Cinejardin Piccola imbastitura di cinema in giardino

per una volta è piacevole uscire fuori dai monitor di questi nostri computatori personali e ricontestualizzare la possibilità di un incontro fuori dall’impersonale di rapporti misurati in byte e click. l’appuntamento è di quelli concreti, reali, localizzabili. è l’occasione di sollazzarsi alla frescura crepuscolare di un cortile romagnolo estivo e lì godere della visione di quattro film che si spalmeranno, uno per volta, allo scoccare del giorno 9 di ogni mese estivo a partire da giugno.
9 giugno, 9 luglio, 9 agosto, 9 settembre.
alice, oltre ad aprire il portone di casa sua, ha personalmente scelto i 4 film in proiezione e vi rimando a più sotto (ho copiato ed incollato) per tutte le motivazioni sottese. a me non resta che aggiungere alcuni ragguagli utili: l’incasso del botteghino non ci sarà perché la gratuità delle serate è la condizione necessaria, 7 metri quadri di schermo bianco professionale possono garantire la visione anche a chi siederà in fondo sotto al caco (che non ha ancora i frutti maturi), l’indirizzo facebook dell’iniziativa e quello dell’Associazione Culturale Favela Chic per la quale le proiezioni rappresentano una branchia delocalizzata della programmazione estiva.
prima di estendere l’invito a tutta la cittadinanza attiva di questo blog non mi resta che rammentare l’indirizzo delle proiezioni che è Corso Garibaldi, 45 ad Alfonsine (Ravenna), dove trovate un cancello blu inconfondibile e che per ogni ulteriore ragguaglio la mail qui a fianco è disponibile. si comincia mercoledì 9 con il film Ko To Tamo Peva (del quale scrissi l’anno scorso) appena l’oscurità ci consentirà la corretta visione.
ultimo dato: ci sarò anch’io.
è tutto. qui di seguito le parole scelte da alice.

CINEJARDIN Piccola imbastitura di cinema in giardino

Eccolo il cinema che vive a lato, eccolo disambientato. Filo conduttore è il viaggio, lo spostamento, il movimento, la disabitudine, l’incontro. Il cinema che racconta quei pezzi di terra dove l’occhio di bue non illumina. Il cinema che viene scrollato e staccato dalle sale per essere riportato ai pochi, all’attenzione, al buio di un giardino in notturna. La lingua si fa ascoltare così differente e varia come è stata inventata, e sono dunque i sottotitoli a riportarne i significati.
È una rassegna imbastita, è il tentativo di una rassegna di cinema innestato.

MERCOLEDÌ, 9 GIUGNO

KO TO TAMO PEVA

regia di Slobodan Ijan, con Pavle Vujisi, Dragan Nikoli, Bata Stojkovic

film in lingua originale sottotitolato
(Jugoslavia 1980, 86 min)

Il 5 aprile 1941, il giorno prima che scoppi la Seconda Guerra Mondiale, una camionetta che si crede un bus dai fenomenali e ridicoli conducenti porta una combriccola di variegati passeggeri fino a Belgrado. Il viaggio è quello degli incontri, della musica, delle differenti origini, dei diversi obiettivi, del cibo e del vino. All’arrivo ci sarà così la salvezza dalle bombe della Luftwaffe, la forza aerea tedesca, per chi non possiede terra, né scopi.
Un film del realismo balcanico divertente e ironico, che lascia in bocca il sapore di una canzoncina da portarsi nella doccia e un sorriso fabbricato dall’idea di speranza e possibilità.

VENERDÌ, 9 LUGLIO

LA BOCCA DEL LUPO

regia di Pietro Marcello, con Vincenzo Motta e Mary Monaco

film-documentario
(Italia 2009, 76 min)

Se Fabrizio De André avesse potuto filmare Genova, lo avrebbe fatto così.
Una storia di poesia vera, di amore vero tra due “irregolari” veri. Vincenzo si è fatto anni di carcere. Lì ha conosciuto Mary, che lo ha ricambiato amandolo. Si sono aspettati e voluti sin dal tempo del loro incontro dietro le sbarre, quando ancora si mandavano messaggi muti, registrati su cassette nascoste. Genova e la sua storia sono testimoni del loro incontro. A Genova ora condividono il loro destino furtivo con i compagni degli abissi, nel labirinto di Croce Bianca, via Pré, Sottoripa… nomi antichi di un posto non ancora moderno dove il Novecento si è incagliato come una nave senza ancora.
(premiato come miglior film al Torino Film Festival 2009)

LUNEDÌ, 9 AGOSTO

MUNYURANGABO

regia di Lee Isaac Chung, con Josef Jeff Rutagengwa e Eric Ndorunkundiye

film in lingua originale sottotitolato
(Rwanda/USA 2007, 97 min)

Girato in 11 giorni, nelle zone di campagna intorno a Kigali in Ruanda, è il primo film girato interamente in kynyarwanda, la lingua nazionale ruandese.
Un racconto semplice, un canovaccio poco costruito con non-attori conosciuti sulla strada, per presentare il dramma del genocidio, visto con gli occhi di chi è sopravvissuto, eppure con altre ferite da rimarginare: quelle della memoria, della giustizia e del desiderio di vendetta.
È una storia senza inizio e senza fine. È un viaggio, un percorso, una terra battuta da passi che mostrano la potenzialità e la difficoltà di ogni incontro. Due ragazzi amici dovranno comprendere se davvero non possono far altro che considerarsi ancora avversari Hutu e Tutsi oppure se possono iniziare a sapersi semplicemente insieme
(presentato alla sezione “Un certain régard” del Festival di Cannes 2007)

