Steven Jesse Bernstein Prison

ecco uno di quei dischi che difficilmente troverà una sistemazione logica all’interno di una discoteca personale, di una possibile classificazione. non è propriamente hip hop e neppure puramente jazz, lontano da una qualsivoglia forma di r’n’r è forse più propriamente un disco punk. è di certo spoken poetry e per il valore della materia meriterebbe lo scaffale dei libri piuttosto che la polvere dei cd! The Wire lo ha inserito nella classifica 100 Records That Set The World On Fire (When No One Was Listening) e non stava sbagliando!

il disco uscì nel 1992 per la Sub Pop, ma il suo autore aveva già deciso da qualche mese di apporre la parola fine alla sua biografia con un suicidio cruento all’interno del carcere di Monroe, Washington. ultimo gesto estremo a coronamento di un’esistenza che definirei cinicamente coerente. nato nel dicembre del 1950 a Los Angeles e trasferitosi a Seattle all’età di 15 anni cominciò come performer e ballerino e solamente in seguito si dedicò alla poesia e ai readings. violento, drogato e alcolizzato. maniaco depressivo se non bastasse. tre matrimoni alle spalle con altrettanti figli (il sito di Daemon). provocatore, agitatore e spesso protagonista di risse con il suo stesso pubblico vociante e bizzoso. fu arrestato nel 1991 per furto e dentro la stessa cella decise di tagliarsi la gola con un qualche utensile che faceva all’uopo.

il progetto iniziale di quel disco doveva corrispondere ad una trasposizione in chiave moderna del celeberrimo At Folsom Prison di Johnny Cash, ma la direzione del carcere negò l’autorizzazione e fu così che Steve Fisk assieme all’etichetta decisero di mettere mano a vecchie registrazioni alle quali aggiungere basi musicali e sonorizzazioni. fu postumo, ma fu un piccolo e prezioso capolavoro! la scena grunge lo assunse come idolo sotterraneo. i Soundgarden eseguivano dal vivo la sue No No Man e Morning in the Sub-Basement of Hell, Kurt Cobain saliva sul palco con una t-shirt raffigurante il suo volto.

è importante sottolineare come il disco del suo caro amico William S. Burroughs insieme a Michael Franti sia successivo. Spare Ass Annie And Other Tales uscirà infatti solamente nel settembre del 1993. medesime le coordinate, simili le atmosfere e taglienti e sadiche le loro voci. le storie di Bernstein vanno a scavare esattamente dove la letteratura americana ha affondato le radici nell’underground sommerso della sua disperazione. fra Dharma bums e losers, figure irresistibili per fascino e dissoluzione (la sensualità delle vite disperate…). autobiografiche, e per questo dell’umano tutto, come lo furone le storie di Kerouac o Fante, di Bukowski e Carver o Henry Miller. una lunga parabola che fa risplendere nell’oscuro quella parte del sogno americano che apparentemente giustifica nella poesia e nella cruda bellezza la restante immondizia. e proprio perchè è poesia penso che prima ancora di essere ascoltata, vada letta…ascoltata e letta!

The man upstairs

"The man upstairs is playing cards again, shuffling the cards on the carpet. He is alone, drinking grapefruit juice, playing solitaire, and masturbating once or twice a day. "You are my only friend," he said to me while shaving. "Oh, that's not true!" "Maybe not," he said, "but it probably is true." This hand is not going too well. He pounds on the floor and says, "What a shit layout!" I can hear everything he says up there. Almost everything he does, I can hear. When he dies, I will not hear that. I will hear nothing. He picks up the cards off the carpet and reshuffles. Then he goes to the refrigerator for more juice. Click, bang, like a gun - that's the refrigerator door. Open it, pour the juice, close it. He sits on the carpet and deals the cards, he drinks the juice and studies the layout. I know the man's habits, I know how he thinks. I've been listening to him go about his daily business for a long time. Longer than he realizes. He has been alone up there forever it seems, shuffling the cards, drinking the juice, tickling his own balls. He pretends to talk to people but makes no contact. His eyes are covered by milky cataracts. He talks right through people's faces and does not stop until he is out of breath. "A big zero," he says, apparently studying the cards. "A big zero." He picks them up off the carpet without playing. Now he is drinking juice. He undoes his pants, the buckle, snap the zipper, plays with his dick but nothing happens. He is getting older. Zips, snaps, buckles his pants and goes on drinking the juice. I notice that there is no music in his life, no radio, no nothing. He does not drink, he hardly eats anything. I see him in the cafe fighting with a bowl of soup, a few spoonfuls. He says, "Please, that's dinner." My life is more interesting than his. I can hear him but he can't hear me. Other than that I suppose there isn't much difference. I sit on the carpet and shuffle the cards, open and close the refrigerator, play with myself, eat dinner at the cafe. He lives on the top floor. There is nothing for him but bird's feed and rain. He is a bare skull. I am somewhere inside the body. Under me there is a vacancy. There is no one down there listening."

per chi ha sempre amato The Gift dei Velvet Underground, per chi ha sempre pensato che certa letteratura si sciogliesse inevitabilmente in cinema e che Jim Jarmusch sia un genio del nostro tempo, per chi è rimasto folgorato da Frank’s Wild Years (quella di Swordfishtrombones) di Tom Waits e per chi crede che in fondo anche l’America si salverà, per la strada contraria e avversa, ma si salverà. consigliato.

