da Essakane a Segou

mi ritrovo a sfogliare sogni e desideri e li riscopro medesimi e uguali a loro stessi. come alcuni mesi addietro. poche idee ma in compenso fisse e insistenti. gennaio è il mese di due festival africani a cui è bello poter sognare un giorno di assistere.
sto parlando del Mali e in particolare di Essakane e di Segou.
festival-in-the-desert3Essakane è una città oasi che dista 65 km a nord di Timbuktu e dove si è da poco concluso il Festival Au Desért. la nona edizione si è svolta dall’8 al 10 gennaio fra le sabbie e le piste del deserto. edizione un poco disertata (sic!) per le avvisaglie lanciate dalle ambasciate americana ed inglese riguardanti probabili pericoli derivanti da possibili attentati di al Qaeda.
non è successo nulla per fortuna e hanno così potuto esibirsi artisti maliani provenienti dall’area Tuareg e alcuni ospiti stranieri. i nomi, letti e immaginati, sono suggestioni ad occhi aperti. Tinariwen, Salif Keita, Bassekou Kouyate, Habib Koitè e le voci femminili dei Tartit e la regina di Timbuktu: Haira Arby. e in più, per la prima volta al festival Vieux Farka Touré figlio di Ali Farka Touré ed erede della tradizione e della statura del padre.
sarà lui peraltro a fungere da trait d’union fra il festival appena concluso e quello che si apre questa sera presso le rive del Niger a Segou. anche il suo nome infatti andrà ad arricchire la prestigiosa lista degli artisti della quinta edizione del Festival sur le Niger. fra di essi Oumou Sangarè vera e propria meraviglia di grazia e talento. quattro o cinque anni addietro ero in procinto di raggiungere Firenze per un suo concerto, 39 gradi di febbre e i passi appenninici chiusi per neve ostacolarono un incontro solo rimandato.
e di certo Firenze sarebbe stata assia più prossima di Timbuktu.
ma io continuo ad annotare questi appuntamenti su questo blog, a ricevere le info dalla mailing list dei due festival (con un gusto fra il sadico e il masochista) e a valutare quale degli zero che compongono la cifra di 3000,00 (euro) mi manca per raggiungere quei luoghi. credo quella prima della virgola!!!
e allora riguardo Oumou Sangarè nel lontano 2003 sul palco del Festival Au Desert assieme al compianto Ali Farka e mi dico che in fondo sto soltanto rimandando…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=0cD7Rd-4Uk8&eurl=http://www.palacetravel.com/content/festival-in-the-desert?gclid=CM2L4YzesZgCFcse3goddSqZUA]

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Lars Horntveth Kaleidoscopic

a dire il vero non ho ancor ben capito se questo disco sia uscito alla fine dell’anno scorso o all’inizio del corrente. ma poco importa in fondo. se sia sfuggito alla graticola delle top ten di fine 2008 o se si candidi di diritto per quelle di questo 2009. io lo penserò come tale, fresco ed attuale, e per questo lo incasello nella rubrica che inauguro e che riguarderà l’anno appena nato.
Lars Horntveth del resto non è nuovo dalle mie parti. avevo letteralmente adorato un piccolo capolavoro dal titolo Pooka. era il 2004 ed il giovine norvegese fuorisciva dal gruppo di cui si narri sia un poco la mente (sto parlando dei Jaga Jazzist o solo Jaga) per questa sua prima esperienza solista. lì dava libero sfogo alla sua creatività con un piglio maturo che per i suoi 24 anni pareva persino straordinaria (il ragazzo è dell’81). suonava ogni cosa presente nel disco e in particolar modo il clarinetto (anche basso), colpendomi definitivamente nel mio lato debole. credo valga la pena di ripescarlo.