LUNEDÌ, 9 SETTEMBRE

LA PROMESSE

regia di Luc Dardenne e Jean-Pierre Dardenne, con Jérémie Renier e Olivier Gourmet

film in lingua originale sottotitolato
(Belgio 1996, 93 min)

Un figlio soddisfatto di essere ai servigi di una padre che ha inventato il mestiere di sfruttatore degli immigrati clandestini a Seraing, cittadina industriale belga. Poi una promessa. E i ricatti si rompono, per l’importanza di una parola e del pensiero che ad essa è legato. Mentre in questo tempo cerchiamo correnti alternative di comprensione umana, mentre le parole intercultura e immigrazione cominciano a soffiare tra le sillabe e ci sorprendiamo per un cinema che finalmente inizia a farci sentir parte di un mondo grande e vasto, nel 1996 i fratelli Dardenne riuscivano a descrivere una normalità acuta e bestiale in un film che racconta di persone con nomi e cognomi, carte d’identità e permessi di soggiorno, nascondigli e immensa fatica.

Pubblicato in 2010, Kino | Lascia un commento

Richard Youngs Beyond The Valley Of Ultrahits

da qualche mese vado ascoltando rapito un disco che, con perplessa sorpresa, non ho visto comparire nelle playlists del trascorso anno malgrado le informazioni in mio possesso lo collocassero esattamente alla fine del 2009. eppure, mi dicevo, Richard Youngs è uno di quei nomi che fanno ancora muovere le foglie del grande albero della musica altra. così, mentre il disco cresceva il suo numero di ascolti dedicati, mi sono messo alla ricerca di qualche ulteriore notizia per comprendere meglio.

Beyond The Valley Of Ultrahits (con la basica copertina qui sopra) è uscito in formato cd-r per l’etichetta Sonic Oyster dell’amico (suo) Andrew “Paz” Paine. la vicenda che annida dietro la realizzazione di questo lavoro è quantomeno divertente e stimolante: provocatoriamente Andrew Paine ha chiesto a Richard Youngs di realizzare un disco pop, di scavarne la complessità di genere e interpretarne una personale versione. una specie di sfida dalla quale il musicista inglese non solo non si è sottratto, ma alla quale, visto il risultato finale, si dev’essere applicato assai.

una perfetta decina di canzoni “pop” sospese in un tempo che deduco personale e racchiuso nello scrigno sentimentale di Youngs. a guardarle in controluce, dietro il luccichio caramellato della canzone di consumo, lasciano assaggiare la densità della composizione che si muove dal complesso verso il semplice. ossature e trame impercettibilmente eccentriche, devianze che potrebbero infastidire un pubblico da radio di consumo, insinuargli il seme malsano del disagio. ma non saranno le radio fm del pianeta ad accogliere questa caramella al rabarbaro. la Jagjaguwar, storica etichetta che da tempo pubblica i lavori dello sciamano naïf, ha annusato l’aria e compreso che ciò che fu gioco può trasformarsi in vociferare diffuso e gradito (e quindi in denaro).

Beyond the Valley of Ultrahits uscirà allora a luglio inoltrato, con copertina imbellettata e make-up da rimasterizzazione. il pop ha le sue regole e non le cambierà certo Youngs.
del disco ho in realtà detto poco: contravvenendo alla mia abitudine di fuggire da paragoni o da ascendenze spenderei qualche nome per incartare la delizia e invogliare l’ascolto. si prenda l’ipotesi di un Robert Wyatt costretto alla rigidità del pentagramma che abbia come sodali collaboratori un David Byrne narcolettico e/o lo Scott Walker dei ’70. supponiamo che le canzoni da loro scritte vengano donate al Bowie degli ’80 che le lascia riarrangiare al Franco Battiato del medesimo periodo (nessuno si spaventi) assieme ad un Johnny Marr prestato per l’occasione ai Pet Shop Boys.
ho esagerato? probabile. meglio rimandare al disco e girare al largo da quel pop con cui non ho mai fatto veramente la pace.

Pubblicato in 2009, 2010 | Lascia un commento

Soundeyet

Έτσι, δεν γνωρίζω
(Σωκράτης)

innanzitutto so di non sapere il greco, e me ne cruccio. ma si tratta di un vecchio rammarico adolescenziale, quasi un vezzo di fascino che attribuisco più all’irresistibile grafia sensuale che a necessari doveri etimologici.
Bella la lingua greca, vero?
Ostia!

oggi avrei potuto leggere quelle esili e stringate righe che accompagnano i post di un blog che seguo silenzioso e osservante. so anche che esiste un termine preciso per questo comportamento vouyeristico, ma di fronte all’eleganza del greco mi sembrerebbe quantomeno inopportuno sciorinare un neologismo barbaro e volgare. interagirei, mi farei partecipe e parlotterei pure se solo avessi la minima idea di ciò che c’è scritto, ma non la possiedo. comprendo però assai bene l’affinità e la medesima smania di esplorare i confini della musica moderna. coincidono spesso le mie aspettative con le selezioni musicali proposte e qualche volta, meravigliosamente, anticipano di un soffio desideri e possibili acquisti.

