne consacrarono la stella e lo videro crescere e maturare di fronte al pubblico rapito.
nel frattempo, 2006, usciva il secondo album Micah P. Hinson and The Opera Circuit che fu però preceduto l’anno precedente da The Baby & The Satellite, operazione (furbetta) di riedizione e riproposta di demo e canzoni risalenti al periodo 2000/2001 e precedenti al debutto. non proprio un grande disco, sia ben detto. e lo stesso leggero disagio lo avevo debolmente avvertito per The Opera Circuit, molte conferme, poche novità. l’urgenza pareva sedata, la rabbia di un debutto ancora non perfettamente reindirizzata.

continuo ad ascoltare questo ultimo lavoro e trovo che gli arrangiamenti siano sapienti, la voce ancora profonda ma in qualche modo educata. sono lontane le urla strazianti e le impercettibili stonature che la rendevano imperdibile. le canzoni continuano ad esserci ma i testi un poco deludono. è un altro bel disco di Micah, ma nessuna sorpresa e tanto meno nessuna novità, semmai un poco di stanchezza evidente per chi ne abbia seguito la parabola. Lambchop e Tindersticks continuano a fare dischi a loro modo “classici” e nessuno pare accorgesene più, mentre qui si grida al disco del mese e si giunge a dire… “E’ presto per dirlo, e magari è una delle solite entusiaste esagerazioni, ma l’impressione è che, tra 20 anni, questo disco conserverà intatto il suo fascino.” (M.Sideri su BlowUp)
è un mio parere, ma propendo per le “entusiaste esagerazioni”. il disco merita ben più di un ascolto ma ho come l’impressione di dovermi aspettare sempre quel qualcosa in più, soprattutto da chi si è amato, e tanto. e quel qualcosa pare latitare. magari lascio a chi vorrà il giudizio e lo spazio per esprimerlo. la rete, come al solito, è già assai più avanti e invita ad ascoltare.

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panoptikum

la prima volta che lessi questa parola la trovai stampigliata fra le pagine di quell’infinito e cangiante gesto d’amore che è Praga Magica di Angelo Maria Ripellino. che cosa significasse lo ignoravo ma la annotai diligentemente su qualche pezzo di carta. quando più tardi chiesi delucidazioni ad amici praghesi mi imbattei nel loro stupore nello scoprire che quel termine non fosse usato correntemente in tutte le lingue del mondo.
alcuni istanti di chiarificazioni e delucidazioni e incominciai a comprendere che si trattava di una quantità di oggetti, di innumerevoli oggetti, come la bottega di un antiquario o la stanza prediletta del collezionista. ma era anche molto di più. molto altro di intraducibile e inspiegabile.

Ancor oggi due zoppicanti soldati con le baionette inastate, al mattino, conducono Josef Švejk giú da Hradčany per il Ponte Carlo verso la Città Vecchia, e in senso contrario, ancor oggi, la notte, a lume di luna, due guitti lucidi e grassi, due manichini da panoptikum, due automi in finanzíera e cilindro accompagnano per lo stesso ponte Josef K. verso la cava di Strahov al supplizio.

così scriveva Ripellino nel 1973. ma se al giorno d’oggi a Praga si domanda del panoptikum si verrà probabilmente indirizzati verso il Prazke Panoptikum che altro non è che il museo delle cere della città. ma, come si diceva, c’è molto altro.

un Panoptikum è un museo irrazionale, una collezione di curiosità, un gabinetto delle meraviglie. un marché aux puces indoor, l’idillio del rigattiere o un paradiso ateo delle chincaglierie. il lato inconscio di ciascun robivecchi che sconfina nel kitsch e lambisce la mirabilia, la reliquia e l’ossario. ma è anche wunderkammer, aleph e cabaret vivente. è l’accozzaglia illogica di cianfrusaglie e di rarità. come il catalogo di un bottonificio o un trittico di Hieronymus Bosch, i ritratti dell’Arcimboldo o la copertina di Underground di Monk. un disordine apparente e una nomenclatura incerta.
è quindi Panoptikum anche la preziosa confusione che ciascuno di noi si porta a mente, la successione squadernata di volti, vicende e luoghi. e pensieri appiccicati ad oggetti, souvenirs e soprammobili.
ma più di altro è per me Panoptikum la smisurata e imponderabile quantità di musica che ho ascoltato, raccolto e immaginato di udire. il filo irrimediabimente aggrovigliato che lega il mio percorso a rovescio dentro il labirinto auriculare. la raccolta sparsa e imponderabile di vinili, cassette, cd e mp3, l’accumulo illogico che si gonfia e si espande, mai sazio e pur sempre convinto di scovare altro stupore, altra delizia e ulteriore incanto.

e dunque Panoptikum sarà il nome che porterà un nuovo spazio di questo blog. tempo addietro parlai di m-blog e ne nacque una discussione inconcludente ed infinita. oggi pretendo di sfruttare questa possibilità intrinseca della rete di “suggerire” musica, di condividere e conoscere e a quel post rimando per esplicazioni e delucidazioni sul “come si fa” e su quanto io vada dicendo.
mi trasformerò nell’imbonitore della mia stessa mercanzia, nel filologo scrupoloso e nell’insaziabile curioso e tenterò di portare sulla piazza parte dei miei ascolti, dei miei “preziosi”, di specchietti e pettini (sic!), di mie scoperte e di sacre reliquie. saranno a disposizione di chi le vorrà, in ordine sparso ed illogico, senza falsi moralismi o arroccate ideologie. io, per me, tenterò inutilmente di capirci qualcosa, ad altri invece, mi auspico, il piacere di un ascolto.
Venghino Signori, Venghino!

