Clogs The Creatures in the Garden of Lady Walton

per molte vie e per diverse circostanze si procede nell’errabonda attività di nutrirsi di musica; mi capita spesso di ragionarci sopra, per diletto o per segreta ambizione di comprendere logiche e discrimini che guidano gusti e scelte. materia selvatica e cisposa che si inspessisce vieppù che ci si inoltra alla ricerca di affidabili argomenti. di certo, uno dei parametri che più spesso usiamo è quello della similitudine, dell’assonanza riconosciuta e, per questo, gratificante.
la piacevole costruzione di una topografia sonora che ci appartiene diventa il bilancino da tasca con il quale soppesiamo e rimiriamo le novelle novità che giungono ai nostri orecchi. l’attitudine a confermare (o spiazzare) le nostre inclinazioni e il rinvenimento di appigli o capisaldi al quale aggrapparsi per procedere oltre sono attività (oramai) inconsce alle quali affidiamo la letizia (o la delusione) che ci procura una musica inattesa e inaudita.

l’ultimo disco dei Clogs entra nella sfera dei miei ascolti per diverse attinenze e per conclamate ascendenze pregresse. The Creatures in the Garden of Lady Walton (Brassland, 2010) nasce dalla contempozione botanica dei Giardini La Mortella di Ischia, voluti curati e conservati da Lady Susanna Walton (da poco scomparsa) già vedova del musicista Sir William Walton. l’incontro fra Padma Newsome e le meraviglie botaniche avvenne nel 2006 in uno di quei gran tour che spesso affascinarono e suggestionarono artisti di altre epoche. nacque lì il progetto di comporre questi acquerelli sonori per ritrarre le immaginarie creature che abitano la verzura del giardino mediterraneo.
i Clogs hanno voluto al loro fianco colleghi ed amici: Shara Worden (My Brightest Diamond), Sufjan Stevens, Aaron Dessner e Matt Berninger (National) e la valente collaborazione dell’Osso String Quartet. ne è nato un album per dieci quadri da camera, clorifilliaco e aereo, placato e posato come la quiete della contemplazione vegetale. canzoni e partiture acustiche si alternano a voci e coralità di un tempo sospeso; si procede con passo lento e malinconico nella passeggiata meditabonda fra sonorità antiche e ancestralità remote. questo lavoro fu preceduto a gennaio da un ep dal titolo Veil Waltz che ne anticipava ambientazioni e traiettorie.

ritorno alla premessa: ho cercato (e meditato) di racchiudere l’emozione di questo ascolto perimetrando e riconoscendo precedenti evocazioni che hanno spalancato a questo lavoro dei Clogs le porte accessibili del mio stupore. dagli amati Penguin Café Orchestra di Simon Jeffes sono giunto per sentieri traversi alle antiche suggestioni dei Dead Can Dance che hanno aperto la visuale sulla contemplazione di The Draughtsman’s Contract (I Misteri del Giardino di Compton House), nell’accezione visuale del regista Peter Greenaway e ancor più nella puntuale colonna sonora di Michael Nyman che prese spunto dagli ostinati settecenteschi di Henry Purcell. a tutto questo si aggiunga la naturale attitudine bucolica di molta musica folk che, senza scomodare i santi, tesse un lungo percorso che potrebbe andare, più o meno, da Nick Drake all’altettanto amata Baby Dee. nel bel mezzo di questo giardino così determinato da miei confini conosciuti e dalle mie traiettorie passate non è difficile riconoscere queste creature del giardino di Lady Walton e addentrarsi serenamente verso ulteriori camminamenti.

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Masayoshi Fujita & Jan Jelinek Bird, Lake, Objects

