Twelve/Patty Smith

stavo cercando di individuare quanti possibili artisti della scena rock mondiale potessero cimentarsi oggi in un album di 12 covers di altrettanti classici senza uscirne schiacciati, a brandelli e con le ossa frantumate… non me ne sono venuti in mente molti, anzi a dire il vero nessuno! riprendere in mano veri e propri classici di Beatles, Rolling Stones, Dylan, Jefferson Airplane, Stevie Wonder e Neil Young, Paul Simon e Doors fino a giungere ai Nirvana (manca qualcuno?) ed uscirne a testa alta e quasi glorificati non è da tutti. Patty Smith pare riuscita nell’intento! e se lo ha fatto è anche grazie ai musicisti di cui si è potuta circondare.

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insieme al suo compagno Lenny Kaye, ci sono i fedelissimi Jay Dee Daugherty e Tony Shanahan e poi ad impreziosire il tutto le collaborazioni con Flea, Rich Robinson dei Black Crowes e l’immenso Tom Verlaine. e poi il figlio della stessa Smith, Walker, insieme al commediografo Sam Shepard e John Cohen ad aggredire a colpi di plettro su mandola e banjo il classico dei Nirvana. il suono è proprio ciò che lascia estasiati, l’amalgama essenziale di acustico ed elettrico che circonda la voce oramai perfettamente matura della sacerdotessa maudit che ha varcato la soglia delle sessanta primavere, la sua capacità espressiva e la sua drammaticità nel ritornare innocente su capolavori che appartengono alla storia di tutti noi. e se due covers resero gloria (sic!) e fama mondiale nel passato ad una rinnovata dozzina lei stessa si affida per il suo undicesimo disco. e se ci si potrebbe rammaricare della presenza di Everybody Wants To Rule the World dei Tears For Fears, è forse bene salutare con riverenza una rilettura di Gimme Shelter da antologia. il suo sito annuncia un tour estivo che toccherà anche l’Italia (7 luglio, Sogliano sul Rubicone).

Bentornata…

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F.U.N.K.

da qualche parte a Homestead, nelle vicinanze di Pittsburgh (Pennsylvania) vive una signora di colore che ha superato da poco la sessantina e che risponde al nome di Betty Mabry. non ci sarebbe nient’altro da aggiungere, se non fosse che un tempo, questa stessa signora, sposò un “celebre” trombettista jazz e che, come è presumibile, ancora oggi su una parte abbastanza nascosta del suo corpo è tatuata una frase eloquente e definitiva che riguarda la storia della musica.

il “celebre” trombettista portava il nome di Miles Davis e convolando a nozze omaggiò la signora del suo cognome. Betty Davis, dunque! lei aveva 23 anni, lui 42. non solo, la ritrasse nella copertina del suo disco Filles de Kilimanjaro e le dedicò un brano nello stesso: Mademoiselle Mabry. il matrimonio resistette poco più di un anno, giusto il tempo di permettere alla signora di trasmettere al marito la passione per la moda di fine decennio, per la musica di James Brown, Sly & the Family Stone e per Jimi Hendrix. alcuni critici sostengono senza timore di errore che fu in quei giorni che maturò la svolta elettrica di Davis. stiamo parlando di dischi come In a silent way, Bitches Brew e On the corner. quando il termine “seminale” non è usato a sproposito insomma. in ogni caso nel ’69 divorziarono perchè, come afferma lo stesso Davis nella sua autobiografia: she was too young and wild! inoltre c’era più di un sospetto che la passione di Miss Davis per Hendrix non si limitasse all’ascolto dei dischi.

