m-blog

molto probabilmente arrivo tardi, e per ultimo, mentre il web è già rivolto altrove alla prossima next big thing, ma mi capacito solo ora della portata della cosa e soprattutto ne trovo conferma nella rubrica del valevole Valerio Mattioli di BlowUp, quella intitolata allcrackedmedias che si occupa di musica e web.
procedo per ordine e provo a spiegarmi. intanto la sigla m-blog è una contrazione della sigla mp3-blog. di cosa si tratta? sfruttando abilmente una tecnologia oramai di comune uso e infischiandosene bellamente delle leggi sul copyright stanno nascendo come funghi siti (blog) che mettono a disposizione del web tutto interi dischi in formato mp3 tramite un banale download e nella semplice forma dello sharing. e fino a qui mi pare semplice…
è bastante un sito di condivisione di files (Rapidshare o affini) e dotarsi di un’applicazione di decompressione (espansione) files che per non fare nomi chiameremo Stufflt, poichè la maggior parte di questi files avranno un formato (estensione) .zip oppure .rar. complicato? meno di quanto si pensi… magari un esempio aiuta!
tentando di unire utile e dilettevole. Loronix (Music from Brazil) è considerato uno dei più autorevoli m-blog in circolazione e si occupa quasi esclusivamente di musica brasiliana. pubblica quasi quotidianamente nuovi post (nuovi dischi) ed è collegato e linkato ad un’infinità di altri siti. ora, prendiamo il giorno 30 gennaio scorso. il disco in questione era quello raffigurato qui. splendido (non l’ho certo scelto a caso!). questo il link per giungervi. in quella stessa pagina, poco sotto i titoli del disco, c’è il link per giungere alla pagina di Rapidshare che contiene quel file (questa), e successivamente (dopo aver deciso che lo si preferirà free… almeno finchè è concesso) a questa. si attendono pochi secondi e si digita il codice alfanumerico richiesto. scaricato il file in questione lo si decomprimerà automaticamente con Stufflt e il gioco è pressochè fatto! molto più semplice a farsi che tentare goffamente (come ho fatto!) di spiegarlo! ma continuo a ritenermi un imbecille informatico e tento un’espiazione provando ad aiutare il prossimo…
ora, molti di questi siti dichiarano intenti filantropici e giustificano questo tipo di comportamento con il diritto (negato) che questi stessi dischi hanno di non scomparire, oppure di venire al più presto ristampati o, spesso, di venire per la prima volta editi su compact disc. e spesso è pure vero! tanti continuano a suggerire di comprare il disco una volta “assaggiata” la sua bontà, altri si premurano preventivamente di (auto)cassare immediatamente link e files nel qual caso venissero rivendicati diritti sacrosanti. tutto molto bello, tutto molto vogliamoci bene. la coda di paglia resta!
là fuori (o là dentro) resta una giungla. ho verificato con polpastrello che esistono centinaia di questi siti e l’intricarsi della vicenda non prevede ritorno. non solo, per quanto si sbrodolino proclami di correttezza o musically correct, io credo che oramai la frittata sia fatta, e rimettere albume e uovo dentro al culo della gallina alquanto arduo…
io sospendo il giudizio, non mi sento un colpevole e non è certo mia la colpa. a dire il vero non ho grosse opinioni al riguardo. quello che so è che basta fornirsi di un aggregatore (un Google Reader qualsivoglia) e di aggiungere una bella serie di indirizzi relativi ad altrettanti m-blog e ci vedremo recapitare quotidinamente dozzine e dozzine di uova fresche sui nostri desktop.