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No No Man Pt.2

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Giocando con Pelé

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il ricordo è sbiadito, ma molto probabilmente fu a Natale del 1976 che ricevetti in regalo questo libro. avevo 8 anni appena compiuti. la copertina era molto più eloquente di qualsiasi sinossi o edizione critica, Giocando con Pelè!

a quel tempo non credo sapessi con esattezza chi fosse quel calciatore anche se di certo avevo pronunciato quelle due sillabe più di una volta. lo avevo fatto sul campetto con gli amici o sull’asfalto della strada calciando un pallone, forse per imitazione di qualcuno più edotto di me… quel nome era una specie di grido evocativo, un mantra e un’onomatopea di qualcosa di esotico e profondamente legato al gioco del calcio, l’ignoto che si manifesta e assume le sembianze del fantastico.

sono certo che all’epoca la letteratura inerente il calcio non fosse proprio florida. il pallone già lo possedevo, le scarpe pure e anche una fantastica maglia arancione marca Adidas come quella dell’Olanda di Johan Cruijff. è proprio per questo che ancora oggi apprezzo lo sforzo che fece mio padre per scegliere quel regalo che è ancora in mio possesso e che tengo nella mia biblioteca preziosa. lire 2.000 recita la quarta di copertina! e se risfoglio l’indice mi torna alla mente troppo del tempo passato.

1. Il controllo di palla 2. Il passaggio 3. Il colpo di testa 4. Il tiro 5. La finta e il dribbling 6. Lo stop 7. Portare e guidare la palla 8. Punizione e calcio di rigore 9. Il portiere 10. La rimessa laterale 11. Raccomandazioni di carattere generale 12. Conclusioni

c’erano fotografie bellissime in bianco e nero e immagini esplicative di esercizi e posizioni, ma ciò che ricordo profondamente sono parole apostoliche di un discepolo del calcio. “E’ necessario avere un legame quasi sentimentale con la palla”…oppure “Prima di essere un calciatore devi essere un atleta, ma prima ancora di essere atleta devi essere un uomo” …o anche e definitivamente “Sii uomo, tanto nella sconfitta quanto nel successo. Solo se ti dimostrerai degno di te stesso avrai il diritto di meritare il rispetto e la fiducia degli altri” …bisogna ammettere che era roba forte per un bambino di 8 anni!

sono passati molti anni e oggi conosco meglio la storia di Pelé. immagini, video e altri libri ne consacrano la gloria, ma a me piace ricordarlo immortalato nel più bel goal sbagliato che io ricordi, in una finta sbalorditiva che ha spostato leggermente e di qualche frazione di grado l’asse terrestre. un gesto di assenza e di mancanza, un togliere, un sottrarre. semplificazione e essenza della semplicità. di certo un segno del genio e della purezza del suo talento…

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Mexico ’70 semifinale Brasile-Uruguay (3-1)

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Caetano Veloso 1969

in qualche modo e per qualche maniera a Caetano Veloso dovevo giungere. era inevitabile. inutile tergiversare e rimandare ulteriormente. la materia è immensa e la carriera quarantennale, ma un qualche approccio è seppur possibile e affrontare ciò che si ama è terapeutico.

cominciamo da qui…

Veloso incise questo disco nel giugno del 1969 a Salvador (Bahia), pochi giorni prima del celebre concerto Barra 69 insieme a Gilberto Gil. le canzoni erano nate fra marzo e aprile dello stesso anno. Caetano le aveva registrate per chitarra e voce rinchiuso nella sua casa in una specie di confino inflittogli dal regime militare a partire dal mese di febbraio. il disco verrà immesso sul mercato solamente ad agosto, ma già da un paio di mesi era comiciato l’esilio forzato a Londra.

le vicende che legarono in quel tempo Caetano e Gilberto Gil sono compiutamente descritte nella splendida autobiografia Verdade Tropical così come lo strano managment che si palesava dietro l’organizzazione di quel concerto al Teatro Castro Alves. il regime lo aveva concesso per poter raccogliere i fondi per acquistare 4 voli aerei per i due artisti e le loro compagne. a Londra cambiò non poco la vicenda personale dei due musicisti, e mentre Gil lentamente cominciò ad entrare in contatto con la scena musicale locale, per Caetano una massiccia dose di saudade costituì per lungo tempo il pane quotidiano. in quei giorni nei negozi inglesi campeggiava un disco dalla copertina tutta bianca, negli stessi giorni intorno all’equatore latino la firma di Veloso appariva sopra qualcosa di non del tutto dissimile. ed è curioso pensare a questo disco dunque come una svolta possibile che non si concretizzò per questioni di forza maggiore. ancora immersi nel Tropicalismo eppure già in fuga verso qualcosa d’altro, dentro una ricerca profonda delle radici musicali brasiliane e proiettato verso la poesia concreta e all’internazionalizzazione della canzone popolare.