negli anni successivi Betty Davis continuò la carriera di modella e sbarcò come prima “manquenne d’ebano” a Londra senza mai dimenticare la sua passione per la musica e le frequentazioni dello star system dell’epoca. sedusse e abbandonò il pallidissimo Robert Palmer e con un pugno di canzoni se ne ritornò a New York nel 1971. trovò finalmente le giuste collaborazioni e nel 1973 fece il suo debutto discografico con l’omonimo Betty Davis. nello spazio di due anni incise i successivi They Say I’m Different e Nasty Gal. sono tre dischi fondamentali, non sto scherzando. roba che scotta, il funky nella sua più alta accezione, una voce che graffia, linee di basso che sbattono in pancia e ritmo pulsante. pedali wha-wha pigiati a fondo e testi un po’ troppo espliciti per passare inosservati di fronte alla censura. qualcosa di torrido e vietato ai minori, con Betty che ansima, ruggisce e pare sculettare fuori dal disco, contorcersi, ammiccare e supplicare l’amante di turno.

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verso la fine dei ’70 una crisi depressiva allontanò la Davis dal music business. ci tornerà nei ’90, ma diciamo, con un eufemismo, che i bei tempi erano già andati. pare che nascoste in qualche sala di registrazione ci siano alcune sessions insieme all’ex marito e ad alcuni musicisti del circuito Hendrix incise verso la fine dei ’60… le attenderemo come un’epifania.

sembra che nello slang degli afroamericani il vocabolo funk (ed il suo aggettivo funky) indicasse l’odore sprigionato dal corpo in stato di eccitazione, e per estensione poteva significare “sexy”, “sporco”, “attraente” ma anche “autentico”, cioè libero da inibizioni.” (Wikipedia)

Betty Davis è il FUNKY! ah, dimenticavo del tatuaggio… il testo recita così:

THIS ASS INVENTED FUSION

(non sarà difficile immaginare dove esso sia collocato)

F.U.N.K. da Nasty Gal, 1975 (premere play e cercare di restare immobili)

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Bohumil Hrabal (prima parte)

ripenso spesso con approvazione ad un concetto ateo a proposito della memoria dei defunti e all’idea di esistenza. recita più o meno così: “esisteremo, oltre la morte, finchè non scomparirà l’ultima persona che ci ha conosciuti.” per questo, adesso che anche Egon Bondy è morto, le vicende narrate nel libro Un Tenero Barbaro smetteranno di essere ricordi e memorie per divenire definitivamente letteratura. Bondy aveva sempre smentito le affermazioni e le goffe figure che il suo amico Bohumil Hrabal aveva costruito attorno al suo personaggio, i capricci e le sfuriate, le inverosimili prese di posizioni e le litigate protratte fino all’alba. le aveva smentite tutte, tranne quella che recitava così… I vagabondi del Dharma sono a Praga! E io non ne so nulla… ma proprio ora tutto questo non ha più senso di essere, ora che quella sua boutade diventerà il prezioso incipit messo ad esergo ad uno dei libri che mi è più caro.

Bohumil Hrabal scrisse quel libro solamente nel 1973 (poi pubblicato come samizdat nel 1975), ma le vicende riguardano gli inizi degli anni ’50 in quella stagione mitica in cui l’inasprimento delle condizioni imposte dal regime imposero ai nostri “eroi” la ricerca disperata di un’alternativa nella vita e nell’arte. tutto ruota intorno ad una casa nella periferia di Praga, nel quartiere di Libeň. l’indirizzo, in qualche modo celebre, Na hràzi 24 portava ad una casa abbarbicata alla fine di una scalinata e stretta fra le altre case del quartiere. in quella casa sull’argine dell’eternità, Hrabal viveva insieme a Vladimir Boudnìk. si erano conosciuti qualche anno prima alle acciaierie Kladno dove entrambi erano operai specializzati. nacque una delle più esplosive ed intense amicizie che la letteratura ricordi.