Reggae? You & Me in a Jamboree!
Bossa? BossaBrasileira (formidabile, mi si consenta!)
Post-Punk e dintorni? 7″from the Underground
World? Etno e dintorni? WeLoveMusic
Avant? CageDream
Musica perduta nel tempo? Lost in Time
Black e dintorni? Milk Crate Breaks
Psychedelic Sound? Garden of Delights
Acid Folk? Prog? Peppermint Store
Swing? Singin’ & Swingin’
Free Jazz? pharaosdance

…aggiungo anche il più sacrosanto dei de gustibus e l’altrettanto e doveroso chi più ne ha più ne metta.
quello che so è che qualcuno ha perduto una guerra ed io non ho sparato! quello che so è che ci sarà una Norimberga e io non ho puntato indici su alcuno! io sono antimilitarista, pacifista e disertore!
ho solamente un insaziabile bisogno di musiche e non posso viverne senza.
e se questa è una colpa che io sia giustiziato…

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Big Joe and Phantom 309

…well now, it’s story time again!
così Tom Waits introduce il brano scritto da Tommy Faile e portato al successo da Red Sovine nel 1967. sto parlando di Nighthawks At The Diner, sto parlando di quel disco, e sto parlando in particolare di quella canzone che da troppi anni mi accompagna. da così tanti da non poter fare a meno di parlarne qui.

eviterò di parlare di Waits. materia troppo immensa (si dice: troppo immensa?) per questo spazio e per la mia capacità affabulatoria. piuttosto sarà bastante parlare di un solo disco, o meglio di una sola canzone. nulla più…
il disco intanto è di quelli obbligatori, come la licenzia media, come il battesimo per chi ci crede.
Nighthawks At The Diner, 1975, Elektra/Asylum. citazione doverosa al più noto capolavoro di Edward Hopper, registrazione live seppur in studio previa sistemazione di ogni minuzia tecnica e di qualche fortunato astante (che partecipa commosso). e la qualità tecnica e sonora sta lì a confermare. tutte composizioni originali, tranne una, appunto quella. ballata struggente, archetipo dello storytelling, road song e abbastanza ghost-dark folk da assurgere al ruolo di classico. interpretazione eccelsa, manco a dirlo…
tralasciamo bolse chiacchiere e cediamo parola e suono a chi di dovere…

inevitabile coronare il tutto con il testo, necessario per comprendere l’immaginifico, l’onirico della storia e il meraviglioso biascicare del Waits, quel prendersi il testo sotto braccio e stropicciarlo come un giornale o una camicia sgualcita…

I was out on the West Coast, tryin' to make a buck
And things didn't work out, I was down on my luck
Got tired a-roamin' and bummin' around
So I started thumbin' back East, toward my home town.
Made a lot of miles, the first two days
And I figured I'd be home in week, if my luck held out this way
But, the third night I got stranded, way out of town
At a cold, lonely crossroads, rain was pourin' down.
I was hungry and freezin', done caught a chill
When the lights of a big semi topped the hill
Lord, I sure was glad to hear them air brakes come on
And I climbed in that cab, where I knew it'd be warm.
At the wheel sit a big man, he weighed about two-ten
He stuck out his hand and said with a grin
"Big Joe's the name", I told him mine
And he said: "The name of my rig is Phantom 309."
I asked him why he called his rig such a name
He said: "Son, this old Mack can put 'em all to shame
There ain't a driver, or a rig, a-runnin' any line
Ain't seen nothin' but taillights from Phantom 309."
Well, we rode and talked the better part of the night
When the lights of a truck stop came in sight
He said: "I'm sorry son, this is as far as you go
'Cause, I gotta make a turn, just on up the road."
Well, he tossed me a dime as he pulled her in low
And said: "Have yourself a cup on old Big Joe."
When Joe and his rig roared out in the night
In nothin' flat, he was clean out of sight.
Well, I went inside and ordered me a cup
Told the waiter Big Joe was settin' me up
Aw!, you coulda heard a pin drop, it got deathly quiet
And the waiter's face turned kinda white.
Well, did I say something wrong? I said with a halfway grin
He said: "Naw, this happens every now and then
Ever' driver in here knows Big Joe
But son, let me tell you what happened about ten years ago.
At the crossroads tonight, where you flagged him down
There was a bus load of kids, comin' from town
And they were right in the middle, when Big Joe topped the hill
It could have been slaughter, but he turned his wheel.
Well, Joe lost control, went into a skid
And gave his life to save that bunch-a kids
And there at that crossroads, was the end of the line
For Big Joe and phantom 309
But, every now and then, some hiker'll come by
And like you, Big Joe'll give 'em a ride
Here, have another cup and forget about the dime
Keep it as a souvenir, from Big Joe and Phantom 309!

