Pierre Nicolas

ci sono personaggi che attraversano la celebrità rimanendone ai confini estremi, defilati e apparentemente disinteressati. figure loro malgrado celebri, distrattamente coinvolti in vicende appartenute ad altri e nonostante questo indispensabili. ballerina di seconda fila, l’Augusto della clownerie, la spalla del comico fino al più celebre dei caratteri secondari…Sancho Panza.

Pierre Nicolas è uno di loro! il suo contrabbasso ha accompagnato per trent’anni la vicenda artistica e umana di uno dei più grandi artisti francesi, vero e proprio vanto e orgoglio nazionale: George Brassens! del cantautore di Séte sarebbe bene parlarne più compiutamente e diffusamente altrove, mentre del buffo Nicolas mi piacerebbe ricordarne brevemente la vicenda.

come si conviene ai personaggi “minori”, la biografia appare confusa, approssimativa e incompleta. nacque nel 1920 e della sua misteriosa infanzia e adolescenza poco ci resta, se non ritrovarlo già adulto, nel 1952, facente parte dell’orchestra di Léo Clarens nel celeberrimo cabaret di Montmartre ad accompagnarne la titolare, Patachou. fu la primadonna a fare incontrare i due futuri amici, Brassens gli chiese di accompagnarlo alla chitarra e da allora le loro vicende divennero indissolubili. mi pare doveroso ricordare che Nicolas fu anche inizialmente alle spalle della grande Barbara sul palcoscenico del Bobino e che incise dischi con Charles Trenet e Jacques Brel.
mustacchi un po’ seriosi e un po’ gallici alla moda dell’epoca, figura inizialmente esile che il tempo ha simpaticamente reso buffa, circonferenza che via via andava ingrandendosi, naso francese (nel senso rubizzo e alcoolico del termine), faccia da titolare di brasserie e indolenza congenita. la sua silhouette costantemente confinata ai limiti dell’occhio di bue, appena illuminata e discretamente presente.

la sua tecnica musicale prestata all’arte del fido compare, essenziale e semplice come le cose preziose, appena accennata a punteggiare i tempi pari e gli accordi saltellanti, i valzer e le traiettorie ternarie di ballate immortali. dietro quel connubio si nasconde una grande amicizia, solidale e fraterna, fatta di tourneé e viaggi, di bicchieri di buon rosso e sguardi compiacenti. la stessa amicizia che Brassens ha immortalato in quel capolavoro che è Les Copain D’Abord (il testo qui). e anche in seguito al momento tanto evocato della dipartita di Brassens, nel 1981, Nicolas non ha fatto mancare il suo contributo alla memoria dell’amico partecipando alle registrazioni del materiale inedito insieme a Jean Bertola … tutto questo fino ad un mattino di gennaio del 1990 quando ha deciso di raggiungere l’amico dal quale non poteva restare separato.

nient’altro che un ricordo doveroso che mi ero ripromesso di tributargli…

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Fishing With John

John Lurie non sa nulla a proposito di pesca. non lo ha mai saputo. piuttosto possiede un modo tutto sghembo e storto di attraversare le cose e di affrontare la vita, la sua musica e il cinema. e forse è proprio per questo che nel 1992 si prese la briga di pensare, dirigere e soprattutto interpretare un documentario che aveva come argomento principale la pesca. e di comporne una colonna sonora imperdibile.

Fishing with John è composto di 6 episodi distinti in cui il nostro fascinoso eroe dinoccolato si sposta in diversi punti del globo accompagnato da amici alla ricerca dello spot perfetto per la pesca miracolosa, alle prese con mostri marini e leggende locali, come un Achab postmoderno tutto straniato e indolente. dimenticavo: gli amici di Lurie si chiamano Dennis Hopper, Willem Dafoe, Matt Dillon, Jim Jarmusch e uno strampalato singer californiano…

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praticamente una buona parte della cricca che compone la setta dei Figli di Lee Marvin. a Long Island con Jarmusch e nel freddo Maine con Dafoe, in Costa Rica con Dillon e in Thailandia con Hopper alla ricerca del calamaro gigante e nella splendida baia Jamaicana dove è impensabile soffrire di mal di mare…