Soundeyet è gestito da due figuri che corrispondono ai nomi di McPan e georgeas7. un blog come i tanti che affollano la rete, ma sobrio, essenziale e curioso: in una sola parola “altro”.
tempo addietro recapitai un messaggio di ringraziamenti e da allora ho la strana sensazione che ci si stia “spiando” a vicenda. ossia io so che tu sai. meglio: non so certo di sapere se loro sanno di sapere che io so.
ciò che è certo che Soundeyet conduce una trasmissione radiofonica con cadenza blanda sulle frequenze greche di vmRadio e che il blog della radio informa tempestivamente sulle scalette proposte che puntualmente finiscono in files raggiungibili via download.
tutto qui. ci tenevo ad allargare, informandola, questa comunità silenziosa che si va formando aprendola sul Mare Egeo. ho chiamato comunità un manipolo di persone che si tengono vive e curiose, che leggono queste pagine e che vengono a loro volta lette dal sottoscritto, cellule (apparentemente) dormienti di intuito e irrequietezza. da tempo vado pensando al modo opportuno di rendere questa consonanza efficace e partecipativa: ho perlopiù idee confuse ma già il fatto di pensarci mi tiene attento. ogni suggerimento è ben accetto e, in ogni caso, chi vuol giocare metta il dito qui sotto…

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Denseland Chunk

su Denseland e sul loro lavoro Chunk (Mozs, 2010) giungo con innegabile ritardo; tutte le riviste edotte, le radio e la scintillante blogosfera non hanno potuto che inchinarsi ed accogliere prostrati la magnificenza di questo disco. l’unica giustificazione sensata che posso addurre per questa mia mancata ottemperanza è che non l’avevo ancora ascoltato nella sua interezza, non così a fondo e voluttuosamente appieno. in ogni caso, e pure malgrado me, sono certo che se ne riparlerà (eccome) nelle consuete classifiche di fine anno.

la copertina (farmaceutica) riporta la posologia dei principi attivi principali: tre parti uguali e equipollenti dal nome David Moss, Hannes Strobl e Hanno Leichtmann. quasi un power trio a base di enzimi, fermenti ed eccipienti.
ricomincia l’ennesimo ascolto (mentre scrivo) e non posso fare a meno di ragionare sull’imprendibilità di questa musica. caratteristica necessaria, condizione sine qua non di ogni musica che sia degna di tale nome. perché se è vero, come ama ripetere il mio amico Hank, che è la catarsi che andiamo cercando al cospetto dei suoni è anche vero che, pochi istanti prima dell’estasi, è la sensazione sfuggente a lasciarci basiti.
la Grande Musica (maiuscolo) è imprendibile! sfugge, scivola e si divincola ai tentativi vani del nostro orecchio prensile: è la caratteristica segreta che le chiediamo, quella di destabilizzare i nostri presunti canoni, di renderli incerti e provvisori, di sfamarci ed affamarci e al contempo lasciarci il gusto ineffabile.

certe musiche scappano indietro nel tempo a sospendersi in epoche incerte e perdute, da laggiù le intendiamo e in quel luogo bramiamo giungere segretamente. altri suoni fuggono lo spazio e lo confondono, dilatano la percezione di una realtà che non è più univoca e frastornano la nostra anima deperibile.
ci sono canzoni che si sono insinuate fra il cuore e il diaframma, nel bel mezzo delle budella che singultano ogniqualvolta ci sorprendiamo a riascoltarle, commuovendoci. altre musiche schivano i confini terreni di questo piccolo globo e cantano altre terre, altri volti e altre lingue.

Chunk è uno di quei dischi che schiva la presa e sgattaiola nel futuro prossimo venturo ad allargare la percezione ed i confini di ciò che sarà. ipotesi ventura inaudita conficcata nel decennio a venire. musica coraggiosa, idealista ed onirica come chiunque abbia voluto vedere oltre quello che si considerava il confine ultimo invalicabile.
un suono siliceo e algebrico che essica le intenzioni, brandelli di ritmo, vagheggiamenti amniotici e memorie dell’epoca industrializzata. la lallazione di David Moss conduce la ferraglia sonora per fonemi e mugugni, il magma algido si conglomera per giungere in quella terra densa evocata. è calore notturno, odore di ghiaccio.
ci sono funky liofilizzati (Scrap It (Up)), meditazioni di un Sant’Agostino marziano (Monk), il suono che faranno le macchine quando il genere umano avrà (finalmente) lasciato la terra (Rev Elation), registrazioni ambientali di un disco club d’epoca luterana (Obsidian), il meteo olfattivo di Tokio del Gennaio 2073 (Alluvial News), una ninna nanna pastorale per transistors (Chant Bleu).
non sapendo che aspettò avrà la forma canzone nel tempo a venire accettiamo volentieri l’ipotesi Denseland: se si rivelerà caduca sarà valsa la pena di averci provato, se dovesse assomigliare al possibile potremo dire di aver annusato saggiamente il nostro tempo.
concepimenti musicali come questo sono rare epifanie, così come quei dischi che si attendono completamente ignari di farlo.