non debbo aggiungere molto altro. ho solamente fornito tutti i presupposti per un ascolto e un’alta storia da narrare. a quella canzone debbo molto, portarla qui era quantomeno doveroso. ma per chi amasse o volesse saperne di più consiglerei di perdere altri 4 minuti e ascoltare la versione originale del 1967. evocativa, quasi perfetta, esattamente come l’immaginavo fino a qualche ora fa. annotazione in agenda: Red Sovine!

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=gtxU1tddH3Q&feature=related]

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Rabih Abou-Khalil Songs For Sad Women

oggi qua fuori pare ci sia solo nebbia.
è un buon tempo per viaggiare restando dietro le finestre e immaginando il possibile paesaggio che la nebbia nasconde. Emilio Salgari era un viaggiatore da scrivania, da pantofole, da poltrona. ambientò i suoi romanzi e le sue avventure in luoghi che non visitò mai. allo stesso modo e per altre vie ricorro allo stesso stratagemma. da questa sponda del mediterraneo la parte mediorentiale appare lontana, distante. eppure un gioco di correnti e moli, attracchi e viaggiatori deve aver creato una fitta rete di attinenze e ritorni oramai inestricabile.

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Rabih Abou-Khalil è un virtuoso dell’oud, antico liuto arabo. libanese di nascita e cosmopolita per vocazione. le sue collaborazioni hanno spaziato dal jazz alle avanguardie, passando per classica e rigida vocazione tradizionalista del suo paese. e forse proprio da questo suo avvicinarsi alle culture musicali europee nasce una musica che alla sua terra fa ritorno, ma dopo un pellegrinaggio fra i territori dell’improvvisazione e della composizione armonica d’avanguardia.

Songs For Sad Women (una menzione particolare al titolo) esce per l’etichetta tedesca Enja. 7 composizioni originali (dai titoli anch’essi curiosi) scritte da Abou-Khalil e impreziosite dalla presenza di due strumenti quantomeno inusuali. il duduk (antico oboe tradizionale armeno) suonato dal maestro Gevorg Dabaghyan e dal serpent (strumento ad ancia del periodo medievale) di Michel Godard dal suono sinceramente ancestrale e misterioso. Jarrod Cagwin alle percussioni.

viaggi immaginati dunque. ipotesi di tepori e vapori, di lontananze da coprire nello spazio privato di un ascolto, di un’ambiente oscurato di luce. si diceva della possibilità di vedere oltre una nebbia che ottunde e che ridisegna la superficie del paesaggio. oggi è un giorno perfetto per allontanarsi fra la coltre di acqua e anice, in viaggio dentro la bottiglia d’orzata verso un suono e una suggestione densa.

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Heron

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chissà quanti altri dischi come questo restano nascosti nel passato in attesa di venire riascoltati (scoperti), compresi ed accolti come pellegrini sperduti dell’epopea della musica del ‘900? mi auguro molti!
1970. Appleford, Berkshire.
nella campagna inglese, dietro ad una residenza di campagna (Manor Farm), quattro ragazzi convincono i manager dell’etichetta Dawn (sussidiaria della Pye) a trasportare un registratore mobile per incidere quello che sarà il loro primo disco. la scusa parve essere inerente ad una mancanza d’ispirazione procurata dallo spazio angusto di uno studio o piuttosto da un disagio claustrofobico e crescente che inficiava la già fragile vena creativa del gruppo. riuscirono nell’intento, nacque l’omonimo Heron.