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dialoghi a dir poco surreali e gags degne dell’epoca d’oro hollywoodiana, come una commedia inutile e stralunata, come il luogo più idoneo dove riporre il pesce pescato. imperdibile l’inizio della terza parte…

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poco meno di 30 minuti di tempo (prezioso ma ben speso) per vedere l’episodio con Tom Waits suddiviso in tre parti. mi auguro che l’inglese non sia l’ostacolo per godersi alcune battute fulminanti.

da tempo non ridevo tanto…

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De Profùndis

avrei voluto vestirmi di una frivolezza tutta ferragostana, di quella leggerezza inutile che hanno le chiacchiere d’agosto o certe riviste inutili come la sabbia nel costume. parlare di qualche sciocchezza o di cocomeri, lasciare che il ghiaccio si sciogliesse dentro al drink e attendere che le ombre si allungassero fino al mare, e invece i giornali continuano ad uscire e a riportare notizie che affronto assonnato al mattino. a volte non mi sveglio neppure malgrado il profumo tipografico dell’inchiostro e scorro le pagine con un colpo d’occhio distratto e passo oltre, ma poi ci sono quei giorni che, come oggi, sobbalzo e mi rattristo di fronte alla notizia della scomparsa di Max Roach.

in qualche modo anche lui era un piccolo grande pezzo della mia educazione e a lui debbo molto di più di tanti maestri elementari, di tanti fasulli educatori e di tanti che hanno preteso di insegnarmi qualcosa. il suo nome compariva nei dischi di mio padre quando ancora ignaro mi avvicinavo ad una musica misteriosa che avrei poi amato per sempre. quasi come un’onomatopea quel nome si rafforzava leggendolo e pronunciandone a voce alta le consonanti risuonava melodioso.

inutile qui ripercorrerne la storia e la vicenda del grande batterista, i passaggi salienti di un precursore del suo tempo e di un tassello fondamentale della storia musicale del secolo scorso. basterebbe ricordarne il suo spirito avanguardistico, la costante ricerca di una fusione fra Africa e America e le sue lotte osteggiate contro il razzismo e per i diritti dei neri. qualità rare che probabilmente saranno cristallizzate nella memoria collettiva ripensando e ritrovando quel capolavoro che fu We Insist: Freedom Now Suite! disco controverso e contrastato per la sua carica di provocazione e protesta all’affacciarsi di quegli anni ’60 che cambiarono in qualche modo il mondo. Coleman Hawkind e Booker Little facevano parte di quel disco insieme alla vocalist e compagna del batterista Abbey Lincoln.

una copertina meravigliosa, un disco imprescindibile e un consiglio implicito…

ma un giornale ahimè implica altre pagine e ulteriori notizie e a ben guardare l’elenco dei necrologi purtroppo la stessa pagina menziona il nome di Vito Pallavicini che per molti potrebbe rappresentare il carneade di turno. a 83 anni nella sua Vigevano se ne andato uno dei più grandi parolieri della canzone italiana, c’era anche lui in quel magico connubio che si celava dietro quel Conte/Pallavicini/Conte e che ha fatto cantare milioni di italiani nella bistrattata Azzurro, vero e proprio inno nazionalpopolare che alzi la mano chi non l’ha mai cantata. in quella canzone portata al successo da Celentano si annidavano insidiosi sprazzi di un surrealismo tutto italiano e lietamente onirico, fra oleandri e baobab, afriche immaginate e aereoplani sopra i tetti, fino a quel celeberrimo treno dei desideri che procede all’incontrario. ma non sarebbe giusto dimenticare Le Mille Bolle Blu di Mina, Deborah di Fausto Leali (e Wilson Pickett a Sanremo 1968) e Tripoli 69 della divina Patty Pravo. ecco un dolce omaggio del coautore…