Rogério Duprat agli arrangiamenti e alla direzione musicale, la genialità che prende forma e si incatena fra la tradizione e la visionarietà, il fido Gil alla chitarra classica (violão) e Lanny a quella elettrica indimenticabile. 12 brani fra composizioni originali e riletture, fra cover e sperimentazioni concrete. il talento di Caetano nell’esplosione della sua giovane creatività, con una voce ancora incerta e virata al ruvido prima che prenda definitivamente il volo e divenga angelica.

Irene è la più bella eredità del tropicalismo e una marcetta che sbanda fra psichedelia e samba. The Empty Boat è la capostipite delle grandi ballate intimiste di Caetano con l’arrangiamento di un puro genio. Marinheiro Sò è un tradizionale bahiano lavato nei panni della summer of love californiana. Lost in Paradise è la lezione melodica di Joao Gilberto, i Beatles lennoniani e la grazia di un innamorato della canzone. Atràs Do Trio Elètrico è il power trio nell’accezione carioca, il motore del carnevale e il luccichio delle paillettes. Os Argonautas è la riverenza e la deferenza verso la lingua madre, un fado, un omaggio a Pessoa, e parole che non mi hanno ancora abbandonato (Navegar é preciso/Viver não é preciso). Carolina è giù… più sotto! Cambalanche è un tango surreale e irriverente di E.S. Discépolo che Caetano fa risplendere come un novello Goyeneche. Não identificado risuona nella mia mente e le fa fare un viaggio transoceanico fino ad esplicare l’idea di esotico. Chuvas de verão è la bossa dolcissima di Fernando Lobo e la struggente interpretazione di Caetano… podemos ser amigos simplesmente, coisas do amor nunca mais! Acrilìrico rende omaggio all’amore condiviso con Duprat per la poesia concreta (collaborazione. controcanto. alka-seltzer. crash. orchestra. Santo Amaro… number 9! number 9! number 9!) Alfômega è Gilberto Gil al potere e Veloso sul trono dietro al microfono, tropicalismo puro, delirio della danza… Somatopicopneumàtico!

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Carolina dell’amico Chico Buarque eseguita nel 1998. la versione del 1969 è, se è possibile, ancora più bella. l’ho sempre pensata come una canzone d’amore per mia figlia che ha già un nome ancor prima di esistere…

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…a proposito del discernimento della bellezza!

ci sono i giorni densi, quelli che non attendi e che invadono il tuo spazio senza chiedere permesso, giorni di sonno scarso che acuisce l’intuito e aguzza i sensi e li fa vibrare malgrado la voglia di indolenza. quando il gesto antico di un contadino in mezzo ad un campo fa esondare un’emozione e quel braccio alzato in segno di saluto risplende contro le alture del granoturco, quando quattro pesche nelle mani use di una vecchietta sono la più bella offerta che mi si possa fare.

altrove e invano sto cercando di comprendere inutilmente questo senso preciso di perfezione che giunge a pervadere tutto, l’istante in cui tutto trova un senso, una logica inattesa. mi forzo a semplificare e la chiamo bellezza, mi provo a definirla e l’ho già perduta. sono sorrisi, sguardi e visioni laterali, fotogrammi che rubo alle vite altrui e tagli di luce e squarci d’orizzonte. non li cerco, e non li trovo… mi paiono oltre è indiferrenti a me, ma a me tornano prima di scomparire.

è quasi spesso la musica, o più spesso un suono. altrimenti l’olfatto o il tatto. nulla di nuovo. lo so! e sto allenandomi e facendo pratica affinchè l’esercizio si perfezioni e il riconoscimeno della bellezza sopraggiunga mio malgrado, che mi renda impotente di fronte all’ineluttabile, che mi lasci frastornato, confuso e vinto, stordito, disordinato e nuovamente muto.

Ah, it’s a happy time inside my mind
When a melody does find a rhyme
Says to me I’m comin’ home to stay
Oh, Lord, home to stay
I’m comin’ home to stay
Home to stay!

e poi te ne ritorni a casa con l’esatta consapevolezza del disco che vorresti ascoltare, di ciò di cui avresti di certo bisogno e ti interroghi se puta caso la magnifica ossessione delle immagini non ti possa riservare qualche sorpresa… e improvvisamente accade di nuovo! accade che dietro quelle palpebre abbassate si materializzi ancora lo stupore della meraviglia, che l’assenza della volgarità della batteria faccia splendere la scena, che quei quattro musicisti affondati in un bianco e nero restituiscano tutta la gloria e di nuovo la bellezza! …e poi Tim Buckley!