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Roy Apps, Tony Pook, Gerald T. Moore, Stephen Jones i nomi dei quattro formatisi un paio di anni prima nella cittadina di Maidenhead. il folk e la poesia come sogno, Dylan e la Incredible String Band come mentori. si conobbero frequentando il Dolphin Folk Club e di lì a poco possedevano già un loro stile e una loro ragione sociale. prima un singolo e poco dopo l’occasione del debutto su long playing. probabilmente la tecnica di registrazione va annoverata fra i primi esperimenti del genere e di certo antesignana di molto che accadrà dopo con intenti assai più programmatici. di fatto resta sbalorditivo come questo approccio acustico degli strumenti si mescoli con il suono della campagna inglese, fra cinguetii e stormir di fronde, chitarra, piano e mandolino. un suono “aperto” (mi si conceda), dilatato. un folk costruito su melodie immediatamente “appiccicose” e attitudine corale. una giusta equidistanza fra folk acido, canzone d’autore americana e pop a venire.

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13 piccoli gioielli di ingenuità e semplicità. un folk gentile, agreste e pastorale. l’altra faccia pulita della luna di Nick Drake. perchè se proprio si volesse procedere per assonanze e paragoni si dovrebbero tirare in ballo i primi Garfunkel & Simon o più probailmente Crosby, Still, Nash & Young in salsa inglese. Cat Stevens che guarda da dietro i vetri della magione. organo elettrico e sovrapposizione di voci, e poi un mandolino da Appalachi e ballate a rischio melassa dolcissima. gradevole, godibile e colpevolmente omesso da molte storiografie o compilazioni con pretese di completezza. il disco non ebbe tutta la fortuna che avrebbe meritato, forse perchè fuori tempo massimo, forse perchè i tempi già erano maturi per altro. seguirono altri dischi ma la stagione parve prematuramente finita e l’oblio pronto ad accoglierli. oggi un’etichetta da loro fondata, la Relaxx, tenta di preservarne memoria e materiali.

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a quell’etichetta si può fare riferimento per acquisti, ad altre e ben più piratesche maniere si può ricorrere altrimenti oppure rincorrere come un segugio una versione in vinile che presumo costosissima ma che porta sul retro in bella misura questa foto che da sola immortala la piccola meraviglia che furono gli Heron.
io, come sempre, consiglio…

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Henri Salvador

un uomo come Henri Salvador lo si saluta con un sorriso…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=OcOktKi_6V4&feature=related]

ripensando a certe gags…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=6gl-7fbIrpQ]

a certi suoi personaggi della sua e della nostra immaginazione…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=OXB_d6LSo3k]

al suo sguardo che non hai mai smesso di essere infantile…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=Ec5e3d-gd0A]

al suo essere cittadino di tutto il mondo…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=9JEisfW_5ik]

eccezione preziosa della televisione italiana…

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trasformista…

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e squisito musicista…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=lNtT6iVUy7E]

in quel volto e in quelle rughe molta della meraviglia del mondo.
un sorriso per Henri Salvador!

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=tKybgXkiy_U]

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…dove si racconta di come Screamin’ Jay Hawkins e il suo Constipation Blues abbiano a che fare con Serge Gainsbourg e il suo Evguénie Sokolov!