dissi di una mia sudditanza autistico/acustica per il clarinetto e per l’universo generato dal suo suono; e se solo dovessi tentare di stilare un ipotetico podio ciò che so, è che al secondo gradino stazionerebbe il vibrafono (assieme alla cugina marimba e più in generale tutti gli idiofoni). timbro notturno e e subacqueo, attutito e profondo: frequenze balsamiche e lenitive. in quei rari casi in cui ho potuto incontrare contemporaneamente le due manifestazioni sonore (clarinetto e vibrafono) sono stato rapito dal deliquio e caduto in felice disgrazia estatica.
è per questo che da tempo seguo Masayoshi Fujita e il suo vibrafono mentre cercano di traghettare la storia e il suono di questo strumento verso nuovi approdi e rinnovate frontiere. le precedenti prove solitarie con il nome d’arte El Fog rappresentano due considerevoli passi iniziali verso una ricerca in fase di sviluppo. Reverberate Slowly (Moteer, 2007) e Rebuilding Vibes (Flau, 2009) sono per certi versi assimilabili nella medesima ricerca di equilibrio fra acustico ed elettronico; minimali e solo apparentemente algidi nascondono brandelli di groove essicati e resi statici in un jazz minimale da camera. una parte di glitch, qualche riverbero, polvere di field recordings, handclapping e un vibrafono suonato linearmente, più sulla timbrica che sul virtuosismo.

Masayoshi Fujita ha deciso da tempo di eleggere Berlino sua dimora e crogiuolo per le sue sperimentazioni e le sue collaborazioni: è qui che è avvenuto l’incontro con Jan Jelinek e con l’universo elettronico che si porta appresso. il frutto del loro lavoro ha visto la luce per l’etichetta personale di Jelinek, la Faitiche e si pregia, per adornare il packaging, dei disegni originali dello stesso artista giapponese (in vendita sul sito).

Bird, Lake, Objects porta già nel titolo la natura frammentaria e minimale dell’intero lavoro. la collaborazione fra i due è all’insegna di un less is more voluto e trovato: le manipolazioni elettroniche di Jelinek conducono i lacerti sonori di Masayoshi Fujita verso uno spazio onirico e notturno, rarefatto. debbo sinceramente ammettere che non tutto, o non completamente, il risultato è consono alle mie egoistiche inclinazioni. dei 6 lunghi componimenti, che immagino i due si siano spartiti democraticamente, ne preferisco tre in particolare e, desumo da percezioni indotte, quelli dove il vibrafonista ha tenuto il timone dritto verso i suoi mari notturni. Workshop for modernity, I’ll change your life e Waltz (a lonely crowd) sono derive liete, reiterazioni e immobilità degne della miglior estasi. la grana densa e leggiadra dei timbri conduce all’intimo meditabondo e arreso.
alcune colonne sonore di sogni che ancora debbo sognare vorrei avessero questo andamento: condizione necessaria e sufficiente per rituffarmi fiducioso nell’ennesimo ascolto.

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Cibelle Las Vênus Resort Palace Hotel

So may I introduce to you (…)
We’re Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band,
We hope you will enjoy the show,
We’re Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band,
Sit back and let the evening go.

eccola: la divina è di ritorno. l’attesa stava diventando snervante. eccola mutare e inventarsi l’ennesima piroetta che la trasforma in Sonja Khalecallon in compagnia della sua band Los Stroboscopious Luminous. sono di scena al Las Vênus Resort Palace Hotel, l’ultimo cabaret esistente sull’asteroide che si allontana dalla fine del mondo che è esploso. Cibelle non delude e rilancia, come le regine che si rifanno il trucco mentre l’universo implode. estrae dal cilindro stroboscopico della sua creatività un concept album dalle maglie larghe e dalle vedute aperte: un contenitore di canzoni per fare il punto su di una carriera giunta al crocevia fra freak attitude e mainstream. sono racconti e suggestioni di un mondo sintetico da (post) post-exotica: elettronica, glam e ukulele mescolati a vino di palma, James Bond e Edith Piaf. è lei stessa a guidarci fuori dalla giungla verso il sipario del nightclub.

[vimeo=http://vimeo.com/9227367]

la lezione antropofaga dei prozìi tropicalisti è digerita: i baronetti di Liverpool di cui si voleva fare un sol boccone possono ora riposare tranquilli, hanno una degna erede capace di fare uno di quei dischi che pochi, dopo di loro, sono stati in grado di concepire. mi riferisco all’attitudine piuttosto che al mero risultato: a quel sapersi destreggiare e pavoneggiarsi in quel pastiche fra pop di consumo, visionarietà e genio melodico che non dimentica l’essenza delle canzoni e la loro semplice natura.

