Small Bird With Fast Hearts Vieo Abiungo (William Ryan Fritch) And The World Is Still Yawning B-Sides (Lost Tribe Souns, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )
si potrebbe partire da una condivisibile definizione spuntata sul New York Magazine e, non a caso, messa ad esergo sul sito dell’etichetta Yellowbird: “Roy Nathanson is an extraordinary composer that leads this perky, irreverent group that somehow manages to orbit both the Marx Brothers and Sun Ra.” non male, non c’è che dire!
si potrebbe partire da qui per tentare di raccontare da dove diavolo scappi fuori questa musica; sì, perché la domanda che viene spontanea ascoltando l’ultimo disco del collettivo Sotto Voce di Roy Nathanson è proprio questa: da dove proviene cotanta bellezza?
allora è forse bene partire proprio da quelle due orbite irriverenti (i Fratelli Marx e Sun Ra) e provare ad atterrare da qualche parte su questo pianeta: New York è certo il luogo ideale! è in quell’habitat che si muovono i nostri, con l’understatement necessario e l’irriverenza indispensabile per non rischiare di prendersi troppo sul serio.
e la musica? beh, quella si focalizza sulla forma canzone, almeno per questo Complicated Day (Yellowbird/Enja, 2014), esplorando il grande canzoniere americano e concedendosi otto originali corredati da due cover (una di Johnny Cash e l’altra Isaac Hayes: per non perdere un filo di incoerenza). i cantanti si alternano dietro al microfono e fanno un poco a turno come nelle democrazie più evolute: Roy Nathanson (sax alto e soprano), Curtis Fowlkes (trombone), Tim Kiah (basso), Sam Bardfeld (violino), Napoleon Maddox (beatbox umano), Jerome Harris (chitarra) e il figlioccio Gabriel Nathanson (tromba). tutti a cantarne almeno un paio a testa, a rifarsi i cori a vicenda, lasciando al poeta Gerald Stern la narrazione di The Nettle Tree.
è di certo il jazz a costituire l’ossatura di questo disco, lo stesso che abbiamo già ascoltato dai Jazz Passengers (di cui questi Sotto Voce costituiscono la costola divertita) ma con in aggiunta un gigioneggiare sornione di leggerissima fattura: non a discapito della perizia tecnica e delle favolose soluzioni ritmico-armoniche (il vaudeville rumoristico di Napoleon Maddox garantisce vibranti andature swinganti) e neppure a danno della fischiettabilità (neologizzo, mi sia concesso il neologismo) di questi brani.
stile, divertimento, ironia, understatement, swing, funk, groove latino e improvvisazione collettiva: il tutto di notte, a New York e proprio in questo 2014: più o meno a metà strada fra Jerry Lewis e Ornette Coleman.
imperdibile davvero
Luigi Ronda è entrato educatamente nella mia vita passando dalle pagine di questo blog, attraverso preziose mail e scambi di musiche per poi, finalmente, trovarsi e riconoscersi dietro una stretta di mano e diversi sugheri di bottiglia saltati per innaffiare le parole: e adesso mica ci si lascia più! anzi adesso inizia quello scambio necessario di bellezze che fa luccicare e impreziosisce un’amicizia: anche Luigi Ronda ha un blog ma non è la musica l’argomento principale del suo scrivere, o in un certo senso lo è, ma si capisce dopo. insomma auguro a chiunque di incontrare un Luigi Ronda se proprio non avrete la fortuna di trovare quello originale.
e lui che da almeno tre giorni continua ad insistere sul fatto di aver scoperto il disco più bello di sempre (parole sue), l’illuminazione sulla via di Kinshasa, la folgorazione dovuta al contagio della grande musica africana (glielo avevo detto io). e quindi, contravvenendo alle mie regole di libertà editoriale, ho promesso che l’avrei ascoltato e ne avrei scritto in ogni caso, positivo o negativo che fosse.
il disco in questione si chiama Coup Fatal e, malgrado io volessi rimanere completamente all’oscuro di tutto fino al primo ascolto, sono venuto a sapere involontariamente che verte attorno ad un incontro fra arie barocche, musica congolese, balletto e teatro. insomma abbastanza da poter sospettare un pasticcio!
Coup Fatal è innanzitutto uno spettacolo/concerto teatrale di Alan Platel, col marchio della sua compagnia dei Ballets C de la B, ma non è il balletto il fulcro di questa produzione. piuttosto la musica e la scoperta da parte Fabrizio Cassol (collaboratore di Platel) di un controtenore autodidatta congolese che giunto al conservatorio belga si dedica allo studio della vocalità nel concerto barocco: Serge Kakudji, questo il suo nome, si applica ed apprende ma quando ritorna a Kinshasa per spiegare agli amici che tipo di musica sta studiando si rende conto della voragine culturale che separa la sua passione dalla grande tradizione musicale del suo paese. e a questo punto che giunge il chitarrista Rodriguez Vengama e Les Salopards (13 musicisti armati di chitarre, likembe, balafon e percussioni) a fare da collante ad un progetto che aveva già avuto un primo tentativo nello spettacolo Pitié (2009) dove si abbozzava questa fusione inverosimile (nello spazio e nel tempo) fra barocco e tradizione congolese.