mi è toccato parafrase uno di quei meravigliosi titoli con i quali Miguel De Cervantes introduceva i capitoli del suo Don Chischiotte della Mancia per sdrammatizzare un poco e magari usare la grandezza della sua prosa come paravento alla piccola e volgare materia di cui mi appresto a trattare.
argomento goliardico ma pur sempre musicale. anche Rabelais avrebbe fatto all’uopo!
vado dunque a principiare….
non so quanti conoscano Screamin’ Jay Hawkins e un poco della sua carriera bizzarra e irriverente. personaggio sopra le righe e controverso, bluesman finissimo e geniale non fosse altro che per una sola perla bastante ad impreziosire una carriera tutta. I Put a Spell on You è una di quelle canzoni che chiunque avrebbe voluto scrivere, e anche se il suo autore la strapazzava e la nascondeva dietro atteggiamenti e travestimenti al limite del paradossale, resta immensa e perdurante a fondare la storia del rock e del blues tutto. ma il nostro è, ahimè, celebre anche per l’altrettanto nota Constipation Blues dove si tenta di affiancare alle tante sofferenze umane anche quelle private e inenarrabili che lascio introdurre dall’autore stesso…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=elmMp8uSaUE]
probabilmente Serge Gainsbourg è assai più noto ai più ma altrettanto scomodo e irriverente quanto il musicista americano di cui sopra. celeberrime le sue canzoni tanto quanto le provocazioni in esse contenute, da Je T’Aime… a Lemon Incest dove vagheggiava di relazioni proibite con la giovanissima (e stonatissima!!!) figlia Charlotte! ora, di certo il nostro cugino d’oltralpe trattando di trasgressioni e provocazioni non si fece scappare l’argomento assai censito e innominabile. ma non si limitò alla sua arte applicata al pentagramma, ma scrisse un vero e proprio libro (primo ed unico) sulla materia. il titolo originale era Evguénie Sokolov da noi tradotto in Gasogramma Autobiografia Iperastratta. era il 1980. il buon Gainsbourg rigettava e battezzava il decennio immondo che andava a cominciare con la sua satira feroce e il suo sarcasmo contro tutto e tutti. libretto agile da leggersi tutto d’un fiato (oops!), autobiografia traslata dove si racconta di un’artista (Sokolov) che trasforma un’imbarazzante problema fisiologico nell’ispirazione e concepimento della sua stessa arte. non mi dilungo per non togliere il piacere della lettura a chi vorrà.
annoto però semplicemente che un anno più tardi fece la sua comparsa nel disco Mauvaises Nouvelles des Etoiles un brano con lo stesso titolo del suo romanzo. diciamo subito che quel brano non ha cambiato e non cambiarà la storia della musica, ma l’integerrima coerenza con il suo alter ego cartaceo gliela si dovrà pur attribuire. rimando a questo video, anche se è alla parte sonora che vorrei si ponesse attenzione.

i due discorsi si assomigliano assai e per molto tempo sono restati in due compartimenti stagni della mia memoria e lì sarebbero restati ancora per lungo se non fosse che una scoperta ha improvvisamente riportato il tutto ad una strana ribalta. i due si incontrarono in una esibizione assurda e quantomeno balorda. e parvero pure divertirsi parecchio. questa jam immortalata in questo video chiude il cerchio sul discorso immondo e nauseabondo e strappa un sorriso assieme al mio autocompiacimento di essere arrivato all’esplicazione dell’assunto iniziale senza citare fatti, nomi e gesti che non sarebbe elegante menzionare…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=ZvNO0BfBecc]

Screamin’ Jay Hawkins & Serge Gainsbourg Constipation Blues

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Erykha Badu New Amerykha

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26 febbraio. questa la data! tanto (poco) si dovrà aspettare per poter ascoltare il nuovo disco di Erykha Badu.
e per stavolta queste righe saranno più di desiderio che di ascolto, più di sospensione del giudizio che d’altro, inganno dell’attesa e conto alla rovescia! perchè il disco io mica l’ho sentito!

badu_honey_single.jpgè bastato un singolo per produrre salivazione eccessiva e ansia da ascolto. Honey prodotto dalla crew di 9th Wonder che già curò e produsse il precedente Worldwide Underground nel (lontano) 2003. sempre Motown/Universal a scucire e contare i danari e sempre medesima antemprima in grande stile. pochissime notizie in anticipo, nessunissima fuga di files dagli studi e quindi all’oggi muli scarichi e cercatori d’anime col cuore infranto.
il video però gira ed è una delizia di citazioni e rimandi (divertente individuarne quante più se ne può!), tributi e vari respect distribuiti come noccioline allle zoo!

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=HNJt5ADHzIY]

ma in rete, menzionato fra i vari collaboratori e produttori, il nome di Madlib l’ho letto eccome! esatto, proprio lui! e come nei desideri delle fiabe infantili i sogni si realizzano. credo ci sarà da restare a padiglioni aperti!
non resta che attendere e magari trastullarsi fra la miriade di siti che circondano l’aura mistica che la cantante texana ha amato costruirsi attorno, fra myspace e baduworld, fra .com senza e con trattino, nel bel mezzo di un tour che a quanto pare è già partito sovvertendo l’ordine dei fattori (meglio dire dei coloni)…

tel-aviv3.jpg

un’assaggio azzimo di ciò che sarà il live e una splendente Badu in conferenza spiega un poco del disco, della sua genesi fra freak attitude e incertezze del titolo, potrà servire a lenire un poco le inquietudini dell’attesa!