Las Vênus Resort Palace Hotel esce per la belga Crammed. registrato fra Vancouver, Londra, Berlino e São Paolo con la collaborazione di svariati personaggi e con quell’afflato internazionalista e globale che permette a Cibelle di interpretare le canzoni in diverse lingue e cangianti contesti. nove brani originali e tre covers che disegnano le coordinate della dimensione exotico kitsch tropicalista della regina paulista: It’s Not Easy Being Green rubata a Kermit direttamente dai Muppet, Underneath the Mango Tree che Ursula Andress sussurrava uscendo dall’onda di fronte ad un basito 007 e una gemma rubata al precusore elettronico Raymond Scott, compositore di colonne sonore per film e TV series nei ’50 sintetici americani: Lightworks.

[vimeo=http://vimeo.com/9205696]

l’effetto straniante è riuscito, la dimensione onirica raggiunta. le attrattive dello spettacolo reggono se stesse e l’intero lavoro, il cabaret ringrazia i gentili presenti e li invita a tornare presto fra synth miagolanti e cinguettìi siderali. Cibelle e tornata e mi sento in dovere di ringraziarla per non aver perduto quella talentuosa attitudine a stupire e inventare restando saldamente all’essenzialità che dovrebbe vestire una canzone.
e del resto i Beatles avevano già previsto tutto… Cibelle, ma belle!

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Matthew Herbert One One

fino all’altro ieri Matthew Herbert ha rappresentato uno di quei vicini di casa di cui si ricordano a malapena volto e abitudini ma che non si può certo dire di conoscere. voci di vicinato e chiacchere da ballatoio carpite involontariamente mi raccontavano, mio malgrado, delle sue frequentazioni, diverse dalle mie, ma rispettabilissime e apprezzate dal quartiere. produttore, dj, remixer e piccolo elfo alchimista di suoni che hanno abitato gli ultimi quindici anni di dischi sentiti, conosciuti ma non certo approfonditi. in più, eteronimi e moniker complicavano vicende e genealogie, ed io – è bene ammetterlo – mi sono leggermente disinteressato del vicino educato accrescendo la reciproca indifferenza.
poi mi giunge notizia di una sua trilogia in procinto di pubblicazione su etichetta Accidental, e i particolari del progetto mi hanno incuriosito. One è il titolo attorno al quale verterà tutta la questione: del primo episodio One One ne disquisirò più sotto, il secondo One Club (in uscita a giugno) consisterà nell’assemblaggio di suoni ambientali carpiti in una notte presso il club Robert Johnson di Francoforte, mentre l’ultimo, dal titolo One Pig (uscirà a settembre) prevede un excursus di field recordings registrati attorno alla vita di suino in una fattoria del Kent (e a quanto pare è tutto vero).

dunque One One è l’esaltazione dell’individualità del nostro eroe che prende in mano la questione e combina tutto da sé. suona, assembla, produce ma soprattutto canta spiazzando fans e calpestatori di dancefloor. questa è la sorpresa: il vagito primordiale inatteso che trasforma la consueta materia (dance? techno? synth?) in quel qualcosa d’altro cui sarà bene comprenderne la portata. in una recensione assai più consapevole della mia Marco Bercella ha definito queste 10 creature digital ballad metropolitane, e debbo dire che potrei pure sottoscrivere la sua opinione, ma avverto altro e annuso sentori di nuovo.

si provi ad immaginare una dance liofilizzata e scheletrizzata nella sua essenza a cui vengono rallentate e dilatate le sinuosità e reso languido il groove. a questa vi si aggiunga una voce oziosa e pigra che sussurra con fare di Canterbury vicende umane di quartiere, intime e discretamente urbane. si pensi il tutto concepito con la maestria dei bravi artigiani e con la misura che hanno le cose leggere ed ecco servito uno dei dischi più spiazzanti di questo tempo.
i brani portano nomi di cittadine e metropoli che forse disegnano una mappa di un suono oramai globale, di un qualsiasi club in una qualsiasi notte stracca di qualsivoglia città; ma posso assicurare che si confanno pure all’uopo intimo e privato, dentro una vettura guidata nell’oscurità o nelle beneamate camerette.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=mjunK37tOG4]

furbescamente il singolo di lancio Leipzig è quello che più ammicca alla dance o alle radio fm del pianeta, ma posso rassicurare gli scettici che il disco conduce in tutt’altre direzioni. mi sbilancerei nell’affermare che siamo di fronte ad una piccola pietruzza miliare di questi anni che dovremo definire ’10, qualcosa che inevitabilmente si porrà a paragone od esempio. di certo varrà la pena di seguire gli altri due passaggi della trilogia, non foss’altro che per le premesse attorno ai suoni suini o alle intercettazioni ambientali dei branchi umani. è anche per questo che la vicenda prosegue nei commenti e più oltre su questo blog.