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un vecchio e assai cinico proverbio popolare dice che le campane a morto ne vogliono sempre tre… ed ecco dunque, in ordine di trapasso, il terzo defunto…

il grosso problema è che quel Macbook è il mio e davvero non saprei come scindere in tre le lacrime amare. poco meno di 6 mesi fa elogiavo e tessevo le lodi di questo prodigio della tecnica e oggi mi ritrovo a piedi, con il disco rotto e alcuni amici che mi offrono ospitalità informatica. ed è molto curioso e irrazionale ripensare al mio primo post del mio nuovo blog nato proprio sull’entusiasmo del mio nuovo Mac che a febbraio appariva fiammante. è curioso perchè quelle parole che citai erano di Pallavicini ed appartenevano a quel capolavoro che rimane Insieme a te non ci sto più scritta insieme a Paolo Conte…

la signorina dall’accento yankee del servizio online della Apple è stata cordiale e mi ha rassicurato e almeno per lui posso avere ancora speranze di resurrezione…per quanto riguarda Max Roach e Pallavicini non sono stati necessari neppure i canonici tre giorni che già l’eternità lieta della cultura li ha accolti fra gli eletti!

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Madlib Blunted In The Bomb Shelter Mix

una precisazione innanzitutto…Madlib è un genio prezioso per l’umanità tutta. il ragazzo californiano (Oxnard, Los Angeles 1973) nasce come Otis Jackson Jr. e da una decina d’anni sta sconvolgendo l’universo musicale frullandolo, mixandolo e ripensandolo con le cuffie alle orecchie e diversi giradischi sui quali poggiare le preziose lacche viniliche per farle risignificare, risuonare e ridefinire i confini della black music e di ogni materiale che fagocita voracemente.

la sua biografia lo vede totalmente immerso nella musica da sempre e la sua produzione discografica sta assumendo proporzioni mastodontiche e bibliche. Lootpack, Madvillain e Quasimoto. Jaylib e Yesterdays New Quintet sono eteronimi di uno stesso diamante brillante, molte e altre visioni provenienti dalla stessa mente insaziabile, dalle stesse orecchie pensanti di un collezionista di vinili che preferisce una cinghia rotante e una puntina alle lusinghe di molti software abilissimi nell’arte del remix. un lavoro manuale fra campionatori e batterie elettroniche, tastiere e svariati giradischi.

fra le molteplici produzioni originali e i remix, le collaborazioni o le semplici partecipazioni che andrebbero davvero approfondite singolarmente perchè racchiudono una sensibilità e un gusto davvero spiccate, mi piacerebbe evidenziare le collaborazioni con due etichette prestigiose che da sole costituiscono piccoli grandi tasselli della storia della musica. nel 2003 la Blue Note decide di aprire i suoi archivi alla fame atavica di Madlib. scaturisce in breve tempo Shades of Blue, un capolavoro assoluto per eleganza e ripensamento del jazz della storica etichetta. il successo è assicurato e la fama planetaria definitivamente assicurata.

l’anno prima una operazione diversa nel concetto ma non troppo negli intenti aveva legato Madlib alla storica etichetta inglese Trojan. il più grande tesoro riguardante reggae roots e dub, rocksteady e ska a disposizione di un estimatore dei ritmi in levare e delle tematice rasta sottese a tutta la musica jamaicana (fra la l’altro il nostro non ha mai negato un suo amore quotidiananamente osservato verso la marijuana). nasce così per l’etichetta inglese Antidote il disco Blunted In The Bomb Shelter Mix dal nome dello studio californiano dove è stato pensato, idealizzato e realizzato il disco.

centinaia di 45 giri divorati e ascoltati conseguentemente, impastati e sovrapposti, associati e estrapolati da loro stessi, stravolti e ricomposti. ne è uscito uno stranissimo patchwork di finissima fattura composta da 45 (non a caso) tasselli condensati in poco più di un’ora di musica. brandelli, brevi e brevissimi secondi di misconosciuti successi dell’isola caraibica, voci di speaker radiofonici, aspirazioni, vere e proprie inspirazioni (polmonari), cover curiose (Reggae Makossa, Black Magic Woman) e delay pigiato a manetta dentro un feedback espanso. invocazioni all’erba nazionale (Sensimelia, I Love Marijuana) insieme a dub version e favourite ska dancers hits.

un omaggio doveroso e rispettoso al maestro Lee Scratch Perry e ai suoi Upsetters. un disco da ascoltare in cuffia con il sole sulla pelle attraversando Babilonia con un Walk Rastafari Way, da ascoltare in shuffle come il sintonizzatore impazzito di una radiolina transistor a Kingston Town. la zampata del leone di Zion e la definita consacrazione della musica reggae. inutile aggiungere altro… se non il solito consiglio!