Coup Fatal (Outhere, 2014) è il titolo dell’opera e del disco e deve questo nome alla fatalità dei proiettili che purtroppo infestano le tante guerre del continente: la scenografia dello spettacolo è curata da Freddy Tsinda che ha decorato il palcoscenico con tendaggi formati da bossoli di proiettile esplosi. scenografia scarna dove 13 musicisti circondano il proscenio in una classica ambientazione afropolitana, illuminazione notturna e con abiti da sapeurs. e poi giunge la figura di Serge Kakudji che canta brani che fondono Haendel, Gluck, Monteverdi e Vivaldi con le sonorità della rumba e dei nuovi ritmi elettrificati congolesi. ed è una vera sorpresa!
il disco è una delizia inimmaginabile perché il ponte che lancia unisce due sponde inverosimili: non una crasi, non un pasticcio e neppure una fusione, impossibile la contiguità degli stili e qualsivoglia terreno comune. siamo in un luogo inesistente, un’ipotesi irrealizzata di un incontro incongruo dove, di volta in volta, non sarà difficile riconoscere qualcosa di conosciuto ma trasfigurato da un’idea primigenia che riconduce tutto in un altrove inatteso. eppure la freschezza e la gioia che sprigionano queste 11 composizioni ridona grazia e gusto, quella semplicità primordiale della musica africana unita all’umanesimo intriso di animo rinascimentale che rendeva il concerto barocco una musica dello spirito.
consiglio (come sempre) ripetuti ascolti, il superamento dello straniamento da perdita di orientamento culturale e l’abbandono di ogni pregiudizio di sorta. lo spettacolo è ancora in tour e purtroppo è appena transitato dall’Italia (Life is what happens to you while you’re busy making other plans! stigmatizzava John Lennon) e pure andato in onda su Rai5.
ma il disco è qui e credo si debba ringraziare Luigi Ronda per l’entusiasmo: e se non vi capiterà di incontrarlo di persona presenterò io di persona la vostra gratitudine.
buon ascolto
ci sono ancora aggettivi inutilizzati per descrivere la musica di Rob Mazurek? e soprattutto, ne servono davvero? forse no e forse neppure importa! ma importa restare elettrizzati da questa urgenza che Mazurek continua a sferzare, da questo fibrillante bisogno di urticare la contemporaneità, sobillandola, provocandola e cercandone vertigini e fragilità. il ritmo delle uscite discografiche del cornettista è febbrile, quasi malsano, urgente appunto. è il ritmo che lui stesso ha deciso per scandagliare questa modernità musicale di cui lui è allo stesso tempo figliol prodigo e pioniere. un ritmo forsennato.
ma poi accade che quella gran bagascia della vita disarcioni di sella improvvisamente, scarti di lato e ferisca frenando bruscamente la corsa. in soli undici giorni Rob Mazurek vede ammalarsi e scomparire la sua amata madre: ecco dunque il dolore bianco, quello che ottunde e annichilisce.
l’inerzia e lo slancio dolente lo catapultano in uno studio di registrazione due settimane dopo l’evento luttuoso. São Paulo. attorniato dai sodali musicisti che lo hanno accompagnato negli ultimi anni da vita ad un rito privato di celebrazione, una funzione pagana, un rito spurio: Return the Tides: Ascension Suite and Holy Ghost (Cuneiform Records, 2014). Rob Mazurek and Black Cube SP è l’evocazione della confraternita salmodiante: fra loro Mauricio Takara, Guilherme Granado, Thomas Rohrer, Rogerio Martins e Rodrigo Brandão. una lunga seduta estemporanea ed evocativa, un flusso che sin dal titolo evoca due anime spirituali che continuano a benedire queste musiche. il tutto pensando a Kathleen Palma Barbara Curach Mazurek.
Mazurek che annota una poesia e racconta del suo stordimento (si possono leggere qui), di un disordine che nella suo alfabeto trova la necessità lenitrice di una composizione in 4 lunghi brani che si susseguono senza soluzione di finitezza; dalla dolcezza di Oh Mother (Angel’s Wings) al sabba batucado di Return the Tides, poi la trasfigurazione elettrico-lisergica di Let the Rain Fall Upwards fino alla quiete riconoscente di Reverse the Lightning con una coda spirituale evocata da un coro degno del Bardo Thodol.
aggettivi non ve ne sono e come si diceva non necessitano, non per questa musica che pare ostile e che invece ha una visionarietà che guarda oltre ogni qualsivoglia difficoltà. di certo siamo di fronte al Mazurek più carnale, umano e mortale che ci sia capitato di ascoltare. nessuna delle sue amate cosmologie, nessun universo sonico o planetario: l’uomo Mazurek che onora sua madre e ci lascia ascoltare la sua preghiera.
buon ascolto
There’s A Light That Enters Houses… (excerpt)
David Sylvian There’s A Light That Enters Houses With No Other House In Sight(Samadhisound, 2014) more details ( ( ( ↓ ) ) )