Pubblicato in 2010 | 6 commenti

Jason Adasiewicz's Rolldown Varmint

ritengo che il concetto di link esistesse ben prima di divenire, oramai per tutti, un segnale di direzione cliccabile (che brutta parola!) che conduce altrove, nè troppo distante e neppure troppo vicino, bensì in una prossimità inerente. link erano probabilmente i rami ai quali si aggrappavano i lontani parenti primati per procedere nella perlustrazione della boscaglia, link sono i primi passi dei neonati e link sono pure i passaggi di contiguità che abbiamo attraversato per giungere ad una qualche conoscenza.
con la musica (e con l’arte in genere) credo di aver proceduto principalmente per link: un gradino di conoscenza raggiunto spalancava la possibilità successiva di apprendere un poco oltre. partendo da cominciamenti diversi abbiamo allargato (avremmo dovuto allargare… meglio) la rete delle consapevolezze fino a creare quella foresta lussureggiante che è (dovrebbe essere) la nostra conoscenza personale. questo conduceva a quello e inevitabilmente a quell’altro e all’altro ancora, e via di seguito finchè ci sarà tempo. nella migliore delle ipotesi si giunge, per corto circuiti virtuosi a punti già raggiunti, ma vi si giunge per differenti strade e di conseguenze si creano epifanie di consapevolezze, sorprese conoscitive. e allora sono gioie, ma questo è tutt’altro discorso.
Rob Mazurek
per qualcuno sarà un link di passaggio e per altri un cominciamento, ma comunque la si metta lui resta imprescindibile per questi anni doppio zero e dieci a venire. l’Exploding Star Orchestra fu il primo link da cui raggiungere le varie e molteplici creature che il cornettista ha generato o nelle quali è stato coinvolto. tutto questo fino al bramato incontro di cui scrissi poco addietro. quel concerto fu l’ulteriore link per spingersi alla conoscenza ulteriore di quei funambolici musicisti che dividevano magma sonoro e palcoscenico con lo stesso Mazurek. avevo proposto su uabab il disco del bassista di quel quintetto: Josh Abrams Cipher (piccolo gemma di jazz da camera privata e segreta). dopo di lui è tempo di esplorare meglio l’ultimo disco di Jason Adasiewick.

il vibrafonista è giovine (1977) e talentuoso e la sua disco(bio)grafia ha già parecchi trofei in bacheca. la sua apparizione live è benefica e riconciliante per tutti gli amanti dello strumento. vederlo accartocciarsi sul suo vibrafono e strisciarlo, percuoterlo e condurlo dalle profondità notturne allo scintillio del cristallo può ristorare cuore e membra.
il suo progetto personale lo vedo a capo di un quintetto bianco che prende il nome di Jason Adasiewicz’s Rolldown. primo disco omonimo nel 2008 per la 428 Music e l’anno scorso passaggio alla Cuneifrom per Varmint.

Josh Berman alla cornetta, Aram Shelton al clarinetto e sassofono alto, Jason Roebke al basso e Frank Rosaly alla batteria condividono il viaggio attraverso 6 composizioni originali ed un brano di Andrew Hill (The Griots).
pasta sonora calda e non del tutto sconosciuta. i critici hanno stilato lunghe liste di derivazioni e provenienze: gioco sterile e pericoloso che non aiuta la dinamica e il coraggio di questi giovanotti talentuosi e ben intenzionati. non può e non deve essere peccato rifarsi ai maestri del post bop o di un certo suono Blue Note. non è l’inaudito che qui si va cercando, ma piuttosto lo stile e la capacità di ricreare quell’interplay solido (e allo stesso tempo fluido) che conduce questo quintetto fuori da una mediocrità che spesso accompagna certi dischi di jazz odierno.
resta centrale e succulento il suono del vibrafono che attrae su di sé e conduce il quintetto verso ipotesi di direzioni future. credo che il nome di Jason Adasiewicz, e la sua barba, accompagneranno negli anni a venire la ricerca di un possibile jazz moderno e, con Mazurek o senza, occuperanno la ribalta di un suono bianco (è bene dirlo) che sta mescolando stilemi e ascendenze alla ricerca del nuovo che verrà.
per questa sera consiglio di attendere il crepuscolo e approfittare dello sgombero delle strade per guidare la propria automobile con pacatezza e moderazione. si può così permettere al suono di questo disco di condurre il volante e raggiungere gaudenti un non luogo o qualsivoglia direzione. non so alla fine quale sarà la meta, ma sarà piacevole raggiungerla.