…buon ferragosto, peace!

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Samamidon But This Chicken Proved Falsehearted

Sam Amidon e Thomas Barlett sono due amici di infanzia. si conoscono dall’età di 7 anni. sono cresciuti insieme ad Harlem, NY, ma sono bianchi come il latte. l’esperienza comune nei Doveman e poi separatamente e diversamente in altri gruppi fino alla decisione di dedicarsi ad un loro amore comune, l’Appalachian folk music! ripescare, rileggere e reinterpretare alcune vecchie canzoni rubate dal tesoro che Alan Lomax e Harry Smith svelarono all’America nel bel mezzo del secolo scorso.

canzoni amate e suonate nella solitudine di una casa, approcciate con lo spirito folk e registrate come abbozzi nei silenzi notturni. l’idea acustica e lo-fi (ma solo negli intenti) e la voglia di lucidare vecchie melodie e rispolverare e scomodare vecchi interpreti e storie affondate nell’immigrazione coloniale americana. ne è nato un disco lieve e leggero per l’etichetta Plug Research, un disco che porta come titolo una strofa di un traditional, ma nella quale non è difficile intuire una dedica ad un presidente (finalmente) uscente.

Sam Amidon alla voce, chitarra acustica e banjo. Thomas Bartlett al piano e tastiere, altre chitarre e percussioni, wurlitzer e quel tocco di elettronica che insondabilmente pare indispensabile per cristallizare quelle canzoni e trasporle in un tempo diverso e altro. e poi inaspettatamente (ma in pochi se ne accorgeranno) una cover dei Tears For Fears (Head Over Heels) a insinuare quel tocco di insensatezza che pare pervadere tutto il disco, una strisciante follia e sanissima esuberanza giovanile che non è difficile intuire nei video che Amidon ha messo in rete assieme a questo…

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non vorrei aggiungere altro, non mi dilungherei nel descrivere le canzoni o il disegno segreto di un disco che sta già diventando indispensabile e che guardo insinuarsi prepotente fra i miei ascolti. diciamo che è un consiglio ed insieme un’annotazione da aggiungere alle belle sorprese di quest’anno, una lievità che fa bene ed una spiritualità che concilia. se poi sarà necessario parlarne ulteriormente, beh… io sono qua…

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Occhi di Ragazza Gianni Morandi

mi piacciono i ricordi che affondano nella memoria e lasciano sfumare i contorni e confondere le forme. cose accadute moltissimi anni or sono, talmente lontane da non poter più verificarne l’effettiva esistenza o la verosimile attendibilità. ma a proposito di alcui particolari si ha la pretesa di esserne certi, di non potersi sbagliare e di poterci quasi scommettere (sic!)…

il mio ricordo è impigliato a qualche primavera (o estate?) di un’anno incerto a metà dei ’70 (75? 76? 78? …non ricordo!). per sempre imprigionato fra i sedili vellutati dell’auto di mio padre: una Fiat 131 bianca, come dimenticarsene? molto probabilmente una vacanza, o forse solo una gita domenicale o chissà che! ma che ci fosse già l’autoradio con il mangianastri questo lo ricordo con estrema esattezza. bella imponente con manopole ingombranti e dinamiche macchinose di molle e espulsioni.

fra i due sedili c’era lo spazio per inserire alcune musicassette e non potrò mai più scordare quella playlist preferenziale sulla quale ho probabilmente formato la mia sensibilità musicale. una specie di piccola e privata educazione sentimentale al mondo dei suoni, l’imprinting defintivo a un desiderio smanioso di ascoltare musica e di assimilarne la magia sfuggente. se si vuole un ritratto dell’artista da giovane! li elenco così come li preferivo allora, nello stesso ordine in cui li sistemavo in attesa di entrare nel box del metano!