“Dunque, a quel tempo io e Vladimir strillavamo l’uno contro l’altro, ognuno in piedi sulla soglia della propria stanza, ci versavamo addosso il secchio della risciacquatura, ci sbattevamo in faccia il fegato e gli intestini che l’un l’altro ci eravamo strappati, continuavamo a sbraitare non solo da dietro le porte sbattute, attraverso i muri, ma anche al di la’ di interi isolati, da Zickov a Liben e ritorno, senza sapere che stavamo andando l’uno a destra e l’altro a sinistra. A quel tempo era meglio che Vladimir nascondesse la mia accetta e che io mettessi sotto chiave il suo coltello da cucina. Ma sbaglierebbe chi pensasse che non ci volevamo bene! Ventiquattrore dopo un pogrom psichico ricominciavamo a riempirci di birra e Vladimirek affascinava i bevitori e, con le sue delizie fatte di gesti e di parole, avvinceva anche quelli che stavano davanti al banco in pantofole, quelli che erano venuti a portarsi una brocca da portar via. E poi camminavamo per la periferia serale e notturna, tornavamo lentamente ai problemi artistici che dentro di noi rimanevano sempre aperti, contemplavamo Praga da Prazacka o dallo Slosberk, nei nostri occhi brillava il riflesso della Praga notturna, affinche` dopo, nella stanza di Vladimir, potessimo saziare quegli sguardi giganteschi, inafferrabili, rivolti alla metropoli agghindata di luce elettrica… lo facevamo guardando nel microscopio di Vladimir, che ci entusiasmava con il movimento regolare della materia miliardoedrica. E la mia accetta si trovava di nuovo nell’ingresso e il coltello da cucina di Vladimir era posato amichevolmente sul suo tavolo. A quel tempo, quando Vladimir durante la notte scriveva il suo diario, che somigliava ad un registro operatorio, al libro in cui si prende nota della posizione degli intestini, cosi’ come viveva con me Sull’argine dell’Eternita’, al numero 24, proprio cosi’, allo stesso modo, spingeva il suo ritmo d’amore e di rabbia non solo contro i suoi colleghi della scuola d’arte, ma anche contro sua madre e contro gli operai con cui si lavorava e contro i suoi superiori. Il movimento dei suoi rapporti con la gente si poteva rappresentare come una sinusoide, alta marea e bassa marea, nero e bianco. Pazzamente amava e terrorizzava chiunque incontrasse, perche’ preferiva apparire un po’ matto piuttosto che piccoloborghese. Il poeta Egon Bondy, che veniva spesso a trovarci, ogni volta che Vladimir gli leggeva qualcosa dal suo diario, pestava il pavimento con le suole delle sue piccole scarpe e gridava: Porca puttana! Prima di trovare un’immagine cosi’, io mi devo scavare tutta la piazza con le unghie! E questo qui ne tira fuori a centinaia dal cappello! Vladimir, per la miseria! Scriva poesie, porca puttana! E Vladimir rideva candidamente, i boccoli gli cadevano sulla fronte, rideva ed era raggiante di felicita’, perche’ c’erano momenti in cui Vladimir era accessibile alla commozione e alla lode, sembrava un bambino che abbia appena visto l’albero di Natale illuminato. E dato che Bondy aveva sempre paura che la sera chiudessero tutte le birrerie, per cautelarci cominciavamo ad andare a prendere secchi e catinelle di birra fin dal pomeriggio.”

negli stessi anni in cui si svolgeva questa vicenda, sull’altra sponda dell’atlantico, esplodeva un fenomeno che avrebbe cambiato la letteratuta del ‘900, ma altro non era che una generazione di poeti e bevitori, viaggiatori e sognatori folgorati dall’ansia della vita e insaziabili nell’aggredire l’esistenza alla stessa maniera dei loro coetanei praghesi. Jack Kerouac, certo, ma io preferisco Hrabal! e se la meravigliosa follia di Neal Cassady lascia ancora stupiti e giusto sapere che qualcun altro non era da meno…