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Happy Time Blue Afternoon (1970)

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Give God a Chance

God is a concept by which we measure our pain…

e poi viene un tempo in cui è necessario riascoltare vecchi dischi che mi hanno accompagnato per lunghi anni, fidati compagni di viaggio dai quali ci si era separati senza dirsi addio, piccole pietre miliari che segnano il cammino fatto. il primo disco di John Lennon fuoriuscito dai Fab Four è immediatamente e per sempre il suo capolavoro. imprescindibile. John Lennon/Plastic Ono Band esce nel dicembre del 1970 e si pianta esattamente al limitare di due decenni fondamentali per la musica rock tutta, un vessillo, un testamento e una promessa.

molto, tanto, e persino troppo, tutto concentrato in 40 minuti scarsi. Abbey Road che confina già con Manhattan, il fidato Ringo, la produzione di Phil Spector. tutti i demoni e i fantasmi intrappolati in undici canzoni dopo quattro mesi di terapia psicoterapeutica. l’urlo infantile e il pianto, l’amore (Love resterà ancora per molto tempo “La” canzone d’amore) e i Beatles alle spalle. la più bella canzone che Dylan non ha osato scrivere (Working Class Hero) e il cinismo, la madre, il padre e un rock che si fa scarno, essenziale, nervoso. ballate rubate alle sessions del White Album (e facile pensare Look at Me in una qualsiasi di quelle quattro facciate) e poi dolcissime carezze soul fatte a se stesso (Hold On… di una bellezza disarmante).

…e poi c’è God.

mi sono soffermato così tante volte su quel testo così personale, così intimo, da divenire universale. lui sempre il medesimo ed io che crescevo e cambiavo. le parole immobili e impresse indelebili e la mia coscienza che mutava, sbandava e si attorcigliava attorno al senso compiuto di una confessione che diviene un credo. dio è un concetto, lo ripeto un’altra volta, e poi quella progressione di accordi e parte quella lista ineffabile di “false” credenze, di negazioni. non dev’essere stato facile! non dev’essere stato semplice giungere a quella autodeterminazione individuale, necessaria e probabilmente assoluta. gridare I just believe in me e poi sussurrare innamorato, Yoko and me …and that’s reality!

Imagine giungerà solamente un anno più tardi e non sarebbe certo stata possibile senza God! perchè solamente un uomo libero può sognare tanto. sopra un muro della mia città ha resistito e campeggiato per molto tempo una scritta che credo non sia del tutto inappropriata… per vivere l’utopia occorre prima sognarla! (qualcosa di anarchico fra Emile Henry e Errico Malatesta)

da molto tempo non penso più che la musica possa cambiare il mondo, al limite gli individui, ma nel caso fortuito in cui mi sbagliassi sono certo che questo disco farà la sua parte!

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Tin Hat The Sad Machinery of Spring

e poi alla fine si torna sempre ai soliti discorsi, ai soliti dibattiti inerenti gli ascolti musicali che si sono fatti furtivi e fugaci, sin troppo rapidi e passeggeri. tutti quei dischi da staccare e cogliere come pesche da un ramo, come un Eden inimmaginabile al quale un po’ tutti possono approdare senza meriti e neppure colpe. quell’abbondanza a cui non si fa più attenzione… un paese dei balocchi per asini cresciutelli e dalle orecchie sempre più grandi e sempre più sazie! però una volta i dischi facevano lunghi giri e avevano mutazioni più che stagionali! però così si uccide la musica! però il cd con il suo bel libretto è tutta un’altra cosa! però così ascolto un sacco di musica in più! però 20 euro per un cd!

io sono abbastanza vecchio da aver formato la mia educazione sentimentale e musicale su nere vecchie “pizze” di vinile che portavano addosso il segno della mia passione e me lo restituivano sottoforma di friggione che andava sempre più intensificandosi sotto la puntina, ascolto dopo ascolto! mi sono costruito una coscienza e un senso al mio modo di sentire, di suggere l’unico nettare di cui proprio non potrei fare a meno, una specie di vanagloria di cui vado fiero, un istinto da cacciatore che mi conduce diretto a scegliere una preda in mezzo alla selva di musiche che mi circondano. parlo del mio, sto nel mio, e egoisticamente non voglio allargare i discorsi a questioni sociali o etico fruitive.