Pubblicato in 2009 | Lascia un commento

Sun Araw On Patrol

mi chiedo, mi chiedono, sento chiedere e leggo in giro che in tanti si stanno chiedendo la medesima cosa: come è possibile ascoltare, metabolizzare e tenere il passo con le innumerevoli uscite discografiche che la rete rigurgita sui desktop? domanda alla quale (mi) rispondo facendo appello ad un presunto buon senso: intanto comincerei con il ricordare quel saggio contadino di mio nonno che mi vietava di lamentarmi del brodo grasso, e successivamente far presente che nulla e niente obbligano ad asoltare il tutto e l’ogni. il problema dell’abbondanza è un falso problema e più che altro una trappola: proprio in quest’oggi in cui non si è mai ascoltata così tanta musica pro capite sarebbe un delitto la superficialità e l’usa e getta. è proprio di questi tempi che bisogna aguzzare l’orecchio e affinare l’occhio e non concedersi la faciloneria di sciupare la cuccagna di cotanti suoni. Vladimir Il’ič Ul’janov avrebbe di certo saputo fare un sermone più ficcante mettendo in relazione borghesia, lotta di classe e plusvalore opulento, ma non si può più e non pare più cosa.
sta parlando un uomo adulto e vaccinato che ha formato la sua educazione sentimental musicale in tempi in cui un vinile durava una stagione intera, una canzone tutta l’estate e certi gruppi per sempre. ho vissuto un tempo in cui si facevano la file negli scaffali delle discherie, si comprava per corrispondenza dall’estero e ci si scambiavano vinili e cassette come fossero beni di prima necessità (e lo erano). quella gavetta mi è servita a comprendere cosa ero e cosa volevo, ad educare un gusto ed una sensibilità e a creare una dipendenza ed una consapevolezza che faticherò a scrollarmi di dosso. e le nuove generazioni? le nuove generazioni se la caveranno così come se la sono cavata quelle precedenti e lungi da me bacchettare fanciulle e pischelli che ascoltano musica né più né meno di come facevo io alla loro età.

è per questo che quando dal marasma discografico mi vedo giungere un disco come questo sento friggere le papille gustative e distendersi i nervi. ho l’educazione, la predisposizione e il diritto di riconoscere nel suo contenuto l’esatto grado di sorpresa e soddisfazione che richiedono le mie aspettative.
Sun Araw è lo pseudonimo dietro quale si cela il chitarrista Cameron Stallones, già in forza ai Magic Lantern. siamo sulla sponda californiana e soprattutto siamo nella scuderia Not Not Fun che già da tempo sta facendo risuonare il suo nome nell’universo alternativo (la medesima dei Pocahaunted: se fossero sfuggiti).
On Patrol giunge diretto sin dalla copertina, talmente brutta da rendersi quantomeno interessante: la materia sonora si nutre di una psichedelia blanda e bislacca nutrita di loop e ammenicoli percussivi vari che si raggrumano in apnee subacquee e cori ebbri di lontananza.

non credo sia da mettere in secondo piano una discendenza californiana che ricorda belle stagioni che furono. a quella e a molte altre derive lisergiche approdano i mantra sonnambuli che Sun Araw costruisce meticolosamente espandendo lo spettro di un viaggio possibile. viaggio immobile verso ozio e oblio, per nessuna direzione e senza fretta. permango dell’idea che sia bene non citare padri putativi e mentori di operazioni come queste: quegli organi Farfisa e quelle chitarre non sono certo nuove a chi ha masticato i recenti decenni musicali, ma è proprio per questo che lo stupore e la sorpresa si complimentano a vicenda.

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atmosfere perfette per non fare nulla, per accoppiarsi o per ciondolare sulla sabbia in attesa del torpore: i vortici creati dai loop primordiali inghiottono in pericolose spire di nullafacenza e di sonno. una di quelle epifanie che il tempo dell’abbondanza concede magnanimo e per le quali è bene chiedersi se in tempi di regime (di major) sarebbero mai potute uscire.
i nove lunghi brani sono contenuti in un singolo cd o nella versione in doppio vinile.
propongo questa seconda possibilità più consona alle musiche contenute e ai tempi evocati che furono.