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=DWpnDK5lIww&feature=related]

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Sexy Sadie

da troppo tempo mi arrovello alla ricerca del giusto modo per affrontare in questo luogo un qualsivoglia discorso a proposito del White Album dei Beatles.
disco fondamentale per la mia esistenza! senza scherzi! apparso al mondo proprio un mese scarso prima della mia comparsa e dunque “generazionale”, coevo e in qualche modo fraterno. ma la materia è immensa da far tremare i polsi, la maestosità del disco può annichilire e uno dei tre gradini del podio assoluto dei miei ascolti per sempre occupata!
come approcciarsi dunque?
poi ieri aprendo il giornale apprendo della morte del Maharishi Mahesh Yogi alla tenera età di 91 anni e i miei gangli si orientano inevitabilmente su Sexy Sadie. dunque ecco l’illuminazione (grazie Yogi!): tratterò a tempo debito ognuna di quelle 30 canzoni e da quest’ultima partirò. forse l’unico modo possibile o almeno l’unico che in questo momento mi sovviene.
Sexy Sadie si sarebbe in realtà dovuta intitolare Maharishi what have you done, you made a fool of ev’ryone perchè esattamente pensando a lui era stata scritta. quando John Lennon lasciò alquanto deluso Rishikesh e l’India aveva già in tasca il testo e un pugno di accordi pronti all’uopo. la sua delusione per alcuni aspetti sin troppo materiali dell’attività dello Yogi e per quel suo voler entrare nella spiritualità della giovine Mia Farrow dall’ingresso sbagliato lo convinserò del fallimento di quell’esperienza mistica. il piccolo George rimase ancora un poco, Paul pareva più divertito e ispirato che altro e Ringo credo fosse laggiù per puro turismo a giudicare dalle espressioni che immancabilmente sfoderava nelle foto del periodo.

il titolo fu dunque sostituito da Sexy Sadie per evitare querele e questioni legali. perchè, se sono i Beatles a sputtanarti, non è che la notizia passi del tutto inosservata e a giudicare dall’impero che il Maharishi aveva in mente di fondare (ad oggi il valore dei suoi possedimenti si aggira sui 300 milini di dollari) si pensò bene di evitare qualsiasi controversia. il messaggio comunque passò e ad oggi che sono scomparsi entrambi i due “litiganti”, la canzone se la gode!
perchè a quella sarà bene tornare! il testo dunque non risparmiò tutto il sarcasmo lennoniano e l’artificio di sostituire quel nome non fa altro che amplificare l’invettiva amara e divertita. musicalmente mi ha sempre ricordato una blue eye soul ballad con quei cori a fare da irriverente controcanto agli spigoli della voce di John e al suo pianismo percussivo, e poi i soliti bridges tipici della scrittura di Lennon con quelle aperture maggiori verso ipotesi oniriche. mi accorgo che sto tentando una critica tecnico-musicale ad un brano dei Fab Four e che Yogi me ne scampi! come oso? non mi permetterei mai!
meglio lasciare spazio al video (esaustivo) e rallegrarsi di questo escamotage che mi permetterà finalmente di parlare del più grande disco del più grande gruppo che la storia della musica ricordi!

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=giDbi2XTcyA]

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Django Reinhardt In Solitaire: Complete Recordings for Solo Guitar 1937-1950