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Lloyd Cole Small Ensemble

Stop me if you think you’ve heard this one before
(S.P. Morrissey)

il contenuto di questo post, per gli argomenti trattati e per i ricordi scomodati, è riservato ad un pubblico adulto! niente di proibito o scabroso, sia ben chiaro; è solamente che non so in quanti si ricordino di Lloyd Cole, e soprattutto, nel caso fosse, sono assolutamente certo che si tratterebbe di adulti cresciuti e vaccinati. direi più o meno coloro che hanno appaltato un tempo della loro adolescenza a sopravvivere nel bel mezzo di quegli anni ’80, che io continuo a definire terribili, senza per questo volerli paragonare ai precedenti o ai successivi.
il fatto è minimo e apparentemente insignificante. girovagando in rete mi imbatto in un evento ordinario e innocuo: esce un disco, uno dei tanti fra i tanti, ma sulla copertina c’è scritto un nome che mette immediatamente in subbuglio la mia memoria vegetativa: Lloyd Cole. non è che me lo fossi dimenticato, semplicemente lo pensavo relegato a quel tempo e a quei luoghi, invischiato in qualche maniera in quello stato di inappropriatezza che segnava il suo songwriting e i sentimenti di coloro che lo ascoltavano (alzo la mano). commozione e confusione, la stessa che dava il nome al gruppo che completava la ragione sociale del nostro: Lloyd Cole & The Commotions.
possedevo quei primi due vinili (Rattlesnakes e Easy Pieces) che ne segnarano il folgorante debutto. piccole isole sensibili nel bel mezzo di suoni che andavano sintetizzandosi e imbruttendo. un folk pop intimista che dall’Inghilterra guardava all’altra sponda atlantica, colonna sonora da cameretta, carte da parati inglesi e maliconia a volontà. pareva quanto di meglio offrisse il mercato (allora magro e striminzito) per blandire il malessere giovanile e le languide intemperanze che segnavano un’età e un’epoca. perderlo di vista nel bel mezzo dello sviluppo della mia educazione sentimentale e della sua mediocre carriera furono un tutt’uno.

ritrovarmelo di fronte oggi, cresciutello, imbiancato e imbolsito mette quasi a disagio. segno inequivocabile del (nostro reciproco) tempo passato. scopro con stupore che la sua carriera discografica è proseguita in barba alla mia indifferenza e al successo bramato fino a giungere a questo piccolo disco in presa diretta che tenta astutamente di rinverdire vecchi fasti rivestendoli d’acustica e di corde pizzicate.

tutte le notizie necessarie per saperne di più sono ben impresse nella copertina del disco. per chi volesse (davvero?) approfondire rivelerò l’esistenza di un blog alquanto ufficiale che racconta le vicende di questa session. scopro l’esistenza di fans che, al contrario mio, non l’hanno abbandonato e evidentemente ne sostengono il proseguimento. 12 ballate che hanno perso quell’elettricità urgente e nervosa degli ’80 accompagnate da una voce che fatico a riconoscere. è scomparso quel singulto ormonale da crooner in urgenza riproduttiva, quell’atteggiarsi necessario di quegli anni; resta una voce esperta alla canzone e artigianalmente ineccepibile.
ma l’effetto palese resta quello dell’inappropriatezza, lo ripeto. lo era la sua musica sin troppo onesta in un frangente che chiedeva plastica e finti dandies addolorati, troppo in ritardo sui folksinger che lo ispirarono e assai in anticipo sul quel new acoustic movement ancora di là da venire.
inopportuni e costretti a costruirsi un proprio percorso lo eravamo per certo e chissà che un poco non ci abbia aiutato l’amabile songwritng perdente di Lloyd Cole. la madeleine di quest’oggi è amara, il ricordo sbiadito e l’incedere del tempo inesorabile. il pubblico adulto di cui sopra potrà (eventualmente) godere dell’esperienza retroattiva, gli altri, ignari di quei suoni appiccicati a quei tempi, sinceramente non saprei cosa ci potrebbero trovare. il disco è qui sotto e io, immantinente e leggermente affranto, provo a passare già oltre.