1) tutti i successi di Gianni Morandi 2) Magical Mistery Tour The Beatles 3) tutti i successi di Domenico Modugno 4) Elvis Presley ..ma non ricordo più cosa! 5) Lady Sings the Blues Billie Holiday 5) La musica dell’Orchestra Secondo Casadei e per ultima… 6) La pastorale di Beethoven…

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dato per scontato il sempiterno ringraziamento a mio padre per quel tipo di educazione e tenendo conto che ciascuna di quelle musicassette potrebbe racchiudere una storia e aprire la porta a molte altre, vorrei soffermarmi solamente sulla prima, allora la mia preferita. RCA LineaTre per chi ricorda, Gianni nello splendore degli anni ’70 e sopra ogni altra cosa una canzone… Occhi di ragazza! a questa canzone associo indissolubilmente l’idea del viaggio, dei cieli azzurri, della spensieratezza, di una serenità che appariva indistruttibile e preziosa, la stessa che qualcuno ha perfettamente ritratto molti anni dopo!

da Dalla/Bardotti/Baldazza una ballata ondeggiante in stile WestCoast con gli inserimenti soulful dei fiati e la voce grezza e potente di Morandi, come un Wilson Pickett nato per errore sulle colline bolognesi. e poi gli archi ad accompagnare il viaggio, il tono maggiore e l’andatura incalzante, quell’inciso e quella parte struggente a richiamare la necessaria melodia italiana!

per chi viaggia, per chi è ancora spensierato, per chi andrà in vacanza, per chi sa ancora allargare le braccia e ballare in solitudine, per chi vorrà godere di questo filmato splendido risalente all’EuroFestival del 1970…

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Fela Anikulapo Kuti

dieci anni fa moriva Fela Kuti. dieci anni dalla scomparsa del Black President. mi rendo conto che in un giorno come questo vi sarebbero anniversari ben più amari e tristi da tenere a mente, ma la memoria del più grande musicista africano deve in qualche modo essere preservata. perchè malgrado il tempo passato stanno tardando a giungere le doverose rivalutazioni postume, le necessarie riscoperte e le celebrazioni. e penso questo soprattutto perchè mi accorgo che molti amici appassionati di musica e un poco più giovani di me sono completamente all’oscuro della vicenda artistica e umana di un grande africano, di un visionario rivoluzionario stroncato troppo giovane dall’H.I.V.

la sua biografia pare pensata da uno sceneggiatore e la sua immensa discografia partorita da un vulcano. in questo marasma di aneddoti e musica, di discorsi e politica è assai facile smarrirsi. è appena uscito un libro per StampaAlternativa che potrebbe aiutare nell’impresa di ritracciare le coordinate di una carriera lunghissima e densa. dall’infanzia in Nigeria verso l’Inghilterra e poi Los Angeles dove avvengono le prime registrazioni, le Black Panthers e i movimenti civili, l’uso della lingua inglese come grimaldello per raggiungere tutti i paesi d’Africa e l’Occidente soprastante, il ritorno a Lagos e la fondazione della Repubblica di Kalakuta e l’ostracismo dei poteri forti del suo paese. le idee politiche e l’impegno sociale, la mistica religiosa e le droghe, la visionarietà di uno dei più grandi ribelli d’Africa.

è davvero strano come oggi nomi quali Manu Dibango o Youssou ‘N Dour, Salif Keita, Miriam Makeba, Cheb Kaled o Cesaria Evora siano assai più noti in occidente di colui che probabilmente è per gli africani il più grande musicista di sempre. forse perchè deceduto poco prima dell’avvento delle grandi spettacolarizzazioni del baraccone musicale e della rete globale, forse perchè personaggio poco rassicurante e scomodo, dai contorni incerti e dalla dubbia moralità. ma ciò che resta è la sua musica.

l’afrobeat da lui pensato, suonato e voluto, un miscuglio incediario di jazz e funk, di poliritmie africane e musica yoruba, di high-life e percussione, una materia ancora oggi inesplorata e viva, incendiaria e dinamica come lo erano le parole lungimiranti che Fela declamava sulle lunghe suite o i suoi assolo di sax nell’ipnotico vortice che creavano le sue band. dai Koola Lobitos, agli Africa ’70 (con quel motore instancabile che era Tony Allen), fino agli Egypt ’80 degli ultimi tempi.

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questa la prima parte di un film documentario di Stephane Tchal-Gadjieff e Jean Jacques Flori sulla vicenda di Fela. per chi volesse ve ne sarebbe anche una seconda, e una terza (dall’inizio curioso) e una quarta e una quinta e un finale.