“Quando creava, di regola Vladimir lavorava nudo. Da un lato amava la nudità, ma soprattutto si accostava alla satinatrice o alla lastra di rame proprio come all’atto dell’amore. Gradualmente, mentre passava all’eccitazione erotica, e dunque anche creativa, Vladimir distribuiva sempre il tempo in modo che tra l’incisione e il ferimento della lastra matrice passasse quel bellissimo arco teso tra l’erezione e l’eiaculazione, Quando lavorava con la satinatrice, cospargeva le grafiche del suo seme. La viscosità di un tenero tegumento sessuale lubrifica tutte le sue opere grafiche…”

foto: Egon Bondy, Bohumil Hrabal, Vladimir Boudnìk e una sua opera.

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Taraf de Haïdouks

esiste un villaggio in Valacchia, nel sud della Romania, che porta il nome di Clejani. molto probabilmente sarebbe dimenticato dagli uomini e da una qualsivoglia divinità se non fosse che in quel luogo si nasconde uno dei tanti tesori musicali preziosi al mondo e patrimonio dell’umanità tutta. Taraf de Haïdouks è il nome di questa meraviglia. Taraf è parola araba che intende il concetto di ensemble musicale o vocale di dimensioni variabili, mentre la denominazione Haïdouks vuole onorare gli antichi banditi dell’epoca feudale rumena. ed effettivamente il gruppo è realmente composto da un numero imprecisato di persone, quasi tutte imparentate fra loro come le fronde dell’albero genialogico dove generazioni si susseguono e si precedono nel gioco antico della vita. il villaggio è l’origine, il luogo e la culla della tradizione e il tempio dove annidano i misteri dell’oralità e dell’antico pellegrinare nomade. chi non ha un villaggio nel cuore, non può essere cosmopolita: e loro, da tempo, sono cittadini del mondo.


come definire la loro musica? probabilmente si dovrebbe parlare di influenze slave, turche e di certo bulgare, di lunghe ballate ipnotiche dove si incendiano violini e fiati, fisarmoniche e cymbalon. di una musica in costante movimento come lo deve essere stato un tempo il popolo di cui sono eredi. la tradizione salvaguardata dagli anziani che si mischia con il virtuosismo dei giovani, con le tecniche vocali originarie del villaggio, con le danze e le funzioni sociali dei riti. le strofe narrate dove le voci si rincorrono nell’arcaica forma della chiamata e risposta. raccontano storie a sfondo epico, mitico o satirico, storie di amori e tradimenti, di viaggiatori e di ricoveri di fortuna, dell’eterna rivalsa del popolo sui sovrani. le storie di tutti i giorni, fino a giungere a quella dei dittatori che vennero giustiziati in diretta televisiva.

il loro “primo” disco ufficiale uscì nel 1991 per merito della etichetta belga Crammed e da allora è stato un susseguirsi di successi internazionali (discografia) e di collaborazioni importanti. chi ricorda la sbornia di successo che ottenne Goran Bregovic con le colonne sonore dei film di Kusturica e la successiva riscoperta del tesoro perduto della musica balcanica, la tardiva rivelazione di meravigliosi ensemble come la Fanfare Ciocarlia o la Kocani Orchestra, o le ultimissime infatuazioni per Beirut, A Hawk and a Hacksaw o di Matt Elliott non dovrebbe perdere l’opportunità di sapere che tutto questo non è dal nulla che proviene e che è giusto assecondare proverbi che propongono di restituire meriti a coloro a cui questi meriti appartengono.