Lloyd Cole Small Ensemble

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Shawn David McMillen Dead Friends

pretendo di continuare ad attendere l’ennesima epifania musicale nel domani prossimo; la curiosità mi sostiene e l’insensata fiducia in ciò che ancora dev’essere pensato e suonato mi spronano. posseggo, come chiunque, l’imprinting musicale di chi ha compreso che nella musica avrebbe trovato la propria cura, la medicina e la catarsi. ma da quel battesimo adolescenziale (se non infantile) è bene partire e non certo ristagnare; conosco (ahimè!) troppi che hanno piantato le tende nel bel mezzo di un preciso istante della storia della musica e a quello fanno continuo riferimento rifuggendo qualsiasi deviazione o progresso.
il domani prossimo odierno proviene ancora (come Giuseppi Logan) dall’americana Tompkins Square, ed è uno di quegli incontri che il viandante curioso brama silenziosamente. a questo, credo, deve servire quell’imprinting di cui sopra: a setacciare ed annusare il futuro della musica nella speranza di riconoscere una pista o un sentiero su cui poter far procedere avanti la propria gratificazione uditiva (e sensoriale tutta) e la nostra privata anamnesi sonora.

Shawn David McMillen dev’essere uno di quei personaggi schivi e restìi alle luci della ribalta. in questi tempi, che dicono globali, rifuggire la seppur minima apparizione sul net denota volontà di affrancamento dai consueti canali di promozione e diffusione. di lui si conosce la provenienza texana (Austin per l’esattezza) e le sfuggenti apparizioni indipendenti nella scena psych di quella zona. il suo precedente Catfish restò per molto tempo in una personale lista di desiderata che però si sfilacciò e lo fece rotolare fra i tanti detriti del mio tempo.
Dead Friends (Tompkins Square, 2010) è finalmente l’incontro fatale e necessario, di quelli che ti fanno dire che il domani prossimo atteso è finalmente qui. lavoro oscuro e sghembo a cominciare dalle tinte e dal titolo amaro e dolente. piuttosto che sciorinare una noiosa lista di influenze o sembianze preferisco parlare di avant blues pensato in modo psicotico, realizzato con un lo-fi consapevole e proiettato su di una pellicola polverosa in bilico fra il meriggio afoso e la notte oscura.
perlopiù approcci strumentali che rimandano a celebri soundtracks, qualche coro bislacco e brandelli di parole masticate e sputate. corde di chitarre, slide, armoniche e pianoforti honk tonk, un lamellofono provvisorio e ipnotiche spire che inghiottono. il manto cupo e sinistro che avvolge il disco è venato di divagazioni psych che lasciano intravedere luci e visioni: non tutto è oscuro e perduto. il delirio psicotropo di Beladona Along The Brazos è assai eloquente e rimanda a perigrinazioni fluviali a bordo di battelli che si dicevano ebbri.
ripeto: ho accuratamente evitato suggestioni riconosciute o evidenti sembianze per lasciare emergere il suono di Shawn David McMillen; ciascuno poi tragga le dovute considerazioni e le riconduca a quell’imprinting privato di cui sopra. del resto ognuno discende dai primati e assurge alla catarsi, musicalmente parlando. il tragitto di McMillen è di quelli torbidi e sensualmente tortuosi ma vale la pena di percorrere alcuni passi assieme a lui. il sentiero prosegue nei commenti.