l’etichetta, allora come oggi, è la Smalltown Supersound e un poco di merito per il doveroso coraggio sarà bene attribuirlo pure a loro. sì perchè, per quanto si siano resi conto di avere in scuderia un puledro di purissima razza, fa piacere che abbiano lasciato carta bianca al piccolo genio nordico e avergli concesso di licenziare un disco come questo.
lars-horntveth-kaleidoscopicLars Horntveth Kaleidoscopic (Smalltown Supersound, 2009) è una composizione originale che consta di una sola traccia per complessivi 37 minuti. e questo, mi rendo conto, potrebbe spaventare. alcuni dati tecnici: è stato registrato nell’arco di un paio di giorni presso una piccola chiesa di Riga (Lettonia) da 41 elementi (34 archi, 3 percussionisti, clarinetto, flauto, arpa e bassotuba) dell’Orchestra Nazionale Lituana diretta da Terje Mikkelsen, ovvero il direttore dell’ Orchestra Filarmonica di San Pietroburgo. Horntveth è al clarinetto e ad altri soffici tocchi. sua la produzione assieme al mentore della musica norvegese Jørgen Sir Dupermann Traen (Kings of Convenience, Sondre Lerche e Royskopp per intenderci).
il risultato è pura delizia. la parola che pare abbondare sulla bocca dei critici (come il riso su quella degli stolti) è cinematico. io non so bene cosa significhi e preferisco riportare una dichiarazione dello stesso autore.
Mi sono ispirato al modo di suonare la chitarra di Jim O’Rourke, all’uso dei contrasti di Robert Wyatt, alla giocosità degli Stereolab, alla batteria inventiva e soulful di Take Five di Dave Brubeck, allo sguardo non convenzionale sul pop di Joanna Newsom, al compositore di Hitchcock Bernard Herrmann e agli arrangiamenti di archi di Jean-Claude Vannier per Serge Gainsbourg
beh, ci manca solo che mi paghi il mutuo e poi siamo amici per sempre!
io consiglio di rubare 37 minuti di tempo al proprio tempo e dedicarsi a questo ascolto. solitari dentro ad un auto notturna allungando il percorso, in una vasca liquida e fumosa, dentro le cuffie di un lettore nel bel mezzo del caos o come ciascuno vorrà. io ci metto il biglietto, poi ciascuno farà il tragitto che preferirà.
un plauso al genio, al coraggio di scardinare consuetudini commerciali stantie. alle idee e alla libertà che pare albergare in quel buio nord di cui nessuno si preoccupa e alla nascita di un talento di questo debutto di millennio.

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Back to the Crossroads The Roots of Robert Johnson

di recente mi sono divertito a leggere approfondite dissertazioni sull’esistenza di una terza foto (la fonte è Vanity Fair, sic!) che, a quanto pare, parrebbe ritrarre quell’indemoniato di Robert Johnson. e posso assicurare che sia sul lato ludico che su quello squisitamente filologico musicale ne ho sentite raccontare delle belle. come se davvero oggi, a più di 70 anni dalla morte, avesse ancora senso accanirsi con furia voyeuristica alla ricerca di quello che molto probabilmente neppure esiste, e che in fondo poco aggiunge a quanto già detto o sentito.
evidentemente l’enorme zibaldone di menzogne, bugie e apparentamenti diabolici che lo stesso Johnson di divertiva a portare a spasso ha messo radici ed è giunto fino a noi. la fandonia dell’anima venduta al diavolo nel bel mezzo del crocevia presso la piantagione di Dockery (nel Mississippi rurale), in un vortice di polvere e zolfo, a volte prende persino il sopravvento su quello che invece è il vero lascito del bluesman più celebre della storia. ossia la sua musica.
e a quella sarà bene rifarsi. a quell’unica eredità che fortunatamente è giunta a noi in quelle due (sole) sessioni di registrazione del novembre del 1936 e del giugno 1937. tutto qui. 29 blues che divengono 41 se si aggiungono le versioni alternative di alcuni di essi. un’opera omnia tutto sommato esigua rispetto a ciò che avrebbe potuto essere, ma di quella sarà bene accontentarsi. e a quella attenersi.
The Complete Recordings di Robert Johnson presumo sia in ogni casa, come il sale o lo zucchero (sto scherzando Steve!!!). nel caso non lo fosse, potete bussare alla mia porta (toc toc) e ve lo presto volentieri.
leggendo appunto di questa fatidica terza foto a me è invece tornata alla mente una preziosa compilation che la Yazoo licenziò nel 2004. e credo che, piuttosto che cercare lacci di scarpe o corde di chitarra, piuttosto che foto o inutili cimeli, sia assai più interessante, per chi volesse saperne di più, ritrovare quelle che furono le radici musicali di Robert Johnson.