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immagini tratte dal film “Latcho Drom” di Tony Gatlif (1993)

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I was (really) drunk at the pulpit!

con tutto il doveroso rispetto per il pulpito e con il più ossequioso riguardo per il suo redattore, prendo a prestito le parole di Oldham e provo a farne una perifrasi per immagini di suoi illustri predecessori. a cominciare da Orson Welles che fece da testimonial allo champagne californiano (sic!) di Paul Masson…

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poi un James Brown decisamente fuori giri…

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Jimi Hendrix che finge di fingere di essere un poco sobrio…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=7FpwgUXWrEY]

Serge Gainsbourg nella celeberrima dichiarazione d’intenti verso Whitney Houston…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=LMAHstZ565w]

Sly, senza tutta la famiglia Stone, agghindato in modo improbabile, con il fiatone e la tachicardia sul divano di Dick Cavett… (qualcosa di imperdibile)

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=bM_Pf7JhKWo]

e per chiudere la versione moderna di Le Bateau Ivre che per l’occasione diviene il taxi ebbro, dove due giovinastri che hanno cambiato la storia conversano del più e del meno…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=ZkfAl4PHG8E&mode=related&search=]

mi si vorrà perdonare la frivolezza di questo post, ma io avrei certamente apprezzato qualcuno che mi avesse indicato questi video e, in buona fede, ho ben pensato di fare cosa grata.

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matt elliott e punck

e venne dall’acqua, e venne dal sale
la penitenza dalla mano del mare
il comandante avanza e niente si puó fare
vuole una morte, la vuole affrontare
e lí l’attendeva, dove il sole cala
cala e non muore, e l’acqua non lo lava
e il demone lo duole, sui banchi d’acqua
stregati di olio e petrolio

se il naufragio sia fallimento e abbandono, io questo non so dire. se sia un coro muto o una visione di profondità verso la luce neppure. ma tanti hanno tentato di descriverlo. Vinicio Capossella con le parole qui sopra nel suo ultimo disco, la sua S.S. dei Naufragati è uno delle più intense drammatizzazioni sulla materia che io ricordi. Il ventre del mare era, ed è, un racconto di Alessandro Baricco (che non amo, però…) nel suo libro Oceano Mare provò a descrivere l’insondabile disperazione della perdita, della deriva della coscienza in mezzo ai banchi d’acqua. l’ultimo disco dei Ronin si intitola Lemming, non credo a caso. dentro quel disco c’è lo sciabordio delle acque, il rollio e il beccheggio di quel meraviglioso Galeone. o se volete Coleridge e il suo vecchio marinaio, o ancor meglio Melville e il suo capitano Achab. o nelle canzoni raccolte da quel genio di Hal Willner nel disco Rogue’s Gallery: Pirate Ballads, Sea Song & Canteys… o molto più semplicemente ascolterete Matt Elliott…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=_y6hwrfPehs]

il primo consiglio è di ascoltare i suoi dischi e di abbracciare, per quanto possibile, il suo mondo. la sua Third Eye Foundation ne è la rappresentazione. l’altro consiglio, anche questo sincero e di non perdere il concerto di martedì 10 aprile al Bronson di Ravenna. innanzitutto perchè è l’unica data italiana e in più perchè ad aprire la serata ci sarà Punck.

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vorrei parlare delle sue produzioni e dei suoi materiali, ma non lo posso fare… o almeno non ancora, perchè per il momento ho avuto solamente il privilegio di conoscerlo “umanamente” nell’algido groviglio della rete, e ciò che ho scoperto è che ci sono ancora uomini vivi, curiosi e sensibili, non ancora sazi di parole, immagini e suoni e poco convinti che in fondo sia tutto qua… lui è uno di questi.

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joni from alberta, canada

non deve esser stato semplice sedersi su quella sedia un po’ barocca, con quel vestito dal candore antico, con quella voce un poco rotta dall’emozione e provare a spiegare cos’è un dulcimer, raccontare chi lo avesse costruito e cercando l’accordatura scambiare qualche timida parola con il pubblico a proposito della canzone… poi improvvisamente dimenticarsi dei propri 26 anni appena compiuti, di quelle telecamere puntate addosso, del calore di quei fari nello studio e iniziare a suonare trasportando ogni cosa dentro l’incanto.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=hxfpWEZy7_0]