Pubblicato in 2010 | 5 commenti

Intorno alla definizione di Classico

uno dei diletti di un blogger (almeno dello scrivente) è quello di avvertire, dal fondo della caverna buia del net, una eco tornare flebile eppur distinguibile senza timore d’errore. percepire che neppure laggiù (o lassù), come qui fuori, si è soli. avvertire distintamente la creazione di una consonanza, di un sentire condiviso con sodali blogger per certi versi sconosciuti. sconosciuti al punto che si ci trovassimo in uno stesso vagone di treno non sapremmo riconoscerci pur avendo discusso e diviso molto. resta però la sensazione di passeggiare in sentieri calpestati di fresco. mi sono chiesto spesso se fossero le strade esigue, e quindi costrette, o se invece la determinazione delle nostre scelte conducesse ad un senso più nobile e alto . ossia: il pesce rosso è conscio che il suo mondo è limitato alla sola bolla piena d’acqua? oppure: è giusto pensarsi vicini e simili per aver amato il medesimo disco, libro o film?
ho detto spesso a Fabio di essere sorpreso di medesime traiettorie e di contigui camminamenti e per questo non mi sorprende l’ennesima (non)coincidenza. ragionavo attorno alle definizione di classico ascoltando l’ultimo lavoro di Keith Jarrett e Charlie Haden per l’ECM (Jasmine), ed ero ben disposto a verificare le felici teorie di Italo Calvino mutuandole dal concetto letterario a quello musicale.
il suo post dice (non dicendo) assai di più di quanto tentavo di esprimere. una manciata di standard eseguiti nel clima intimo e rilasciato dello studio casalingo di Jarrett restituiscono l’incanto di una musica imprendibile per definizione, così come i classici.
confesso di non poter eleggere Jarrett fra i miei artisti preferiti, pensando primariamente al lato umano e successivamente alla grande carriera che gli splende dietro l’aureola e così andavo cercando un paragone con un pianista assai più giovane che vede uscire il suo nuovo lavoro in concomitanza del maestro.
Brad Mehldau si cimenta nel  doppio e ambizioso Highway Rider (Nonesuch, 2010) a metà strada fra jazz e sinfonica urbana da camera. elegante colonna sonora di private intimità e percezioni (ancora) di classicità conforme a canoni occidentali condivisi. i raffronti con Jarrett sarebbero tanto ingiusti quanto sbagliati, ma credo che ciascuno, in cuor proprio, esprima preferenze. di certo, con leccornie concomitanti come queste, bisognerebbe riempire le dodici mensilità annue.
così, per non tornare su medesime parole già affrontate da Fabio, ho rivolto il mio pensiero alla possibilità di applicare il concetto di classico all’opera, oramai ventennale, di Will Oldham e di Bill Callahan. confesso di non aver seguito attentamente il debutto delle due carriere perché affaccendandato, negli anni ’90, a vivere e frequentare il passato musicale che fu. così, curiosando in rete giungo a conoscenza di una mutua e sghemba collaborazione dei due eroi in questione.
arrivo ultimo? lo sapeva chiunque masticasse l’abc del songwriting alternativo?
dietro l’omaggiante ragione sociale di The Sundowners, nel 1993, uscì un ep dal titolo Goat Songs: a dividersi microfoni e chitarre i due suddetti immersi nel lo-fi acerbo e sgangherato di quegli anni. fa capolino persino una cover dell’amato Cohen a testimoniare che i sentieri finiscono (fortunatamente) sotto i medesimi passi.
qualche anno più tardi (1996) esce pure un seguito al medesimo nome (The Sundowner) e dal titolo The Girl With The Thing In The Hair. a quanto sembra è il solo Callahan ad occupare la scena e un paio di brani (e video), e una copertina memorabile, sono quanto ci è dato di sapere.
avrei scritto di questo, ma un post (e una compilation) acuto e puntuale di birdantony sul suo Almost Blue In Reverse hanno sapientemente innalzato Oldham a quel ruolo di classico di cui andavo cianciando e reso inutili le mie parole. lo ringrazio qui per pensarmi degno d’ascolto e chiedo a lui di questi Sundowners di cui ignoravo l’esistenza. e se fosse che arrivo davvero ultimo provo a sdebitarmi allora con due cover che i nostri hanno inciso per aiutare la convalescenza di Chris Knox (e ci sono pure i Lambchop).
“bruciati” così gli argomenti di cui volevo parlare mi dedicherò a due primizie che non so se diventeranno mai classici, ma che di certo hanno intenzioni serie di ingombrare rumorosamente questo 2010. dopo averli finalmente visti dal vivo l’anno scorso, e dopo aver letto articoli straordinari, ecco finalmente giungere l’atteso quarto lavoro per quei Konono N°1 dal minaccioso titolo di Assume Crash Position (Crammed, 2010).
contagiosa mistura urbana e lamellofona di distorsione metallica e frenetica: se fuori dall’atmosfera qualcuno potesse percepire qualche suono provenire dal globo terracqueo mi piacerebbe potesse essere questo. così magari pensa che ci stiamo pure divertendo. il disco sta mettendo a dura prova i miei woofer e e le mie trombe di Eustachio, ma sono torture che inducono il sorriso ebete stampato in faccia.
l’altra primizia assomiglia ad uno strano incubo ad occhi aperti. osservando bene la copertina qui a fianco e immaginado l’utopia irrazionale di una Anarchist Republic Of Bzzz è bene che io giunga a svelare chi alberga dietro questo suono burroughsiano e/o orwelliano. SeB eL ZiN all’amministrazione generale, Arto Lindsay ministro delle finanze, Sensational alla Difesa dell’Interzona, Marc Ribot alla Ricerca, Mike Ladd alla Giustizia e Kiki Picasso alla Propaganda. un delirio uscito solo in vinile per la Sub Rosa e che al contrario dei Konono, assomiglia più al suono che farà il mondo in prossimità dell’implosione, e non il contrario. non diventerà un classico e meno che non prenda il potere questa repubblica anarchica e venga ridiscusso ogni concetto in toto.
nella fiduciosa attesa della rivoluzione ripenso ai concetti masticati alla rinfusa e auguro un “classico” buon fine settimana a chi ha avuto la bontà di giungere fino a qui.

Pubblicato in 2010 | Lascia un commento

Omar Souleyman Jazeera Nights

ci si dibatte spesso sull’autenticità o meno delle molte musiche che il mondo della rete ci sospinge incontro dai quattro angoli del pianeta. lontani sono i tempi eroici dell’etnomusicologia che animarono precursori e coraggiosi avventurieri del suono, cacciatori di canti, testimoni e garanti dell’autenticità delle musiche catturate. oggi ogni spigolo del pianeta è dotato di apparecchi di riproduzione del suono e connessioni internettifere: il miscuglio, il meticciato, l’imitazione e l’istinto commerciale annidano ovunque. così, dopo il bluff della world music e la sbornia di sonorità buone all’uopo della (terrificante) new age, anche oggi non credo potremmo essere in grado di sentenziare sull’effettiva purezza di un suono o di una musica altra: e forse non ha senso farlo. la musica si è sempre nutrita di commistioni e contaminazioni, contagi e conoscenze, mescolandosi e spostandosi assieme alle genti in movimento sul globo. pretendere razze ariane musicali è tanto stupido quanto impensabile.
mi diverto spesso a tentare di indovinare da quale luogo della terra provengano certe musiche che incontro per caso: mi avvicino alla risposta per approssimazione, tenendo fede al discorso fatto più sopra. Omar Souleyman proviene dalla Syria, ma se avessi dovuto divinarlo avrei piuttosto indovinato la grande area mediorientale senza specificarne la nazione precisa. il mondo ha potuto fare la sua conoscenza grazie a quegli etnomusicologi post-moderni che sono i responsabili delle’etichetta Sublime Frequencies di Seattle. dopo i primi due dischi pubblicati (Highway to Hassake e Dabke 2020) si arriva oggi al terzo lavoro dal titolo Jazeera Nights con il medesimo sottotitolo esplicativo: Folk and Pop Sounds of Syria.