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Aleksander Kaczorowski Il Gioco della Vita (La storia di Bohumil Hrabal)

l’afa e la voragine dei meriggi estivi paiono dilatare il tempo ed espanderlo, o forse solamente rarefarlo. e in questo sovrappiù di istanti che si creano ritrovo lo spazio della lettura, la concentrazione necessaria. e contrariamente all’insana abitudine di accumulare e sbocconcellare volumi ai piedi del letto, riesco in questo tempo a portare a termine rapidamente le pagine di un libro, e a terminarlo.
Aleksander Kaczorowski è uno dei traduttori polacchi di Bohumil Hrabal, uno dei tanti. è giornalista, scrittore e cultore di letteratura ceca. fra l’estate del 2002 e l’inizio del 2004 ha approfondito lo studio e il completamento di questo volume che ripercorre una possibile biografia dello scrittore ceco partendo dai suoi scritti ed incrociando queste memorie con le travagliate vicende della nazione ceca. le edizioni e/o hanno logicamente ospitato questo volume, così come in percedenza avevano fatto con gli scitti dell’autore boemo.
l’espediente editoriale ammicca ad una possibile rivelazione inerente alla misteriosa morte di Hrabal avvenuta il 3 febbraio 1997 all’ospedale Bulovka di Praga. ricordo quei giorni. i giornali parlarono di un incidente assai romantico dovuto ad un tentativo dello scrittore di portare cibo ai piccioni del quinto piano dello stabile. questa fu la versione dei medici e della stampa tutta pressoché unanime. Kaczorowski invece propende per la tesi del suicidio e tenta nel dipanarsi della sua biografia e dei suoi scritti di trovarne indizi e ipotesi.

e curioso è come alla fine, al di là della veridicità delle piste seguite e battute dal giornalista polacco, traspaia ben altro che la palese realizzazione di un atto estremo come il suicidio, e appaia alquanto evidente questo gesto come epilogo di un’esistenza vissuta a rovescio, contraria, in apparente discesa a scapicollo ed eppure così travagliata e ineffabile nel suo contorcersi. le pagine del libro ripercorrono istanti cronologicamente ordinati, susseguenti e dunque eloquenti nel seguire i primordi di una carriera che ebbe il suo vero avvio soltanto alla soglia dei 40 anni. prima si narrano esperienze garbate con la letteratura, di stampo romantico e dal sapore conservatore. furono le illusioni surrealiste a principiare un turbamento narrativo che solamente in età adultà manifesterà la grandezza di Hrabal. si evince con esattezza come al contrario della maggior parte delle vicende umane che fanno seguire una pacatezza senile ad una ribellione giovanile, la vita di Hrabal si sia invece sviluppata a rovescio. man mano che gli anni passavano il lato selvaggio e irriverente della sua esistenza prendeva il sopravvento. sostituì la meticolosità della sua prosa e l’attenzione sintattica ad una scrittura di getto che contraddistinse le sue ultime opere. Ho servito il Re d’Inghilterra fu scritto in una ventina di giorni, senza fiato, limitandosi a sostituire i fogli bianchi a quelli già scritti sul rullo della sua macchian da scrivere. Una solitudine troppo rumorosa è del 1977. Hrabal era già assai celebre (naturalmente nelle versioni samizdat dei suoi libri) e aveva già 63 anni. dopo esser rimasto vedovo (Le Nozze in Casa: se qualcuno conosce libro più bello sull’amore coniugale batta un colpo!), invece dell’agio di una casa cittadina preferì l’isolamento di Kersko (nella lontana periferia praghese) e la compagnia dei suoi gatti randagi. Kaczorowski sostiene che fu a questo punto che presero il sopravvento la depressione e l’alcoolismo. possibile. possibile anche questo. ma c’è ancora il tempo di vivere la rivoluzione di velluto del 1989, di innamorarsi sfrontatamente e inopportunamente di April Gifford, giovane slavista americana studiosa dell’opera di Hrabal e giunta a Praga per approfondire le proprie ricerche. L’uragano di Novembre è la raccolta di queste lettere indirizzate ad Aprilina (così viene tradotto il nomignolo Dubenka con il quale lo scrittore appellava la giovane studiosa), e attraverso questo carteggio univoco viviamo la rivoluzione del 1989 con gli occhi spietati e acuti di una memoria che aggredisce il presente e rimbalza nel surreale. “raggiunto lo stato d’inquietudine finale” riusciamo finalmente a giungere al lato selvaggio della prosa hrabaliana, alla parte che lo consegna all’immenso fra la tenerezza smisurata e uno dei suoi motti preferiti… Ogni giorno accade un miracolo!

il saggio di Aleksander Kaczorowski risulta dunque un’agile abbecedario per seguire la lezione hrabaliana e tutto sommato assomiglia davvero ad una tesi ben fatta e compuita. volumetto per appassionati (fans?) o dichiarazione d’amore che si voglia, questo libro non fa altro che ingigantire la figura dello scrittore ceco e far ripartire la ruota della curiosità e la pratica mai abbastanza considerata delle riletture.
credo sia la terza volta che ritorno su di lui in questo spazio e non pare che la questione assomigli esattamente ad un punto finale…

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