così quando annuso certi dischi fiuto immediatamente la delizia primordiale della gioia della musica, la stessa della mia pubertà, la stessa che mi auspico mi accompagni fino in fondo. e non mi sbaglio! non necessito di un secondo ascolto per comprendere… ho questa pretesa, sarà difficile privarmene! un disco prestato, una recensione, una voce fuori dal coro o una melodia di terza fila udita erroneamente ed ecco che l’incanto si compie nuovamente. oppure mio fratello che (e non si capisce come faccia) mi invia sms misteriosi con nomi sconosciuti che mettono immediatamente in moto la macchina robotica delle mie ricerche. lui che restando fermo dietro un bancone vede scorrere le cose, lui che il mondo non è poi necessario girarlo… tanto prima o poi passa tutto di qua!

e se il messaggio reca queste lettere: Tin Hat, ecco dunque disvelarsi un’altra volta la meraviglia. pochi istanti e poche ricerche conducono immediatamente al tesoro. la breve biografia semplicemente spiega di come sia caduta la necessità di definirsi trio dopo alcune vicissitudini che alla fine hanno portato gli elementi del gruppo a cinque, dopo la dipartita del leader fondatore Rob Burger. ecco dunque Mark Olson, Carla Kihlstedt, Ben Goldberg e Zeena Parkins e Ara Anderson! roba d’oltreoceano, musicisti eccelsi, sensibilità classiche e orecchie curiose unite a gusto (finissimo) e coraggio da viaggiatori antichi. nel loro sito molte delucidazioni in proposito e nel loro ultimo disco cotanta grazia!

The Sad Machinery of Spring è uscito a gennaio di quest’anno per la Hannibal/Rykodisc e cercare di descriverlo è cosa apparentemente complessa. qualcuno la vorrebbe circoscrivere a musica da camera di ascendenza classica, ma dentro quella camera tutto quel mondo non ci può stare. sottoscala di Budapest e palcoscenici polverosi anteguerra, alcuni incanti pomeridiani che solo i porticcioli mediterranei sanno dare e treni che si spostano, migrazioni e deportazioni, klez e balcani in mezzo a tentazioni latine. l’ideale anello mancante che lega indissolubilmente Kurt Weill a Tom Waits passando per la Penguin Cafe Orchestra fino a giungere agli A Hawk and A Hacksaw, con il jazz a fare da carta da parati come in un presepio! musiche pressochè strumentali, lentezze a segnare l’ipotetico ritmo di una vita possibile e quel clarinetto che sa giungere nei luoghi remoti dei miei ascolti… il consiglio è implicito!

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Hotel Aurora performed at Club Helsinki, Great Barrington, MA on Jan 27, 2007

 

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il nocino

ogni qualvolta sopraggiunge il solstizio d’estate e il conseguente 24 giugno, ossia le natività di S.Giovanni Battista, mi torna alla mente un vecchio articolo letto molti anni fa sulla rivista di Slow Food. la firma era quella di Michele Serra. l’argomento trattato il nocino. non ricordo molte cose altrettanto esilaranti e per questo mi permetto di copiarlo tale e quale ed incollarlo. rileggendolo mi accorgo inoltre che viene citato Piero Camporesi del quale ricordo alcune lezioni universitarie che riconciliavano con il sapere umano e il suo essere gastronauta ante litteram, nonchè fine dicitore!

“Le noci devono essere raccolte il giorno di San Giovanni, il 24 giugno. Secondo altri, il giorno del solstizio d’estate, 21 di giugno. Secondo altri ancora, il giorno giusto è quando vedi qualcun altro che va a raccoglierle e temi di restare senza. La maggioranza delle persone le raccoglie comunque a metà luglio, quando si rende conto di avere trascurato la fatidica scadenza di San Giovanni. È allora che si seguirà alla solenne esclamazione dei padri “Cazzo! Anche quest’anno ci siamo dimenticati” il rito della raccolta. Si dirà allora, aprendo una noce e constatando che oramai è torrefatta dal solleone ed interamente divorata dai vermi, che comunque “la stagione quest’anno è in ritardo”, ed un mese dopo non fa differenza. Allo stesso modo, terrorizzati dall’idea di dimenticare la scadenza di San Giovanni, alcuni pensionati fanno incetti di noci già ad aprile, sostenendo che “la stagione è in anticipo” ed un mese prima non fa differenza, e raccogliendo rudimentali germogli che stanno ad una noce come uno spermatozoo sta ad un bambino di sei mesi.