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André Mehmari & Gabriele Mirabassi Miramari

ho accresciuto nel corso del mio tempo una forma di sudditanza inconscia per il misterioso suono del clarinetto; un riflesso condizionato, un incantamento da serpente nella cesta, un balsamo per nervi e tempie. mi quieta e mi trasporta altrove, e in fondo, alla musica, non credo di chiedere altro.
e se esiste un clarinetto capace di sobbarcarsi tutti questi poteri mesmerici è di certo quello di Gabriele Mirabassi che vado seguendo nelle sue peregrinazioni apolidi, com’è in fondo la natura del suo strumento. da qualche tempo Mirabassi fa spesso rotta verso il Brasile dove racconta di aver trovato la quadratura del suo cerchio. lo racconta in una breve intervista sull’utimo numero di Mondomix Italia (scaricabile): “In Brasile ho realizzato un sogno. Ho trovato la realizzazione della mia utopia. L’utopia è stata quella di riuscire a trovare un luogo dove si potessero combinare il groove, lo swing, l’improvvisazione e la la melodia con l’approccio cameristico. Questo in Brasile si pratica da sempre ed è normale.
galeotto dell’incontro fra Mirabassi e il giovane (talentuoso) pianista André Mehamari è stato il comune amico (e mentore) Guinga. alcune frequentazioni e scambi di vedute e i due hanno capito che sarebbe potuto nascere un progetto comune; scorribande notturne sulle rive del mare umbro e passeggiate urbane hanno generato titoli e melodie.

Miramari (felice acronimo) vede la luce, autoprodotto, nel 2009. in Brasile per la Estúdio Monteverdi mentre in Italia per la lodevole Egea. 17 brani suddivisi equamente fra i due con l’inserimento di alcune riletture (Guinga, Mauro Aguiar, Simone Guimares) a far da bussola all’orientamento del viaggio.
musica da camera, musica da camera in piena luce e frusciata dai venti di finestre aperte sul mare. colpisce l’equilibrio naturale fra l’inclinazione colta e l’estrazione popolare della tradizione, il senso della misura cercato e voluto. fra choro, valsa e tanta libertà figlia di una tecnica evoluta ed adulta nascono meditazioni intime da annusarsi nella piena olfazione della salsedine.

risulta quasi di troppo l’inserimento, in pochi brani, di una sezione ritmica (Ricardo Mosca alla batteria e Zé Alexandre Carvalho al basso) che riporta l’ensemble a sonorità latin jazz che male si sposano con l’afflato intimo e cameristico del resto del disco.
ma quando i due soli trovano la via reciproca verso la melodia sfuggente il disco riempie le stanze in un pomeriggio di pieno sole. mi scappano dalle dita parole come libertà e lieta malinconia e mi vergogno ancor prima a pensarle che a scriverle: ma da quelle parti si ciondola nel belvedere di questo ponte fra mari reciproci. e tutto è così leggero che ogni mia parola non potrebbe che gravare inutile e superflua.

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André Mehmari & Gabriele Mirabassi Miramari

Pubblicato in 2009, zzaj | Lascia un commento

Giuseppi Logan The Giuseppi Logan Quintet

mi accodo e mi aggiungo alla lista dei fedeli fans dell’etichetta americana Tompkins Square, in buona compagnia di Fabio che non smette di tesserne sperticate lodi (e ne ha ben donde); lo faccio perché ai responsabili di questa label è dovuto il ritorno sulla ribalta pubblica di un personaggio al quale un paio di anni fa dedicai un post ramingo e solitario.
di Giuseppi Logan si sarebbero potute perdere le tracce, ma è sin troppo evidente che in molti stavano inseguendo le ignote vicende dell’artefice di quel paio di dischi (per la gloriosa ESP Disk) che segnarano gli anni ’60 e la scena jazz newyorkese. il quartetto che l’11 novembre del 1964 registrò The Giuseppi Logan Quartet è di quelli da brividi alle meningi e il disco ne è la più logica conseguenza.
normale dunque chiedersi che fine avesse fatto il visionario compositore di Dance of Satan, e ancor più logico sentirsi ripetere dalla stessa voce del nostro protagonista di non aver suonato per lunghi anni, dal 1979 al 2003, e di essersi arrangiato alla meno peggio nel ventre ignoto della metropoli che accoglie e protegge i suoi respinti. questo tempo ha segnato Logan tanto che quando è riapparso per merito di chissà chi, in molti hanno stentato a riconoscerlo.
col senno di poi si può ricondurre al sassofonista afroamericano quella buffa figura sdentata, in lunga barba bianca, che gigioneggiava a stento con i suoi strumenti proprio nel parchetto di Tompkins Square (piacevole coincidenza) chiedendo qualche spicciolo, molta comprensione e inevitabili sorrisi.