copertinaBack to the Crossroads The Roots of Robert Johnson è una seria e approfondita analisi filologica di quelli che furono gli ascolti e le suggestioni nelle quali il bluesman del Delta affondò e fu benedetto. perchè in realtà non si trattò nè di diavoli e neppure di satanassi, nè di compravendite spirituali e neppure di miracolose accordature, ma piuttosto di una vorace capacità di apprendimento che fece di Johnson un avido ascoltatore di vinili, di bluesmen che lo avevano preceduto e di esecuzioni dal vivo.
curiosa la sua attitudine camaleontica e la capacità di assemblare in un solo brano diversi blues, carpendo e “plagiando” con indiscutibile abilità. variava stili, tonalità e modalità di suono a seconda del brano interpretato e spesso persino la voce si modellava ad imitare il cantante di riferimento. così, se è pur vero che fu Son House la primigenia fonte ispirativa per vicinanza territoriale e vocazione, altri e diversi andarono a completare (in parte) la pletora dei suoi maestri.
Love In Vain
non sembrerà troppo dissimile da When The Sun Goe Down di Leroy Carr (1935) e il meraviglioso verso del treno che lascia la stazione era stato usato da Blind Lemon Jefferson nel 1926 in Dry Southern Blues. la celeberrima Sweet Home Chicago deve un po’ troppo a Old Original Kokomo Blues (1934) di Kokomo Arnold ed è bene dare atto a Johnson del buon gusto nello scegliere ed individuare l’allora sconosciuto Skip James e la sua Devil Got My Woman (1931) e in qualche modo farla divenire Hell Hound On My Trail.
la compilation è composta da 23 brani (parte prima e parte seconda) che abbracciano un arco di tempo che va dal 1926 al 1935, giustappunto poco prima che Johnson entrasse per la prima volta in sala d’incisione. è corredata da un bel libretto esplicativo e non è nè più e nè meno straordinaria di quanto lo è l’opera di Johnson stesso al quale, sia ben detto, nessuno vuol togliere l’enorme statura e la straordinaria modernità che lo fa risuonare ancora oggi assai più attuale di molta musica che esce dai nostri stereo.
con buona pace del diavolo e di suo cugino minore.

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Paul Weller At The BBC

ecco un’altra di quelle opportunità rimandate ad oltranza in attesa di una lucida illuminazione o più opportunamente di una sintesi. sì, perché se solo azzardo un approccio a Paul Weller e alla sua parabola artistica rischio l’esondazione e il dilagare di emozioni e parole. e non credo che riuscirei ad essere limpido e tanto meno interessante. l’educazione sentimental/musicale del sottoscritto da cucciolo è indissolubilmente legata alla carriera del soggetto di cui sopra. talmente tanti i ricordi e i fatti salienti da rimanere invischiato come nella melassa. per questo eviterò l’anamnesi del mo contagio.
in quegli anni oscurantisti (musicalmente e non) che furono gli ’80 del secolo scorso trovai, fra i pochi, un appiglio possibile nella carriera di questo british purosangue. come un segugio giunto un pelo in ritardo annusai le orme del punk attraverso la musica dei The Jam, e poi, solo dopo, non mi feci scappare neppure un EP del suo progetto successivo: The Style Council.
il resto, volendo, è più o meno storia recente. nel senso che al debutto della carriera solista la mia attenzione si spostò altrove e distrattamente persi un poco il tragitto della sua evoluzione per controllarla saltuariamente ascoltando o accorrendo a qualche live ove possibile.
è per questo che questa strenna natalizia dell’anno appena sfumato corre in assoluto soccorso per rinvigorire un poco l’amore mai sopito per un artista che, oggi cinquantenne, rappresenta oramai un’istituzione per la musica anglosassone. dopo aver fatto letteralmente la gavetta ad inseguire e ad imitare i suoi idoli da questa e quell’altra sponda dell’Atlantico si ritrova oggi ad essere vero e proprio guru osannato e a sua volta imitato.