La raccolta si deve fare in due: uno si aggrappa con tutto il suo peso ai rami più bassi così da porgere la fronda al partner. Questo, si noti bene, avviene anche se il ramo è già a mezzo metro d’altezza, perché l’importante, in questi riti agresti, è significare in ogni modo la nobiltà della fatica fisica. Mentre il raccoglitore comincia la raccolta, il piegatore si rende conto che la torsione spasmodica che sta imprimendo ad un ramo generalmente di mezzo metro di diametro è soverchiante per le sue forze. Così molla di colpo la presa, e il ramo colpisce il raccoglitore prima sulle mani, facendogli cadere così tra le ortiche le tre noci fin li raccolte, e poi in pieno viso vivificandone l’umore. Allora il raccoglitore propone al piegatore di invertire i ruoli, in modo che tocchi a lui, questa volta, mollare il ramo sulla faccia dell’altro. Non a caso, secondo gli storici dell’alimentazione, nelle zone dove si raccolgono le noci le popolazioni sono si denutrite, ma possono vantare una socialità a prova di bomba: due persone che tornano dalla raccolta delle noci senza avere tentato di sopprimersi a vicenda, sono pronte ad affrontare ogni genere di conflitto sociale con sperimentata saggezza.

Ma torniamo al nostro nocino. Si constata, a questo punto, che in due ore di bestemmie e ferite lacerocontuse si è riusciti a riporre nel paniere solo una ventina di noci rachitiche e fittamente bacate. La loro scarsa altezza dal suolo le ha esposte, infatti, al morso e all’ingiuria di quasi tutte le bestie censite sul territorio nazionale, dal ghiro al tasso al pensionato al ciclista, nonché all’urina di cani, volpi e gatti che segnano il territorio, di preferenza, pisciando sui rami più bassi. Raccoglitore e piegatore si propongono, allora, di salire insieme sui rami superiori, dove le noci sono abbondanti e più riparate. L’odierna vicinanza delle astanterie, un tempo raggiungibili solo in molte ore di cammino, li rassicura molto. In particolare in Emilia, terra molto avanzata in fatto di servizi sociali, il periodo in cui i pensionati raccolgono le noci è segnalato da un continuo sorvolo d’eliambulanze. Ma facciamola breve.

Mettiamo che i nostri due raccoglitori siano riusciti, rimanendo illesi, a riporre nel paniere le sessanta noci necessarie per cinque litri di nocino ed a fare ritorno a casa senza ricorrere al pubblico soccorso. Si tratta, a questo punto, di tagliare questi durissimi frutti in due metà ciascuna, così da farle entrare nella damigiana. Il collo della damigiana deve essere stato studiato, secoli fa, in modo da far passare di tutto, dal quarto di tacchino all’ananas intero, tranne le mezze noci. Le mezze noci, infatti, non passano. Si procede allora a tagliare le noci in quarti, che finalmente passano e vanno, con un tonfo sinistro, ad immergersi nell’alcol, nell’acqua, nello zucchero, nella cannella e nella scorza di limone che abbiamo precedentemente preparato. Si alzano allora le mani al cielo in segno di ringraziamento, e ci si rende conto che sono completamente, paurosamente nere. Come le noci fresche, che sono verdi, riescano a tingere le mani di un nero definitivo e persistente, è uno dei più affascinanti misteri della natura.

Parentesi. I due preparatori di nocino non sono arrivati a questo momento se non dopo avere lungamente discusso sulla ricetta giusta. Si contano, nella sola Emilia, circa settecentomila confezionatori di nocino casalingo e dunque settecentomila differenti ricette giuste. Con o senza cannella, con o senza noce moscata, con tanta acqua o poca, con la mentuccia, con l’erba limoncina, senza nessuna di questa cose ed in qualche caso, che lo studioso dell’alimentazione Piero Camporesi fa risalire alla piaga del cretinismo tipica di certe valli, anche senza le noci. Si rivendica ognuno la conclamata superiorità della ricetta della propria nonna, si deride chi antepone all’esperienza popolare la fantomatica ricetta dell’Artusi, si aggiunge che l’Artusi l’aveva comunque imparata dalla propria nonna, si finisce, e non è bello, col litigare tirando in ballo anche le nonne altrui e la loro moralità. Alla fine, fortunatamente, vince un solidale spirito di compromesso: “E va bene, facciamo come diceva quella gran troia della tua nonna”.

Immerse le noci, con una fatica superiore a quella impiegata per calare il Cristo degli abissi, dentro la damigiana insieme agli altri ingredienti della nonna, tutto parrebbe finito. Invece no. Una feroce faida divide da secoli i sostenitori della maturazione al buio ed i sostenitori della maturazione del nocino al sole. La damigiana viene così spostata per quaranta giorni, a seconda di chi si trova da solo in casa e possa operare di nascosto, al buio ed al sole, alternativamente. Al quarantesimo giorno, il nocino è pronto. In genere è una specie d’intruglio infiammabile dal sapore di sciroppo al tannino, nerastro come i liquami della pulitura di un camino. Di tutti gli ingredienti, spentisi mestamente nella damigiana come pazienti dimenticati in una camera iperbarica, il solo che esce vittorioso è l’alcol. La gradazione di un nocino medio, per motivi che sfuggono agli studiosi di tutto il mondo, è superiore a quella dell’alcol puro. Spesso, infatti, si deve aggiungere alcol puro al nocino per diminuire la gradazione alcolica.