Joni Mitchell. California. gennaio 1970, dal vivo a Londra negli studi della BBC. poi il set acustico proseguì, prima alla chitarra e in seguito al pianoforte dove Joni presenta in versione incompleta My Old Man. entrambe le canzoni vedranno la luce ufficialmente solamente 17 mesi dopo con la pubblicazione di Blue. un bellissimo disco di “canzoni”, e non è banale dirlo. un bellissimo disco suonato e cantato, uno specchio virato al cobalto dove riflettere la grazia e la magia di una decina di brani pressochè perfetti, e l’aggettivo è tanto più improbabile da utilizzare quanto lo è lo splendore ancora immutato dell’opera. poi gli anni a seguire ci regaleranno altre meraviglie che portano i nomi di Hejira o di Mingus, o se si vuole Shadows and Lights fino ad arrivare a Both Sides Now. ma queste sono già altre storie che meriterebbero altri discorsi. intanto lei continua a professarsi innanzitutto pittrice e poi musicista, ma questo è davvero poco importante, almeno finchè di fronte ad un suo quadro non avrò il medesimo stupore che questo disco mi regala.

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Tony Scott Music for Zen Meditation

una premessa doverosa: non sono buddista. anche se penso che, fra le vie spirituali a me note, quella sia la più umana e plausibilmente, la più praticabile. neanche la meditazione è mai stato il mio forte. i goffi tentativi inutilmente abbozzati si sono risolti in distrazioni costanti o sonnolenze incombenti, e se mai fossi riuscito ad uscire dal mio corpo, di certo non sarei rientrato dalla parte giusta. ma nonostante questo amo questo disco e lo ritengo prezioso. innanzitutto perchè fu registrato in Giappone nel febbraio del 1963, e questa data dista così tanto dall’infatuazione orientale del flower power e ancor di più dai primordi dell’ambient music. la questione temporale lo contestualizza dunque precedentemente a molti inciampi musicali successivi e per certo lo allontana definitivamente dagli aborti musicali della new age. ma da qualche giorno è divenuto ancor più caro in seguito alla scomparsa di Tony Scott. insieme al suo clarinetto c’erano Shinichi Yulze e Hozan Yamamoto. il primo al koto, il secondo al shakuhachi. il disco è esattamente come lo si potrebbe immaginare! mi rendo conto che questa non sia la più esplicativa delle recensioni, ma di certo non dista dal vero. e inoltre la dichiarazione d’intenti (music for) lo forza ad essere funzionale a qualcosa. e se non lo sarà per la meditazione lo potrà essere davvero per molto altro. molto spesso ho pensato che fosse come portare il colore di quella copertina dentro la propria casa, come accendere una candela o guardare il crepuscolo entrare lento dentro le proprie stanze.

Tony Scott era prima di tutto un jazzista, un grande jazzista. Il suo sito è davvero ricco di informazioni e tutto sommato ben fatto. era nato nel New Jersey nel 1921 e si trovò nel bel mezzo degli anni ’50 a vivere nella 52th street la nascita del bebop. suonò il suo clarinetto insieme a Parker, Monk e Gillespie e fu arrangiatore e pianista al fianco di Billie Holiday. in seguito diede il suo contributo alla nascita della third stream music e viaggiò davvero i cinque continenti, suonando e vivendo in ciascuno di questi. da quasi vent’anni aveva scelto Roma come sua residenza.

verso la fine degli anni ’80 andai a vederlo suonare in una triste discoteca di Massalombarda. era con un quartetto anch’esso un poco triste, ma la mia fame di jazz era allora solamente agli aperitivi, e la mia conoscenza piuttosto approssimativa. ma quel tipo eccentrico suonò davvero meravigliosamente, anche se allora non mi aggradarono tutti quegli aneddoti raccontati con rigoroso accento yankee a proposito delle sue conoscenze giovanili. mi pareva uno di quegli anziani che si vantano tardivamente, mentendo, delle glorie della loro gioventù. più tardi compresi che non stava scherzando, e di certo aver suonato con Bird o essere andato in tourneè con Lady Day non è come aver avuto un compagno di banco di nome Marchetti, o aver visto passare il Giro d’Italia.