anche in questo caso, come nei due lavori precedenti, si tratta di raccolte di brani pubblicati originariamente in musicassetta, supporto ancora in voga in molti paesi lontani dall’occidente opulento. a ben leggere bene le note del disco si scopre meglio la specifica provenienza di questo suono contagioso. si tratta di syrian dabke, un mistura folklorica e regionale di musica da ballo e cerimoniale della parte nordestina del paese che si lascia influenzare dal choubi iracheno così come da effluvi turchi e curdi. è il pop urbano che si sente rimbalzare dai bazar e dalle automobili di Al Hassak, nelle feste e nelle cerimonie.

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suono contagioso (come già detto) e irresistibile al quale associo il mio delirio, curioso e salgariano, di viaggiare e vedere e ascoltare il mondo che preme fuori dagli stupidi confini che qualche idiota vuole inutilmente (e vanamente) mantenere. viene voglia, per questo, di indignarsi e digrignare i denti come favevano gli amati Clash quando alzavano polvere cantando Rock The Casbah (che fosse Souleyman l’emiro in fuga?); ma preferisco ritornare con la memoria ad una delle scene più dolci ed esilaranti di un film amato (Le Mari de la Coiffeuse) e ripetere la danza che il grande Jean Rochefort improvvisava su di una musica che, per oggi, voglio credere fosse proprio quella di Omar Souleyman.

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appunti di inizio Maggio

quando gli argomenti e le questioni si accavallano in grovigli apparentemente illogici e dipanare diviene difficile è bene astenersi dall’ostinarsi. così, saltata qualsiasi consecutio temporum, preferisco annotare qui in ordine sparso le diverse voci di un brogliaccio mentale che va allungandosi perigliosamente.

– possedevo un bel paio di biglietti per il concerto milanese di Gil Scott-Heron in data 28 aprile scorso. l’eccitamento e l’insinuante pensiero che non tutto sarebbe andato per il giusto verso si dibattevano in me; alcuni dubbi sull’affidabilità del personaggio destavano sospetti. avrei voluto vedere, godere ed eventualmente scriverne. un comunicato scarno e misterioso, da soviet supremo, rimanda ad altra data ed altro luogo l’avvenimento. l’ex-ragazzo sarebbe atteso anche a Roma in una serata del festival Dissonanze che fa venire l’acquolina. staremo a vedere. è per questo che metto in guardia l’amica che giustamente esulta.
– sempre a proposito di concerti: l’amico Lionel Essrog in qualche post precedente mi avvertiva e mi sollecitava in direzione Angelica a Bologna. sono già passati vent’anni dalla prima edizione a cui ricordo di aver assistito (sic!). se esiste un vero festival di musica altra è bene dire che è questo. gli appuntamenti sono così tanti che è bene annotarli diligentemente sul calendario e sperare di trovare, giorno per giorno, tempo e denaro per raggiungerli. John Zorn, Mike Cooper, Arto Lindsay e Giovanna Marini, per non fare nomi.
– così mentre apprendo dell’annullamento di Baby Dee al Locomotiv, sempre a Bologna, è l’amico Hank a consolarmi con la notizia che attendevo da tempo: Leonard Cohen dal vivo a Firenze il primo settembre. andrò, senza se e senza ma, e consiglio a chiunque pensa di avere a cuore la musica, e la forma canzone in particolare, di non assentarsi.
– per sdebitarmi minimamente con Hank gli offro fresco fresco un disco tributo al personaggio qui sopra. se ignorate l’esistenza di John Prine sarà lo stesso Hank a togliervi il saluto.
Broken Hearts & Dirty Windows: Songs of John Prine esce per l’etichetta OhBoy Records dello stesso Prine. americana in purezza scintillante interpretata da tali Bon Iver, Lambchop, Josh Ritter e Conor Oberst. per non dimenticare i maestri.
p.s. al medesimo proposito di maestri mi sovviene quel Introducing Townes Van Zandt Via The Great Unknown di cui parlai altrove.