“Something tell me I’m right! So I will be the President one day, don’t worry! Music is the weapon!”

Fela Anikulapo Kuti (1938-1997)

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Fine and Mellow

giorni di luna che guarda a levante e dunque di grevità e amarezza, giorni di lutti silenti e di sbadato smarrimento. giorni di poche parole in cui ci si riscuote storditi e si cerca il beneficio altrove…increduli. ma ammesso che vi fosse se ne conosce la natura provvisoria e blanda come lo sono le certezze. giorni in ascolto dei ritmi bassi e profondi e delle frequenze che rimettono in sintonia le intenzioni e i bisogni, i desideri con i disdegni. giorni in cui quello sguardo disperato e sensuale sono l’ulteriore appiglio per commuoversi e caracollare oltre! e dunque lo vado a cercare dove sempre lo si è trovato, dove apparentemente sempre è rimasto.

oggi avevo solo bisogno di questo…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_tNSp7MaADM]

Billie Holiday, 1957

Love will make you drink and gamble
Make you stay out all night long

Love will make you drink and gamble
Make you stay out all night long

Love will make you do things
That you know is wrong

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Los Justos Jorge Luis Borges

Un hombre que cultiva su jardín, como quería Voltaire.
El que agradece que en la tierra haya música.
El que descubre con placer una etimología.
Dos empleados que en un café del Sur juegan un silencioso ajedrez.
El ceramista que premedita un color y una forma.
El tipógrafo que compone bien esta página, que tal vez no le agrada.
Una mujer y un hombre que leen los tercetos finales de cierto canto.
El que acaricia a un animal dormido.
El que justifica o quiere justificar un mal que le han hecho.
El que agradece que en la tierra haya Stevenson.
El que prefiere que los otros tengan razón.
Esas personas, que se ignoran, están salvando el mundo.

(da La Cifra, 1981)

mi piace ritrovare dopo molti anni questa poesia e riguardare indietro al lungo tragitto che ha compiuto, accompagnandomi discreta e rimanendo in silenzio seppur sempre presente. il mio illustrissimo zio la scrisse pochi anni di morire alla tenera età di 82 anni e la senilità accompagnata alla saggezza fanno risplendere le sue parole. io l’ho sempre percepita come un canovaccio, uno schema, una lista da proseguire, una sciarada da completare con la soluzione incerta, la verifica improbabile. Borges amava e perseguiva il concetto di infinito, la lunga concatenazione irrazionale degli eventi e delle cose, l’illogica consequenzialità di rimandi e spirali…ed io credo che ciascuno possa e debba provarsi a risolvere questo rebus di per sè indecifrabile che è la conoscenza degli altri o, se si vuole, la discoperta della loro magneficenza.

l’ho doverosamente citata in spagnolo, ma la sua traduzione potrebbe essere più o meno questa…

I Giusti

Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire.
Chi è contento che sulla terra esista la musica.
Chi scopre con piacere una etimologia.
Due impiegati che in un caffè del Sur giocano in silenzio a scacchi.
Il ceramista che premedita un colore e una forma.
Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace.
Una donna e un uomo che leggono le terzine finali di un certo canto.
Chi accarezza un animale addormentato.
Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto.
Chi è contento che sulla terra ci sia Stevenson.
Chi preferisce che abbiano ragione gli altri.
Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo.

a loro vorrei aggiungere una coppia di anziani che vedo nei miei mattini e che mi mostrano la squisita semplicità che c’è nella lentezza e nella mestizia, la loro pace fatta con il tempo e il loro prezioso silenzio sorridente.

un uomo che conosco poco e che vorrei come amico, che di fronte alla sua malattia mi mostra contegno e discrezione e si preoccupa per me, e non chiede pietà o comprensione, ma piutosto continua a interrogarsi curioso e a non mostrarmi la sua paura.

e una ragazza che sta diventando donna più in fretta di quanto vorrebbe, un’amica che si sta vestendo della più nobile delle virtù: la dignità. che a questa fa precedere e seguire la sua intelligenza e me le porge con l’indecende sensualità che è nell’eleganza…e che alla fine dovrà pure convenire con me che Borges c’entra sempre!