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la domenica delle salme

in un giorno come questo non riesco a non ritornare con il pensiero a questa canzone di Fabrizio De Andrè. in un giorno in cui persino un’indifferenza faticosamente costruita e protetta, vacilla e si turba di fronte ad affermazioni spaventose sulla pedofilia e sull’incesto fatte da esseri umani ignobili. oggi che un’ondata di immondizia fuoriesce come un’emorragia dalle televisioni e dai giornali, nelle sale sale d’attesa e nei discorsi carpiti e rubati alla gente… e pensare che nel 1990 credevo che questa canzone fosse il resoconto di quegli orribili anni appena trascorsi. in realtà era peggio di una profezia. una visione sin troppo lucida di ciò che nessuno pensava potesse davvero succedere. e non mi pare finita…

Tentò la fuga in tram verso le sei del mattino, dalla bottiglia di orzata dove galleggia Milano, non fu difficile seguirlo il poeta della Baggina, la sua anima accesa mandava luce di lampadina…
gli incendiarono il letto sulla strada di Trento, riuscì a salvarsi dalla sua barba un pettirosso da combattimento…
I Polacchi non morirono subito e inginocchiati agli ultimi semafori rifacevano il trucco alle troie di regime lanciate verso il mare, i trafficanti di saponette mettevano pancia verso est , chi si convertiva nel novanta ne era dispensato nel novantuno…
La scimmia del quarto Reich ballava la polka sopra il muro e mentre si arrampicava le abbiamo visto tutto il culo…
La piramide di Cheope volle essere ricostruita in quel giorno di festa , masso per masso, schiavo per schiavo, comunista per comunista…
La domenica delle salme non si udirono fucilate , il gas esilarante presidiava le strade, la domenica delle salme si portò via tutti i pensieri e le regine del ‘’tua culpa’’ affollarono i parrucchieri

 

Nell’assolata galera patria il secondo secondino disse a ‘’Baffi di Sego’’ che era il primo, si può fare domani sul far del mattino. e furono inviati messi, fanti cavalli cani ed un somaro ad annunciare l’amputazione della gamba di Renato Curcio, il carbonaro…
il ministro dei temporali in un tripudio di tromboni auspicava democrazia, con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni… voglio vivere in una città dove all’ora dell’aperitivo non ci siano spargimenti di sangue
o di detersivo. a tarda sera io e il mio illustre cugino De Andrade eravamo gli ultimi cittadini liberi
di questa famosa città civile, perché avevamo un cannone nel cortile

 

La domenica delle salme nessuno si fece male, tutti a seguire il feretro del defunto ideale…
La domenica delle salme si sentiva cantare quant’è bella giovinezza non vogliamo più invecchiare…

 

Gli ultimi viandanti si ritirarono nelle catacombe, accesero la televisione e ci guardarono cantare
per una mezz’oretta poi ci mandarono a cagare… voi che avete cantato sui trampoli e in ginocchio
coi pianoforti a tracolla travestiti da Pinocchio, voi che avete cantato per i longobardi e per i centralisti
per l’Amazzonia e per la pecunia, nei palastilisti e dai padri Maristi… voi avete voci potenti, lingue allenate a battere il tamburo, voi avevate voci potenti adatte per il vaffanculo…

 

La domenica delle salme gli addetti alla nostalgia accompagnarono tra i flauti il cadavere di Utopia…
La domenica delle salme fu una domenica come tante, il giorno dopo c’erano i segni di una pace terrificante… mentre il cuore d’Italia, da Palermo ad Aosta, si gonfiava in un coro di vibrante protesta.