penso davvero sia entusiasmante fare scoperte come queste, seppur con un leggero ritardo temporale. nel 2005 la Definitive Records (sia lodato quel catalogo) distribuita dalla Disconforme manda alle stampe una serie di registrazioni solinghe del grande chitarrista Django Reinhardt. In Solitaire: Complete Recordings for Solo Guitar 1937-1950 è una compilazione di 15 brani in rigoroso ordine cronologico di esecuzioni solitarie del grande gitano. emissioni radiofoniche, provini per editori, improvvisazioni in studio e live, fino a due bozze per una colonna sonora di un film mai portato a termine ed un acetato prezioso quanto raro.
saggi di un chitarrismo virtuoso che affonda le radici nel mondo tutto, una tecnica malata inguaribilmente di dromomania come il popolo zingaro che gli ha dato i natali. Echoes Of Spain è una fotografia sbaidita andalusa, Improvisation no.7 a me ricorda indiscutibilmente le Bachianas Brasileiras di Heitor Villa-Lobos e poi non sarà difficile intuire una chanson francaise riletta e abbellita, echi classici di un barocco moderno assieme al jazz pensato e concepito fuori da New Orleans.

ma per la maggior parte sono composizioni che portano il nome di improvisation. numerate, riprese in una take alternativa o spezzate in due parti. veri e propri saggi privati, assaggi a temperare le corde, rallentamenti e tentativi in progress di una intensità spaventosa. pare di sentirlo mugugnare e contorcersi dietro il microfono come fece Glenn Gould molto dopo, lo si avverte quasi rumorosamente pensare e scoprire, percorrere le traiettorie impervie dell’esecuzione istantanea e dell’immaginifico della creazione. oggi la si chiamerebbe attitudine lo-fi, non fosse altro che per quel fruscio del tempo che contornia tutte le registrazioni fino al “friggione” definitivo dell’acetato di Two Improvised Guitar Chorus, ma è nel concepimento ancor prima che nella tecnica di registrazione che risiede la vera modernità di questi soliloqui preziosi e imperdibili. di quanti altri musicisti si desidererebbe carpire il momento privato della nascita di un pattern, di un tema o lo sviluppo di un andamento armonico? per Django un poco di tutto questo è praticabile. e chiudo con una breve considerazione a denotare una certa distanza di queste registrazioni da quell’altra mirabolante grazia che fu il Quintette du Hot Club de France assieme a Stéphan Grappelli, distanza evidente in uno spazio sonoro che andava rarefacendosi attraverso un percorso musicale fra virtuosismo e ricerca prematuramente interrotto.
purtroppo (e per fortuna) non esistono immagini di quelle improvvisate solitudini e dunque con quel quintetto mi accomiato e rinnovo l’implicito consiglio.

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=ebaYm65RC5Q]

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Guess Who? Carol Kaye

come promesso mi accingo a rispondere.
Carol Kaye è la risposta!
chi è Carol Kaye è la domanda seguente.

Carol Kaye è una musicista (bassista e chitarrista) americana nata nello stato di Washington nel 1935. una session musician che ha vissuto l’epoca d’oro del rock e del pop dentro gli studi discografici della West Coast, ’50, ’60 fino a giungere ai ’70 e ancora oggi si spende nell’attività didattica e promozionale. qui e qui info accurate sulla sua biografia e sulla sua carriera.
i nomi prestigiosi li ho già elencati nel post precedente. pensarla in studio con Frank Zappa (alla 12 corde) e in quella linea di basso nascosta dietro Light My Fire dei Doors, oppure immaginarla in molte produzioni del santone del wall of sound (Phil Spector) mette un poco i brividi. e se i Beach Boys non saranno proprio ricordati come funanbolici maestri di tecnica, ecco che la cara Carol faceva all’uopo e incideva per loro linee di basso in tutto Pet Sound.
l’amico Checco (peraltro artefice della rivelazione) mi assicura essere grandissima musicista in grado di possedere una tecnica e un suono che ha fatto il giro del mondo influenzando gente come McCartney o Larry Graham (bassista di Sly & The Family Stone). e scusa se è poco, aggiungo!

e magari vederla oggi come una nonna con a tracolla un vintage Fender può far sorridere, ma se si ascolta per esempio questo ci si rende conto che non è di uno scherzo che si tratta. oppure in rispettabile compagnia in questo video.
rimando al suo sito per ulteriori curiosità e spigolature varie e vi lascio con questo…

[youtube=http://it.youtube.com/watch?v=7OU7Nezg7Ls&feature=related]

il basso (formidabile) è naturalmente di Carol Kaye!
tanto vi dovevo!

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