Lo si beve, comunque, con soddisfazione ed orgoglio pari alla fatica spesa per confezionarlo. È stato calcolato questo: tenendo conto del prezzo esorbitante dell’alcol da liquore, delle damigiane, dei tappi, degli imbuti, dello zucchero, delle scorze di limone ovviamente biodinamico, della cannella, della noce moscata, della pasta abrasiva da meccanico per pulire le mani, degli stracci per pulire per terra e del Baygon impiegato per tenere lontane le colonie di formiche che arrivano anche da altre province attirate dai miasmi dolciastri; e considerato che il valore medio di un’ora di lavoro non specializzato è di venticinquemila lire; ogni litro di nocino fatto in casa costa sulle duecentoquarantamila lire. Un buon nocino artigianale, invecchiato cinque anni, costa nel più esoso dei negozi intorno alle quindicimila lire. Ma non osate dirlo ad un nocinista fai-da-te: è come dirgli che sua nonna è una troia.”

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Bexar Bexar

probabilmente a questo punto non è davvero più importante chiedersi il perchè e il come certe musiche entrino immediatamente nel tempio sconsacrato dei miei ascolti! per quale via e in che maniera ora non ha più senso, ora che definitivamente Bexar Bexar gira instancabile e riempe le stanze. forse fu una recensione di BlowUp o un link da qualche parte sulla rete: di certo fu qualcosa di privato, una scoperta solitaria, qualcosa che succede un po’ di nascosto con una strana sensazione di proibito.

Bexar Bexar è lo pseudonimo di un ragazzo texano di Austin al quale non importa poi tanto far sapere la sua vera identità, un ragazzo che immagino riservato e chino sulla sua chitarra a dare forma alle sue composizioni e a rallentare i battiti del suo cuore. musiche lente che si attorcigliano sinuose su se stesse, come in un impasto elettroacustico. melodie intime e private che si appoggiano sopra sei corde e si colorano di drones, glitch, sintetizzatori e loops dosati dalle mani e dalla misura di chi ha conosciuto la bellezza.

Haralambos è il suo primo disco del novembre 2004 uscito per l’etichetta Western Vinyl. 15 composizioni strumentali che portano alla mente troppo banalmente alcuni discorsi su musiche d’ambiente e al suo maestro incontrastato, Brian Eno. facili approssimazioni, scorciatoie da recensori che non rendono giustizia alla grazia sottesa in tutto il disco e ad alcune soluzioni armoniche che come germogli attendono di fiorire. le ritmiche sono digitali e i tappeti di tastiere sostengono le trame di un discorso che promette di divenire.

nel 2007 esce il secondo album Tropism e un sorriso discreto si allarga assieme al compiacimento di una parola data e mantenuta. dieci composizioni, la materia che diventa rarefatta, l’abbandono di un’elettronica pervasiva e un’ulteriore rallentamento. una maniera di sedare gli istinti. la chitarra al centro ed una stratificazione di suoni attorna ad essa. un disco prezioso, intimo e dolce come certe parole taciute.

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il tour europeo di Bexar Bexar giungerà il 21 giugno all’Hana-Bi di Marina di Ravenna. sarà l’occasione di incontrare un ragazzo texano che si fa precedere dalla fama di beatnik instancabile che vagabonda per gli States portandosi negli occhi certi cieli texani e profumi d’oltre confine. chi ha voluto vedere nei suoi paesaggi i deserti e le pietre aride, certe desolazioni che sono proprie dei luoghi perduti ha probabilmente tralasciato di guardare a fondo quelle copertine e quei colori che ritornano al mare, a quella sabbia che rallenta i passi e ad un dondolare lento come lo sciabordio di quella barca. e sarà bello vedere questo concerto mentre il solstizio d’estate allunga le ombre verso il mare e l’oscurità tarda a venire e forse me ne ricorderò a lungo, come fanno i souvenirs ritrovati in un cassetto o le cartoline spedite da una riviera.

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1+2=3

a proposito della MPB (Mùsica Popular Brasileira) ci sarebbero un’infinità di cose da dire. troppe. ma una varrebbe la pena almeno di citarla. l’umiltà, la stima profonda e il costante rispetto che unisce artisti e musicisti in un connubio proficuo che lega tradizione e innovazione senza soluzione di continuità. collaborazioni, gesti di stima, covers e ringraziamenti dovuti: band che si formano, partecipazioni e special guests e produzioni. sarà sufficiente sfogliare il libretto di un qualsiasi cd brasiliano in uscita recente o meno e si troverà una sfilza di nomi a corollario di quanto appena detto. Moreno Veloso, Domenico Lancellotti e Alexandre Kassim non sono da meno, anzi il loro progetto è andato pure oltre. Il primo dei tre porta un cognome assai celebre, è naturalmente bahaino come il padre, e come lui suona la chitarra e canta. Il secondo ha origini evidentemente italiane, carioca di nascita e percussionista di professione. il terzo è bassista, oltre che produtture e compositore per altri grandi artisti brasiliani.