weller-at-the-bbcPaul Weller At The BBC è un quadruplo che racchiude 74 canzoni registrate dall’emittente inglese fra il 1990 e il 2008. versioni inedite e anticipazioni, registrazioni solitarie in studio e non, lives, covers, promo e vere e proprie delizie distribuite lungo un ventennio. un piccolo monumento vivente della sua grande carriera. un tributo alla statura artistica e alla sua coerenza.
ed è per questo che invece di perdere altro tempo a raccontare di ciò che fu e di ciò che è stato, preferisco cogliere questa occasione al volo per parlare di Weller ed affidarmi a questi 4 dischi e lasciar parlare loro. come al solito li aggiungo qui di seguito per chi già sa o per chi vorrà sapere (CD1 CD2 CD3 CD4).

vinylclassic1frontappropriatamente aggiungo qui la chiamata a raccolta per fans esclusivi (e qui io alzo la manina). per chi volesse esplorare in profondità il lato black dell’anima di Weller e farsi condurre per mano dentro la sua smisurata collezione di vinili vintage ecco correrci in soccorso una trasmissione che sempre la stessa BBC trasmise nella primavera del 2001. Paul Weller’s Vinyl Classic è una serie di 6 puntate in cui Weller racconta in prima persona la sua negritudine attraverso l’ascolto della musica che lo ha ispirato e che credo lo faccia ancora sognare. qualcosa di molto simile alle Theme Time Radio Hour‘s di Dylan ma completamente dedicate a soul, funky e blackness varia. pura delizia distillata in tre doppie puntate (Parts 1&2, Parts 3&4, Parts 5&6) che mi piace regalare a piene mani.
The Soul Lives On!

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www.circolodeivicoli.com

ho atteso e tergiversato fino a quando il debutto sulla rete fosse davvero concreto e reale, e dopo aver visto le versioni beta, zero o pilota che dir si voglia. volevo che ogni cosa fosse davvero a posto, di modo che poi, le presentazioni fossero ufficiali. insomma, che si facesse sul serio. e dunque ci siamo.
www.circolodeivicoli.com è il sito del Circolo dei Vicoli di Ravenna. ad essere zelanti si dovrebbe aggiungere Circolo E.N.D.A.S. “Eugenio Chiesa” di Via Vicoli, 7 – 48100 Ravenna (Tel. +39 340 6708316). questo per la precisione. e poi aggiungere un link per disvelare chi fosse Eugenio Chiesa.
circolo-particolarema un sito, per quanto dinamico possa essere, non profuma e non scotta, non abbisogna di ossigenazione e non ha retrogusto. e quindi, espletata la parte anagrafica e la ragione sociale, credo sia bene soprattutto dire che al Circoli dei Vicoli si mangia, si beve, si assaggia, si conversa e si ascolta, e per fortuna, questo un sito ancora non lo può fare.
sarei tentato di raccontare un poco di più e un poco meglio, ma il sito è esauriente ed io inoltre incapperei in un piccolo conflitto d’interessi (a ciascuno il suo). sì, perché ho il piacere (e l’onore) di poter dare una mano saltuariamente a tre ragazzi che sanno quello che fanno, e lo fanno bene. io li chiamo amici, ma da tempo sono assai di più! ci tenevo solo ad appuntare il loro indirizzo qui, per chi lo so già, per chi lo scoprirà e per chi allungherà un poco la strada per arrivare fin là.

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Dieci Anni

dieci anni. dieci lunghi anni senza Fabrizio De André.
dieci anni senza la sua voce, senza la sua coerenza e senza le sue parole. sono dieci e altri amaramente se ne aggiungeranno. vorrei trovare parole che non trovo per significare una mancanza che invece di assuefarsi, si ingigantisce come un’ombra al tramonto.

dieci anni. dieci lunghi anni in cui coerentemente non è stato permesso di saccheggiare il suo canzoniere rovistando fra nastri e rimasugli di sale d’incisione. e di questo bisogna essere grati.
le sue canzoni restano intatte a restituire, come uno specchio , il Fabrizio De André che ciascuno di noi si porta dentro. perché ciascuno conserva di lui un frammento privato e speciale.
annoto su questo diario parole tanto dense da non riuscire a prendere forma calligrafica. scrivo un po’ d’istinto, notturno. a volte mi pare di aver afferrato quel filo che mi tiene legato a doppio nodo alla sua vita artistica, a volte, per fortuna, no! e continuo a cercare!
un anno dopo la sua morte morì anche mio padre. in quello spazio e negli anni a venire mi è sembrato di diventare più uomo, più fragile e più solo.
quei due lutti hanno segnato il mio tempo e continuano a significarlo!
dieci anni. dieci anni e poi torno ad affidarmi ancora alla sua voce.

