ancora Mazurek, sì, ancora lui! se trovassi un buon motivo per smettere di raccontarne la parabola prometto che lo farò, ma finché occuperà la contemporaneità con quella maniera guascona, solenne ed ingombrante ci sarà sempre una pagina di questo blog a sua disposizione.
la dimensione live si addice al cornettista e al suo cubo nero paulista, un’armata sbandata ma invincibile nell’errabonda estemporaneità di un set sciamanico e caliginoso: Rob Mazurek (cornetta, elettronica), Guilherme Granado (tastiera, elettroniche), Mauricio Takara (percussioni, cavaquinho, elettroniche) e Thomas Rohrer (rabeca, sax soprano e ammennicoli vari). questa la formazione impegnata in un tour europeo che non poteva non far tappa all’Area Sismica: il legame fra il musicista americano e l’esperienza resiliente (ed oramai storica) dell’associazione culturale forlivese è qualcosa che trascende il semplice rapporto fra l’artista ed i circuiti live, piuttosto un sodalizio e un’amicizia dal sapore orgogliosamente inattuale.
domenica 15 novembre ore 18,00, presso il Teatro Felix Guattari di Forlì (evento collaterale della Settimana del Buon Vivere) scendono in pedana i quatro Mosqueteiros con campanacci, conchiglie e cantilene salmodianti: una processione scomposta per riscaldare lo spirito, raggiungere le rispettive postazioni ed avvertire il pubblico affamato che quanto andranno ad udire sarà grave ma non serio (parafrasando Ennio Flaiano). l’approccio spurio e mascalzone del quartetto fa strabordare autoironia e meticolosa perizia tecnica fino a far toccare questi estremi, circondando il pubblico inconsapevole in un gorgo che li inghiottirà fino alla fine del set.
il progetto di Mazurek con i Black Cube SP è un’espansione del già noto São Paulo Underground (in terzetto con Takara e Granado) nel tentativo di catturare la mesmerica e ribollente scena paulista, inglobandone musicisti e cercando di afferrarne traiettorie e tendenze. sul finire dell’anno scorso uscì Return the Tides: Ascension Suite and Holy Ghost (Cuneiform, 2014) nel quale una session già programmata si trasformò, a seguito dell’improvvisa scomparsa della madre del trombettista, in una celebrazione pagana in memoria (ne scrissi qui). ad un anno di distanza l’elaborazione (collettiva) del lutto ha fatto germogliare slanci e visioni in quella cosmogonia personale e peculiare che è propria di Mazurek e dei suoi progetti visionari.
raccontare un live è pur sempre arduo, raccontare di questo lo è forse di più. imbambolato dal profluvio magmatico di suoni mi ripetevo, come in un mantra, alcuni vocaboli per rischiare di non perdermi nella giungla post-tropicalista che cresceva rigogliosa tutt’attorno: sabba batucado, flusso di coscienza, sciamanismo, catarsi, magma ribollente, densità, ipnosi e vibrazioni psichedeliche. la massa stratificata di suoni ingigantiva e fluttuava come un’entità a sé, indipendente dalle volontà dei musicisti e inestricabile nel fittume di voci, loops, riverberi, fuzz e larsen. impensabile etichettare “questa” musica e lungi da me il pensiero di farlo.
Thomas Rohrer che suona la rabeca con un frullino monta-panna elettrificato potrebbe di per sé essere paradigmatico del caos ottundente di generi, situazioni ed approcci. il folklore brasiliano è un totem da seviziare o da ossequiare in un’anno domini randomizzato fra l’oggi e una futuribilità presunta. oppure, così come non è segreta la passione di Mazurek per la cosmologia, per ardite ipotesi siderali e per provenienze incerte di suoni, spazi e tempi, non è difficile evocare Sun Ra (appiccicato come un ex-voto alla tastiera di Granado ed evocato nelle litanie corali intonate dal gruppo) ed il suo universo che cominciamo a dipanare e comprendere solo oggi che lui ha già preso place nel suo space.
un’esperienza estemporanea, un trip (mi si conceda) sin dentro l’urgenza della contemporaneità, nel suono più scontroso ed accondiscendente che le mie orecchie possono udire attorno. Ariele Monti, autore di queste foto (molte grazie!) e mediano di spinta dell’Area Sismica mi ha ventilato la possibilità di udire questo concerto a Battiti (chi altri se non loro?): e allora non resta che attendere la riproposizione del live per godere una volta di più di quest’orgia pagana e spirituale, di questa meraviglia che rende vivi e liberi. stay tuned!
live e intervista con Francesco Giampaoli
per la presentazione del concerto del 14 dicembre 2015
per la rassegna Radici
in studio con Francesco Giampaoli per suonare Enrico Farnedi (tromba e voce) Lanfranco “Moder” Vicari (voce rap) Enrico “Mao” Bocchini (batteria) Diego Pasini (basso)
e per raccontare Federico Settembrini (assessore alla cultura del comune di Cotignola) Corrado Molducci (amico, musicista, alias Stavros Zagorakis)
le musiche della trasmissione Grattano (live a Radio Sonora) Fra poco i saluti (live a Radio Sonora) Quanto Piangere (tratto dal disco di Enrico Farnedi Ho lasciato tutto acceso, Brutture Moderne 2010) Pensieri Utili (live a Radio Sonora) Sei (live a Radio Sonora) Danza del Ventre (live a Radio Sonora)
che musica ascolti? è una di quelle domande che risparmio al prossimo e dalle quali cerco di rifuggire: porre certe questioni agli sconosciuti potrebbe portare a conseguenze nefaste, come del resto cercare di evitarle ci ammanta di una vischiosa melassa fatta di snobismo ed antipatia. meglio non fare domande. meglio rifuggire dai generi. meglio attenersi all’assunto stigmatizzato da Duke Ellington secondo cui “There are two kinds of music. Good music, and the other kind!” l’eleganza, lo stile e l’acutezza del Duca non si esprimevano solo sul pentagramma, va da sé!