pressochè coetanei, i tre si conobbero nel 1999 in alcune session in quel di Rio e decisero di dare vita ad un progetto musicale ispirandosi inizialmente alla grande lezione sperimentale del maestro Arto Lindsay. il loro disegno però lungimirava ben oltre e la struttura del tutto aveva natura assai democratica e trina. realizzare tre dischi assegnando a turno a ciascuno dei tre la scrittura, la composizione e la ragione sociale del tutto. un socialismo d’intenti e una vera cornucopia di genio e musicalità.

il primo disco esce nel 2001. Music Typewriter (Màquina de Escrever Mùsica) per l’etichetta Palm. è Moreno Veloso a condurre le danze e ne esce un disco che da una parte prende le mosse dalla tradizione della bossa per giungere ad una visione moderna della medesima. molte canzoni, chitarra in primo piano, una voce che può solamente crescere e in nuce l’elettricità che scalpita sul fondo in attesa di un futuro possibile.

Sincerely Hot è di qualche anno più tardi, il 2004 per l’esattezza. questa volta la Luaka Bop di David Byrne non si fa cogliere impreparata e chiude il contratto ed il connubio inevitabile. il nocchiere questa volta è Domenico, di mestiere percussionista. e si sente! ecco dunque la virata dentro il ritmo e le poliritmie brasiliane, verso un gusto che parte dalle spiaggie carioca per approdare ad un qualsiasi orecchio mondiale. exotica e jazzy che si mischiano con il funky e rumorismi electro, il tutto visto attraverso la lente di una sensibilità inevitabilmente brazilian. un disco bellissimo per chi scrive.

da tempo dunque attendevo il terzo e conclusivo episodio di questo progetto, in silenzio tacendomi l’ipotesi pessimista di un fallimento dello stesso, ma confidando nella caparbietà e nella serietà di tre giovani e maturi professionisti. l’attesa non è stata vana. sempre Luaka Bop, sempre loro tre e, come da bravi si fa, questa volta a Kassim lo scettro produttivo e creativo. un disco che sta girando da qualche tempo nel miei lettori grazie alla donazione volontaria di Diego e del suo Pulpito, un disco che necessita altri ascolti prima di addentrarmi in eventuali giudizi, un disco raccontato con dovizia di particolari dall’etichetta e alla quale mi(vi) rimando. il progetto (Moreno/Domenico/Kassim)+2 approdò qualche tempo fa in terra di Romagna presso l’Area Sismica e io fui impossibilitato a vedere quel concerto. l’estate li dovrebbe riportare nel belpaese (purtroppo non ho info) e sarebbe opportuno non sciupare vanamente tali occasioni. per ora un video sufficientemente buffo e rappresentativo, la mia soddisfazione del compimento e del lieto fine della storia e il solito consiglio di ascoltare questi piccoli gioielli.

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Alegria Vai Là / Domenico+2 (Luaka Bop, 2004)

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five easy pieces

prendo a prestito il titolo originale di un lontano film del 1970 di Bob Rafelson e inauguro una piccola sezione nuova del mio blog. la si può vedere qui di fianco a destra. mi spiego meglio…

chi ha visto questo film saprà e ricorderà come la musica fosse presente in maniera evidente nella trama di tutto il film, sin dal titolo. la storia della famiglia, il fallimento di una carriera e la rappresentazione traslata di una borghesia in decadenza. un road movie introflesso, il segno della sconfitta di una generazione, un film subdolo e sofferente, scorretto e disperato. Five Easy Pieces aveva sotto traccia la musica, strisciante e insinuante come nelle vite di molti di noi. dunque una citazione innanzitutto di un film amato e mai dimenticato e la prerogativa di cominciare ad annotare quei dischi che percorrono per qualche tempo i miei giorni, li affiancano e li sostengono e qualche volta li trasformano. perché è sempre tempo di novità, riascolti e riscoperte, prestiti preziosi e ignote e misteriose musiche affondate nel buio della coscienza collettiva. suggerimenti, suggestioni e colonne sonore. masterpieces e ineffabili classici. ninna nanne e noise insieme.

mi limiterò a cinque. li sostiuirò quando riterrò che sia il caso di farlo. non è una classifica. non è nulla di definitivo e soprattutto sarà un promemoria per me ed un suggerimento per chi lo vorrà. conto presto di poter rendere le voci linkabili, non appena il mio amico avrà un minuto per me, per ovviare alla mia imbecillità informatica di cui sotto sotto vado fiero.

è come sempre solo musica, non cambierà il mondo, ma salva la mia vita!


Chopin, Preludio No.4

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