ritorno alle sue parole, alla sua spaventosa e intransigente coerenza etica, ai suoi insegnamenti. al suo esempio. mi associo ai vari blog che hanno voluto per oggi sentirsi uniti nel ricordo. sono con loro. mi tengo stretto le sue parole, le riascolto e qui le ripropongo dal cd che la rivista anarchica volle pubblicare tempo addietro. dico soltanto, stretto fra le labbra, un ciao a Fabrizio.

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Domenico Modugno Questa è la facciata B

c’era una volta Sanremo! ma credo ci sia ancora!
comunque… c’era una volta Sanremo e c’erano i 45 giri. oggetti di consumo di lacca vinilica che consegnavano nelle mani di melomani acquirenti le delizie musicali dell’italietta canzonettara. veri e propri prototipi dell’usa e getta che sarebbe sopravvenuto di lì a poco. c’era la canzone di successo che si cercava di vendere nel maggior numero di copie. c’erano le classifiche di vendite e le hit parade. c’erano i juke-box.
il 45 giri constava di due facciate. inevitabilmente. la facciata A, ossia il brano che si era volutamente deciso di acquistare ed una facciata B (il retro) che ci si accollava passivamente compresa nel prezzo. sarebbe interessante un excursus sui vari lati B della storia vinilica, ma non è questo il luogo idoneo.
mi accontenterò di raccontare la storia di uno solo di questi lati B.
1971. Domenico Modugno partecipa a Sanremo (ventunesima edizione). lui scrive la musica e Riccardo Pazzaglia il testo. la canzone si intitola Come Stai? (niente di eclatante a dire il vero). la interpreta assieme a Carmen Villani. alla fine si piazzerà sesta, per la cronaca. esce quindi il 45 giri.
domenico-modugno-sito1eccolo! RCA Italiana Stereo (PM 3574). 1971.
il Mimmo nazionale con il suo look seventies.
titolo in giallo della canzone ambita, nome (ce ne fosse bisogno) dell’artista e più sotto, in azzurro Questa è la facciata B!
di che si tratta?
intransigente e consapevole, un poco anarchico e liberale, di certo libero e irriverente, Domenico Modugno decide di inserire sulla facciata B del 45 giri un vero e proprio divertissement in salsa proto funk da belpaese. uno scarto di sala d’incisione in cui volutamente scherza ed irride il sistema stesso e la consuetudine di trascurare la facciata minore di consumo.
“Dunque ragazzi, dato che voi la facciata B della canzne di Sanremo non la ascoltate, io la canzone non l’ho fatta!”
questo quel poco di testo possibile, e più eloquente di così non credo si possa!
piccola e breve la storia. immenso e rimpianto Mimmo! ecco dunque la canzone…

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Seleção 2008

senza preamboli tediosi ecco gli undici che scendono in campo. coloro che lo meritano. che hanno giocato più partite e hanno dimostrato attaccamento alla maglia e al blasone. e che nell’arco della stagione hanno segnato l’epoca, il loro tempo e gli annali.
si scende in campo con il tradizionale 4-4-2. squadra che vince non si cambia! e non si discute!

1 Randy Newman Harps and Angels

portiere e capitano. sardonico principe dell’area e della visione di gioco. dai silenzi delle sue solitudini si levano pensieri da stilita e sogghigni da boia. gigione e goffo come un felino arroccato dietro un pianoforte. non sopporta le giornate di sole abbacinante, le lunghe trasferte e i cori stonati.
da molto tempo non rilascia dichiarazioni pubbliche. conduce vita modesta e attende paziente di appendere i guanti al chiodo.

2 Al Green Lay It Down

terzino destro di vecchia scuola. attendista e felpato, dalle movenze lente e scivolose. corretto quanto basta e uomo spogliatoio insostituibile. si narrano aneddoti irripetibili dal ritiro.
timoroso di sorpassare il centrocampo eppure pericoloso e insinuante come una spina.
immancabile segno della croce per ogni match giocato, per ogni goal fatto e subito.
si narra fosse un cecchino dal rigore, ma da molti anni si astiene. amen!