…anche queste persone si ignorano fra di loro, ma stanno salvando il mondo…

…il mio!

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Paolo Conte vs. Ravenna Festival

ho lasciato trascorrere qualche ora, qualche giorno, per vedere se quella strana sensazione di spiacevolezza e fastidio si dileguasse da sola obliata nella memoria. ma non è ancora successo e per questo ritento con le parole nell’ipotesi terapeutica della scrittura. venerdì scorso, 20 luglio, Paolo Conte era ospite del Ravenna Festival. i biglietti erano apparentemente esauriti da qualche tempo e dunque avevo allontanato l’ipotesi di assistere al concerto, ma il giorno precedente scherzando con un’amica salta fuori l’opportunità di procacciarsi due biglietti e dunque mi dico perchè no, perchè non rinnovare l’incanto di vedere il più grande di tutti ancora una volta sul palcoscenico. Anfiteatro di Marinara, questo il luogo. le mie perplessità relative a questo fantomatico sito permanevano insieme all’ignota idea di dove fosse e soprattutto, ingenuamente, del perchè collocare questo evento in un luogo estraneo all’idea stessa di teatro e spettacolo.

alla fine ci arrivo insieme a Diego e scopro che in realtà è un parcheggio quello che stavamo cercando e che di barche non ve ne sono proprio e anche il mare è nascosto dai nuovi palazzi in costruzione, in stile, ma in costruzione. si accede per una qualche via delimitata da transenne da cantiere e tutto questo stona felicemente con gli abbigliamenti delle signore e con le cravatte nonostante i 36 gradi evidenti di un tramonto di luglio. come se non bastasse c’è la sensazione olfattiva di catrame appena spalmato e la simpatica restituzione da parte dell’asfalto di tutto il calore accumulato nel giorno (Conte lo chiamerebbe macadàm). e poi gru che svettano tutt’attorno e la netta percezione che tutto è stato completato in fretta e furia per l’evento, con quell’operosità ottusa tipica di certa romagna manovale. un luogo ancora “freddo” perchè non vissuto e ancora privo di qualsiasi memoria, storia o vicenda.

e poi, come se non bastasse, l’increscioso fattaccio occorso qualche sera prima quando sullo stesso palco Pat Metheny e Brad Mehldau avevano dovuto condividere il loro spettro sonoro con una becera disco ’80 fuoriscita chissà come da qualche disco pub o da uno stabilimento balneare poco distante. e dunque l’editto fresco fresco in stile MinCulPop che vietava per la serata di venerdì qualsiasi emissione sonora o festa danzante o insulso piano bar. e tutto questo in piena stagione estiva! ed è proprio a quel punto che sorgeva inevitabile la consapevolezza che eravamo di fronte a qualche potere un po’ più forte che assolutamente aveva voluto gingillarsi di vanto e impreziosire la vetrina accaparrandosi niente di meno che Paolo Conte, ignara e colpevolmente incurante dell’aspetto artistico della questione e tutta presa dalla facciata e dalla promozione di un porticciolo turistico e di un affare ben più importante di un inutile concerto.

ma poi in qualche modo il concerto è davvero iniziato e dopo una decina di minuti di assestamento e settaggio di volumi e prestazioni audio si è potuto godere nuovamente della maestria dell’avvocato. poco importano i 40 metri di distanza e due enormi maxi schermi spenti e apparentemente intenti solamente a proiettare il nome del porticciolo nei momenti di pausa. poco importa se il pubblico gregge pare reagire sempre e solamente alle stesse tre canzoni da almeno 15 anni, un applauso di riconoscimento e un timido e stupido battimani (per la cronaca: Max, Sotto le stelle del Jazz e naturalmente Via con Me)… poco importa di un palco da r’n’r sul quale Conte e i suoi splendidi musicisti apparivano sperduti, poco importa in fondo… molto di più importa invece del mio rinnovanto incanto per alcuni arrangiamenti stravolti e della classe e dello stile smisurato di quest’artista che malgrado l’infelice collocazione ha fatto la sua cosa, e lo ha fatto incurante e strafottente di fronte all’apparente improbabilità di quel luogo.

non mi pareva il caso di tacere.

Paolo Conte resta, del resto poco importa…

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