Matt Lavelle dice di averlo incontrato in un negozio di dischi e di aver immediatamente riconosciuto il suo idolo. incaricarsi della missione di prendersi cura di lui e di riportarlo in uno studio di registrazione è stata la promessa successiva. così, dopo molti portoni bussati a vuoto, finalmente l’etichetta Tompkins (deviando un poco dalla consuete scelte artisctiche) acconsente ad assoldare un quintetto e a far ritornare Giuseppi Logan sulla ribalta condivisa.

The Giuseppi Logan Quintet (Tompkins Square, 2010) vede Dave Burrell al piano, Warren Smith alla batteria, Françoise Grillet al basso e natualmente Matt Lavelle alla tromba e clarinetto. qualche standard, qualche pezzo originale, Logan che addirittura canta e molta necessaria comprensione. sì, perchè quei molti detrattori che già negli anni ’60 accusarono Logan di scarsa perizia tecnica e di incerta intonazione possono oggi prendersi una strana e inutile rivincita.
del resto rimanere lontano dallo strumento per 25 anni non poteva certo migliorare la situazione. il disco lo definirei freaky: qualcosa di assolutamente impubblicabile se non fosse che in copertina appare un nome sul quale in molti avrebbero voluto scommetere (o sperare, o sognare).
il tutto assume i tratti del ridicolo (e fa annusare business opportunista) se si getta un’occhiata al modello che sfila nella collezione di una boutique newyorkese di tendenza (si può scrivere?): Assembly New York. è uno di quei negozietti che vende accessories (perdonatemi) alla modica cirfa di 400$ e che ha incaricato il fotografo di turno per ritrarre la nuova collezione indossata dal modello Giuseppi Logan.
ma nonostante tutto questo voglio bene a Giuseppi Logan, un omino buffo quanto il nome che porta e che forse è rimasto stritolato negli ingranaggi di un mondo sin troppo triste, per lui e anche per chi scrive. resta quel disco del 1964 a decretarne il valore e questo di 45 anni dopo a sancirne (forse) il meritato riposo; nei commenti i due termini di questa parabola e a chi vuole il diritto di giudicare.

Pubblicato in 2010, zzaj | 6 commenti

Originals: The Revolution Will Not Be Televised A Film about Gil Scott-Heron

più o meno un anno fa, sulla copertina della rivista musicale Blow Up, campeggiava il bel volto serafico di Mulatu Astatke e il tutto veniva perentoriamente sottolineato con il titolo Mulatumania, a segnalare il crescente interesse per il ritorno del grande leone d’Etiopia. una ricomparsa tanto gradita quanto inattesa contrassegnata dal rilancio di antiche intuizioni rilette e interpretate in vista di un’attualità in urgenza di futuro. non quindi una mera riapparizione circense in puro stile musical business, come certe reunion di tristissima memoria o alcune becere operazioni di puro introito monetario.
se quest’anno si volesse a tutti i costi cercare una nuova mania per contagiare il panorama musicale adulto io credo che si potrebbe spendere serenamente il nome di Gil Scott-Heron. del disco (straordinario) si è già detto e in molti sono pronti per vederlo riapparire sui palcoscenici americani ed europei: un resurrezione nel vero senso della parola!
ma forse non tutti sanno che e cosa ha rappresentato (e rappresenta) questo segaligno figuro per la musica afroamericana in particolare e, di naturale conseguenza, per tutta l’altra che attorno a questa gravita inevitabile.
in una notte di poche settimane fa ho sentito Antonia Tessitore, dai microfoni di battiti, segnalare l’esistenza in rete di un breve film risalente al 2003 riguardante la parabola (allora in fase decadente) del nostro eroe: ancora prima che mi ricordassi di cercarlo fra le pieghe della rete alice me lo porgeva in men che non si dica. grazie ad entrambe.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=1UFJThh3GZM]