3 Baby Dee Safe Inside The Day

tutta mancina, estroversa ed estroflessa. di tecnica squisitamente calcistica dubbia, eppure efficace. ostica e arcigna come certi vecchi difensori tedeschi, eppure lieve e leggiadra in scarpette e pantaloncini.
lavoro oscuro il suo. di tamponamento e contenimento. lavoro di distanza e fatica.
si vagheggia di eccentricità e stranezza, ma il suo giuoco non si discute e ciò che accade fuori dal rettangolo in fondo poco importa. classica.

4 T Bone Burnett Tooth Of Crime

mediano oscuro ed arcigno. picchiatore del centrocampo. mai sazio e mai soddisfatto. verboso e scorretto, insinuatore e aizzatore. tesse trame e spezza geometrie. puntuale e tempestivo.
in ghingheri nelle notturne, fra l’erba bagnata e quel poco di fango che resta. lancia occhiate ai compagni che valgono più di consigli o reprimenda.
alleva castori e colleziona pistole.

5 Megafaun Bury The Square

marcatori esagitati ed efficaci. vanagloriosi e appasionati di vecchi videotapes con partite dei ’70. fastidiosi sull’attaccante e capaci di scatti d’ira imponderabili. efficaci di testa e imponenti nella prestanza fisica. si narra di una visione tutta loro del fuorigioco che necessita astrazione e follia.
fra espulsioni e estromissioni fuori rosa necessitano di un anno ulteriore per completarne la valutazione.
buon sangue non mente. sapremo valutare.

6 Fennesz Black Sea

algido costruttore di gioco. liquido ed evanescente. teorico ancor prima che stratega. dal passo cristallino e dal tocco chirurgico. uomo di impercettibile movimento eppure ciclopico e ciclonico nell’accentrarsi attorno le geometrie.
uomo di basse temperature e di gelate improvvise. freddo esecutore di punizioni dal limite e di lunghi cross per imperscrutabili accorenti. discreto e indispensabile. Fennesz, appunto!

7 Silver Jews Lookout Mountain, Lookout Sea

esterni imprendibili e irriverenti. sbruffoni e fragili allo stesso tempo. fluidificanti e irrimediabilmente attratti dalla linea di fondo, dal cross, dal tunnel e dal boato del pubblico. a metà strada fra Gigi Meroni e Willy e René van de Kerkhof (finalmente siamesi e indivisibili).
destro radente e tagliente come una stratocaster, agilità infaticabile e sense of humor da vendere.
è pronto un contratto per l’anno prossimo e quello prossimo ancora.

8 Vic Chesnutt, Elf Power & The Amorphous Strums Dark Developments

uomo antico, di vecchia scuola. di sana gavetta e imperscrutabile sorriso. uomo cresciuto nel tempo e divenuto adulto nel bel mezzo di un prato: più con le sconfitte che con i pareggi.
oggi regala assist e spazi di giuoco con inesauribile generosità, oggi, dopo tanto può farlo senza più nessun timore.
la carriera è fulgida. il futuro adesso.

9 Toumani Diabaté The Mandé Variations

punta di diamante splendente di purissima fattura. preciso e aereo, funambolico ed eccelso.
probabilmente la più pura espressione del suo genere, del suo genio e della sua capacità realizzativa. uomo umile e spirituale, uomo africano di altissima discendenza. approdato al mondo dalla parte eterea ed evanescente.
si è inventato un modo tutto suo di stare nel giuoco, semplicemente giocando!

10 Josephine Foster This Coming Gladness

il genio imcompreso, la grazia seminata nel campo. gracilità e talento. il suo essere numero 10 si estrinseca fra carta vetrata e poesia della sfera, fra rapidità e lentezza. ricorda l’insondabile Zidane senza neppure somigliargli un poco. eppure si apparentano.
forse la stella di questa stagione, l’espressione occidentale più rara e introvabile, giunta da chissà dove e destinata all’ignoto!