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Владимир Высоцкий

nel 1979 Demetrio Volcic tentò svariate volte di realizzare un documentario su Vladimir Vysotskij. il giornalista lo definì un parto difficile. concordò vari appuntamenti solitamente verso la tarda mattinata, ma i casi che si presentavano erano sempre i medesimi. o Vysotskij non era ancora sveglio e, se lo era, doveva ancora smaltire la sbornia di vodka della sera precedente. oppure ad essere sbronzo era l’operatore. altre volte si ruppe la pellicola o si fulminarono le lampade per le riprese. ma in quei mattini si continuava comunque a conversare della vita e dell’anima mentre il samovar riempiva di vapore la stanza. alla fine quel documentario si fece, perchè come afferma Volcic nella prefazione del libro “Il volo di Volodja”: non mi sembrava giusto che uno dei russi più popolari fosse sconosciuto in Italia.

Vladimir Vysotskij è probabilmente il cantautore più conosciuto in Russia. ma fu prima di tutto attore nel celebre teatro popolare della Taganka e attore cinematografico in seguito. la sua rappresentazione dell’Amleto rimase celeberrima. nel 1961 incominciò a scrivere poesie e a musicarle accompagnandosi con la chitarra. storie di popolo, contadini, marinai, guerre e amori. storie del popolo sovietico oppresso da un regime silenzioso e implacabile. silenzioso come il dissenso di Vysotskij, dissenso conosciuto dalla nomenklatura, ma in qualche modo tollerato. a differenza di Sacharov o Solzenitsyn infatti, lui perpetrò quella che definiva resistenza umana, un misto di dignità, rassegnazione e tutela della sua persona. le sue canzoni venivano registrate con magnetofoni di fortuna nelle nottate alcooliche passate dentro case amiche e quei nastri lentamente cominciarono a circolare fra la gente come samizdat. praticamente ogni russo era al corrente della sue canzoni, ma non esisteva un solo disco.

nel 1967 conosce l’attrice franco-russa Marina Vlady sul set di un film. diventerà la sua compagna e in seguito sua moglie. sarà la donna che lo accompagnerà fino ai suoi ultimi giorni. nel frattempo comicia a cantare le sue canzoni in pubblico inserendole dentro gli spettacoli teatrali e viene anche pubblicata qualche poesia e un suo primo disco di canzoni. ma in tutto questo tempo non ci fu mai una recensione pubblica, un articolo di giornale e tantomeno una apparizione televisiva. sono i giorni dell’alcoolismo nel quale trascina anche la sua consorte. grazie al fatto che la moglie avesse passaporto straniero e fosse iscritta al partito comunista francese, anche a Visotskij fu concesso il visto per l’estero. incise così in Francia alcuni dischi che lo fecero conoscere in Europa, e malgrado il permesso di espatrio non ne approfittò mai per saltare oltre cortina.

nel 1979 un telefilm televisivo fa finalmente conoscere il suo volto alla moltitudine del popolo russo. nell’aprile di quell’anno ha un collasso cardiaco sul palcoscenico del teatro e viene salvato in extremis con una iniezione al cuore. oltre alla vodka si è aggiunta la dipendenza da morfina. l’anno successivo lo trascorrerà fra una recita ed un ricovero per disintossicarsi. muore a Mosca il 25 luglio del 1980 per un arresto cardiaco. Aveva 42 anni. non una riga sui giornali, non una notizia in televisione. Mosca è invasa dalle famose olimpiadi boicottate dagli Stati Uniti. malgrado questo il 29, giorno dei funerali, una fila lunga 9 chilometri sfila dietro al feretro, decine di migliaia di russi e alcuni scontri con la polizia impotente.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=9kqcOMUBww8]

la voce di Vysotskij conserva un fascino immutato. si narra che le molteplici copiature dei nastri abusivi non facessero altro che amplificarne il tono profondo e l’impasto roco. a me piacerebbe molto ascoltarla un giorno rispondere alle domande di Demetrio Volcic.

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