Originals: The Revolution Will Not Be Televised A Film about Gil Scott-Heron è un breve film documentario diretto da Don Letts e prodotto dalla BBC per la serie Originals. si diceva 2003: questo il tempo e l’istante fotografato dal regista, questo il momento in cui il nostro protagonista e una serie di vecchi e nuovi compari raccontano chi e cosa è stato (ed è) e sarà questa imprescindibile figura della controcultura afroamericana del secolo scorso.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=CryVmkn0S6s&feature=related]

youtube, al solito, ci corre in aiuto e porziona in sei comode capsule da 10 minuti l’una l’intero documentario. l’infanzia, la giovinezza e il principio di ogni cosa raccontata da quella voce indimenticabile: i fatti di un’America che avrebbe potuto cambiare tutto e che invece ha visto assassinare uno ad uno i propri angeli custodi nel disegno eversivo più soffice che sia mai stato escogitato.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=ttIE4whXVmg&feature=related]

i testimoni sono di un certo rispetto: Richie Havens, Chuck D dei Public Enemy, il sodale e fondamentale Brian Jackson, Abiodun Oyewole dei Last Poet, Linton Kwesi Johnson fino a raggiungere i pargoli più giovani incarnati da un Mos Def allora alle prime armi.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=CSs3HMu6HIs&feature=related]

mischiare i nomi di Malcom X, MLK e delle Black Panthers di Angela Davis con quelli di Coltrane e Davis non è puro esercizio di sfoggio di conoscenze storiche, ma la complessa narrazione di un tempo vissuto sulla propria pelle, la stessa che per quel colore altro ha caratterizzato lotte e descriminazioni di un popolo intero.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=m3-GC-6LrWU&feature=related]

non credo di dover aggiungere molto altro alla comprensione del senso di tutto questo. 60 minuti necessari a riallacciare i fili di un discorso che avrebbe potevo interrompersi per sua stessa mano e che invece qualche fortunato potrebbe veder riapparire dietro un piano e sotto un capello vintage. 60 minuti da rubare da altre ludiche attività: magari spegnendo la tv (per chi la possiede) stando certi che non è da lì che transiterà la rivoluzione. qui una delle ultime interviste in cui il nostro pugile ha accusato parecchi colpi ma è ancora orgogliosamente in piedi.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=wvZaal80-CY&feature=related]

i vari sold out europei non mi hanno ancora arreso proprio mentre le prime (fantasmatiche) date italiane cominciano ad affiorare.
stay tuned: to be continued…

Pubblicato in 2010, Kino | Lascia un commento

Bill Callahan Rough Travel For A Rare Thing

non mi dilungherò molto. primo perché vado di fretta e secondo perché poco è ciò che ho da dire.
un pensiero si è palesato fortemente mentre ascoltavo questo disco: sono assai lieto di vivere lo stesso tempo di Bill Callahan, felice di seguirlo e vederlo crescere e mutare; cambiare ragione sociale e voce, stile e approccio. credo sia una questione generazionale (per quanto non ami questo termine): qualcuno lo ha potuto fare con Dylan o con Cohen, e in qualche modo anche noi giunti dopo, e altri avranno ciò che meritano. questo tempo è il tempo dei Bill Callahan e dei Bonnie ‘Prince’ Billy (per il quale non trovo più aggettivi per descrivere l’ulteriore meraviglia).
spesso mi rammarico e mi scervello pensando a cosa avrebbe scritto Fabrizio De André proseguendo la sua carriera. mi arrendo a non saperlo e ne sono lieto, ma avrei seguito indefessamente la sua traiettoria e la sua voce che si complicava di profondità. è anche per questo che mi tengo stretti questi artisti che mi si sono appiccicati addosso e li seguirò felice di condividerne il tempo.

Rough Travel For A Rare Thing (Drag City, 2010) è il primo live ufficiale per Bill Callahan fotografato nella mutazione in corso fra l’entità Smog è la nuova denominazione anagrafica. era il 2007 ed era il tempo che intercorreva fra A River Ain’t Too Much to Love e Woke on a Whaleheart: da quei due dischi, con l’aggiunta di alcuni ‘classici’ provengono le canzoni. fotografia chiara e limpida della maturità artistica e della capacità conscia di scrivere ed interpretare le proprie canzoni (io lo chiamo adult songwriting). quel live, per asciuttezza ed equilibrio è quello che avrei voluto vedere una sera di qualche tempo addietro ma che si manifestò in altre forme e dimensioni. ne scrissi qui.
ed oggi sono sorpreso di poterlo inaspettatamente ascoltare così come avrei voluto. qui mi fermo, come promesso. nei commenti il disco.

Pubblicato in 2010 | Lascia un commento