– sto acquistando dischi in mp3! chi l’avrebbe mai detto: considerazione personale e privata che si spalma su vari e diversi argomenti che affollano, al riguardo, la rete. il mio amico Luca Sartoni va dicendo da tempo immemorabile che il cd è morto e sepolto. io so per certo che avrà ragione, come del resto su qualsiasi questione riguardante la rete e dintorni, ma sono curioso di vedere per quale verso e in quale maniera.
– tre siti per curiosi di musica e dintorni di essa. Point Of Departure è una rivista online sobria ed essenziale. parla di jazz e lo fa in inglese. parla di jazz “altro” e lo fa con stile e misura. assomiglia al mondo che vorrei. Monsieur Délire è il portale giornalistico e di attivismo musicale di François Couture che invia le sue dispense dal Quebec. ancora musica altra, dagli estremi e dai confini della galassia dell’altrove. interessante il podcast radiofonico periodico dal titolo Délire Actuel ascoltabile in questo sito. Radiodiffusion Internasionaal è un delirio globale di suono dalle periferie del mondo, una radiolina gracchiante sintonizzata su frequenze irraggiungibili per noi pedestri. un disclaimer, un blog e una trasmissione radiofonica (purtroppo cassata) determinano i confini di questa cornucopia di mirabilia acustiche del mondo tutto. consiglio di perderci alcune mezz’ore, ne trarrà giovamento la sensazione di essere figli di un mondo ben più vasto della nostra percezione e incapace di passare tutto per il tubo catodico.
– spostare mobili immobili da lungo tempo può condurre al ritrovamento di oggetti smarriti e creduti persi. impolverato e dimenticato giaceva al buio e riverso al muro Folk Is A Four Letter Word: una raccolta risalente al 2005 a cui sono affettivamente legato. mi ricorda un tempo solitario riempito di antico folk lisergico e sognante. il disco fu compilato dalla testa pensante della Twisted Nerve, tale Andy Votel, e fu compilato bene: meraviglie nascoste nelle pieghe del tempo passato che mi aprirono mondi conseguenti. è giusto riproporlo e aggangiare ad esso un disco per certi versi simile uscito da poco.
Shifting Sands: 20 Treasures From The Heyday Of Underground Folk raccoglie venti distillati di folk acido e misconosciuto. autori anglosassoni perlopiù ignoti accomunati da quel medesimo spirito freak che valicò i ’60 e si protrasse nei ’70 rimbalzando nelle sponde dell’oceano atlantico. li offro volentieri entrambi affinchè possano allietare un fine settimana primaverile a calpestare maggesi o altipiani, spiagge o divani comodi. da qualche tempo i link proposti trovano spazio nei commenti: è un accorgimento sciocco e stupido per evitare quei simpatici sceriffi che ancora si ostinano a difendere l’indifendibile. pratica e uso che valga da ora e per il tempo a venire.
è tutto. prolisso e confuso ma sono riuscito a dire ciò che volevo.
ci aggiungo anche un buon fine settimana a chi legge.

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Thomas Dybdahl Waiting For That One Clear Moment

in cuor mio ho sempre segretamente chiesto alla musica di cambiare il mondo, di farlo improvvisamente e senza condizioni, ispirandomi alla celebre provocazione che mosse altri movimenti: Soyez réaliste, demandez l’impossible!
non credo di esser stato accontentato, o almeno non in modo soddisfacente e ho dovuto ridimensionare il mondo esterno ad uno interiore, ripensarlo egoisticamente privato e segreto. non potendo cambiare il tutto mi sono accontentato di una parte, i miei giorni, e qui non ho fallito. per diverse vie e impensabili maniere permetto alla musica di sorprendere le mie attese, credo lo faccia chiunque abbia una sensibilità.
e dunque c’è a chi chiedo l’impossibile, a chi la catarsi, a chi lo stupore, ad altri il balsamo lenitivo o semplicemente un beat per far muovere sangue e scarpe. ognuno da par suo a muovere i propri fili per allietare questo Mangiafuoco che invecchiando diventa esigente e (moderatamente) antipatico. ma continuo a restare in ascolto della prossima meraviglia e a volte è bastante allietarmi una sola giornata affinchè il mio trastullo gradisca e si allarghi un sorriso soddisfatto.

Thomas Dybdahl è riuscito laddove altri hanno fallito: allietare alcune ore della mia vita. non credo fosse il suo obbietivo primario, ma in qualche maniera gli potrebbe fare piacere. il giovanotto norvegese non è di primo pelo (malgrado l’anagrafe) e ricordo precedenti lavori a cui avevo prestato parziale attenzione e che mi avevano fatto annotare il suo nome in una lista mentale che va dilagando.
il suo nuovo disco Waiting For That One Clear Moment (Universal, 2010) è suadente e in grado di sorprendere per maturità e piglio stilistico. mi piace definire questa attitudine compositiva con il termine di cantautorato adulto: una ricerca tesa a ridefinire gli spazi della canzone facendo leva su timbrica, penna e nuovi ammenicoli elettronici. senza dimenticare i maestri.
è bastato (si fa per dire) prendere il contenitore canzone e dilatarlo, aprirlo a nuove dinamiche e dosare equilibratamente analogico e digitale, acustico d elettronico. se poi non si temono dissonanze o distorsioni e si ha nell’acido desossiribonucleico porzioni di soul nero e funk indotto non sarà difficile approdare, con quel falsetto inequivocabile, a sponde che già un certo Curtis Mayfield raggiunse con fare primigenio.
così, ripensandoci, ho compreso che è forse bene, per sovvertire il giardino celeste, principiare dal proprio orticello abbellendolo di lieti dischi come questo: apparirà più fiorito, gradevole e in qualche modo profumato e al prossimo distratto passante che si chiederà che specie botanica è mai quella, risponderemo che è musica, buona musica, che tiene lontano gli insetti, irradia colore e forse, a non perdere del tutto l’illusione, cambia il mondo!

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