ma nella mia solitudine mi vado chiedendo quale sia la musica che mi piace, a prescindere dai generi (sic!), ascoltando davvero di tutto, invidiando i monomaniaci (che nel loro dogma hanno risposto alla domanda) e continuando ad essere convinto che la vera epifania si compirà solamente con la musica che ascolterò domani (croce e delizia dell’insanabile curioso). e così facendo qualche fumosa risposta comincia ad affacciarsi alla soglia della comprensione, con i suoi contorni imprecisi e con una miseria di sostantivi per cercare di descriverla.
mi corre in soccorso un disco come Songs Of Gold, Incandescent licenziato da Lieven Martens Moana attraverso il suo pseudonimo Dolphins Into The Future per l’etichetta personale Edições CN. che musica è mai questa? come raccontarla?
tralasciando per una volta i dettagli tecnici, le info, le biografie ed i retroscena, mi torno a chiedere: che musica è mai questa?
elettroacustica? seriale? concreta? semplice field recording? pastiche? psichedelia da rigattiere? rumoristica? musica futuristica? musica naturalistica? library?
probabilmente nessuna di queste e tutte queste assieme: nel mio misero vocabolario mi sono detto che l’aggettivo organico (organica nell’accezione femminile rivolta alla musica) potrebbe starci. organica in quanto attinente alle macchine e a gli strumenti, organica riferendosi ad un rapporto con organismi viventi (umani e/o animali e pure vegetali), organica in quanto relativa agli apparati che costituiscono il corpo umano, organica nella relazione e nelle strutture delle parti che formano il tutto. Songs Of Gold, Incandescentnel bel mezzo dei miei padiglioni auricolari suona come musica organica! un miscuglio di registrazioni diverse, raffazzonate, mescolate e rese a dispetto della qualità acustica che le contraddistingue: “Songs Of Gold are nine small portraits, culled from compilations, limited run cassette releases, choreographies, and 7” singles. Some pieces were worked on for a length of time, others materialized in just about one take. All the songs are derived by an encounter with an object, a place or a person. Or by a combination of these. The events are translated into the work through the intermediary of symbolic sounds and notes. There is no thematic link between the compositions.”
il retro di copertina del disco recita così, ma c’è da chiedersi se le delucidazioni non producano in realtà l’effetto contrario. ogni brano tenta una sua esplicazione ma se si prova ad allontanare lo sguardo per una visione d’insieme e cercare il filo conduttore fra una spiaggia a sud del Portogallo, il crepitio di uno stagno, un poema hawaiano, una grotta sperduta nelle isole Pontine, Le Labrene di Tommaso Landolfi, Paul Gauguin visto a Bora Bora dal bancone zincato di un bistrot parigino, un’eruzione vulcanica, la mitologia delle isole Samoa e un bozzetto elettronico casalingo ecco che la comprensione si squaderna e lo smarrimento prende il sopravvento. eppure il flusso musicale prende senso nel susseguirsi degli ascolti, aumenta la familiarità al pari dell’abbandono, la definizione dei confini con lo smagnetizzarsi della bussola.
questa per me è musica organica, qualsiasi cosa voglia dire! musica fuori dal pentagramma, a piè di pagina, materia amniotica, recondita, liquida e primordiale: musica di scarto o di risulta, inutile nel suo progredire senza scopo, materica ed ancestrale, suono deperibile e fragile. con il tempo mi sono abituato ad avventurarmi in questi luoghi, a perdermici, a ricercarli come rifugio: potrebbe essere a causa dei lunghi anni di militanza nel thc (no! non è un partito politico) o forse della forsennata ed ottusa ricerca di un suono terapeutico e curativo che trascendesse i paradigmi in cui schematizziamo la storia della musica (sempre quelle etichette di cui sopra) e che scavalcando il nostro bagaglio culturale andasse dritto al nocciolo misterioso del nostro ascoltare.
potrei stilare una playlist, una manciata di dischi e di progetti sonori che forse mi aiuterebbero a mappare questo concetto spargolo e fumoso: magari lo farò (non ora) sebbene io non sia certo che classificare e rendicontare vada nella direzione della chiarezza o piuttosto nel suo opposto. per ora mi tengo quest’idea di musica organica immaginando che in un futuro non lontano non sarà improbabile assemblare autonomamente progetti simili a quelli concepiti da Lieven Martens Moana: attraverso quelle diavolerie digitali che ci portiamo in tasca si potrà (forse) concepire una app capace di registrare, elaborare, ricopiare, colorare e rimuginare un esperienza sonora (visiva? conoscitiva? percettiva?) e restituirla attraverso un logaritmo personale e biologico. liofilizzare e rendere in essenza un pomeriggio piovoso, un viaggio a piedi, il silenzio umido di un bosco o il sudore di una maratona. sto vaneggiando, mi fermo e non credo sia neppure il caso di recarsi all’ufficio brevetti, ma se domani facesse la comparsa un marchingegno del genere non sarebbe male gingillarsi un poco. per ora mi tengo questa idea di musica organica che mi piace pensare, ascoltare e condividere.
buon ascolto