11 Mario Lucio Badyo

talento lusafricano preso a prestito a metà stagione dal team di T.P.Africa che ne ha tessuto sconsiderate lodi. tutte veritiere. capacità realizzative essenziali, fantasia, calore e brezza atlantica.
una squadra (un’annata) hanno bisogno dell’inatteso per volare oltre le possibilità immaginate, hanno bisogno del richiamo ancestrale del gesto, del primitivo slancio.
ma lui è anche pensatore, e matematico, e poeta, e goleador!

la squadra, come si è detto, non si cambia. le figurine sono appiccicate e non si staccano. l’anno volge al termine ed una nuova stagione incombe. molto cambierà e l’inatteso è pronto a sorprendere. ben venga.
l’unica cosa che non cambierà sarà il mister, il trainer, l’allenatore, il guru.
Bob Dylan Tell Tale Signs (The Bootleg Series Vol.8)
lascio a voi il compito di esonerarlo ed eventualmente trovarne uno migliore.

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Antony and The Johnsons The Crying Light

fermo restando che E’ Natale il 24, per chi ancora non lo sa e per chi lo dovrà sapere. fermo restando che la sensazione si ripete medesima: speriamo che passi tutto in fretta e in modo indolore, e fermo pure restando che la deriva pagana sta prendendo il sopravvento sull’ultimo barlume di sacralità natalizia. premesso tutto ciò, mi ritrovo fra le mani una strenna che fa all’uopo per un presente a chi lo vorrà o a chi ne è rimasto sprovvisto. un po’ come i ferrero cheri o i mon rocher acquistati di corsa all’autogrill. ma è quanto di meno natalizio ci si possa aspettare, anche a giudicare dalla copertina.
crying-lightAntony and The Johnsons The Crying Light (Secretly Canadian, 2009). eccolo. so che molti bambinelli gesù attendendevano questi magi da tempo. eccoli quindi accontentati. una cantica pagana e struggente a lenire dolori e leccarsi ferite. non è fra i miei pupazzi del presepe preferiti, ma è pur sempre necessario nella natività della musica d’autore tout court. lo sto ascoltando (perché l’ho scartato in anticipo e poi rimpacchettato) e lascio al seguito eventuali commenti.
ecco dunque il mio dono a chi ha voluto seguire paziente questo blog lungo tutto questo anno. prima che finisca la pagina dicembrina del calendario farò pure scendere in campo la mia formazione tipo per il 2008.
E’ Natale il 24!

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Chico Buarque Risotto Nero

anche queste, come molte altre parole che affollano questo blog, sono frutto e parziale lenimento di una instabile curiosità che mi assilla. forse più annotazioni che ragionamenti. di certo inchiesta, o come in questo caso, richiesta.
senza addentrarmi nella foltissima giungla che è la carriera di Francisco Buarque de Hollanda (per tutti Chico), vorrei però indagarne un piccolo spazio, uno sparuto metro quadro. tempo addietro mi concessi la visione di tre film documentario diretti da tre registi (Roberto de Oliveira, João Wainer, Celso Tavares), tutti inerenti la storia e la vicenda di Chico. i primi tre che fanno parte di un progetto (che sta giungendo a completamento) di dodici film sulla vita e l’opera del grande artista carioca. il terzo, dal titolo Vai Passar (2005) è girato a Roma, città che accolse Chico nel 1969 durante il suo esilio (semi)volontario mentre in Brasile imperversava la dittatura militare. nel film Chico incontra Sergio Bardotti, suo amico, autore e traduttore…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=lSxIlEYHFgs]

la canzone Risotto Nero colpì la mia appetitosa curiosità. ma ogni ricerca è risultata vana. non compare in nessuna verosimile discografia di Chico Buarque, e, a giudicare dall’arrangiamento e dall’esecuzione, potrebbe trattarsi di un provino o di qualcosa di estemporaneo inciso esclusivamente per la colonna sonora del documentario. ho trovato sparute notizie risalenti a più di un anno fa sul sito MusiBrasil. si parla di un nuovo disco di Chico per la Biscoito Fino di Maria Bethania che dovrebbe contenere il brano scritto assieme a Bardotti (purtroppo scomparso nel 2007). ma un anno passò e per ora nulla so.
qualcuno ha notizie più fresche?

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