The Spike Jones Anthology Musical Depreciation Revue

in questi amari tempi invasi da nani, guitti, buffoni, ballerine e servi scemi del potere, è paradossalmente difficile sorridere. le gags e le idiozie non mancano, e neppure costumi e paillets: ma non si ride, anzi! la stessa satira fatica a abbassarsi così in profondità a desolanti livelli di cui non ho memoria. e si continua a non ridere malgrado ingannevoli apparenze!
in questi tempi amari trovo (magra) consolazione nell’amata musica. il pensiero ritorna a chi, di quell’armamentario di ridicolo ne fece una piccola arte, un cabaret intelligente di satira, musica e risate!
Spike Jones è forse un nome poco noto e altrettanto lo sarà il nome della sua band: The City Slickers. funambolico batterista californiano con la faccia da clown che pareva uscita da una striscia a fumetti, dopo una gavetta seriosa fra jazz bands e ingaggi radiofonici decise, al principio degli anni ’40, di formare una sua orchestra per dare libero sfogo al suo estro dissacratorio e alla sua vera passione: una satira feroce, uno slapstick musicale che triturò ogni tipo di canzone in voga a quel tempo.
la musica popolare americana fuoriuscita da Tin Pan Alley si potrebbe suddividere in tre grandi generi: la ballad, la dance music e le novelty songs. Spike Jones, dopo aver frequentato e appreso i prime due, si buttò a capofitto sul terzo. sin dal 1942 ottenne un successo straordinario incidendo la canzone Der Fuehrer’s Face dove al classico saluto nazista (Hail!) seguiva la più classica delle pernacchie di tromba! (Disney arrivò dopo)
da allora fu un susseguirsi ininterrotto di rumoristica varia ad imbottire ogni genere di classico: dall’operetta alla ballad, dalla canzone confidenziale agli standards del jazz.

campane, campanelli, campanacci vaccini, bicchieri e stoviglie, pentole, pelli e vetri: ogni cosa percossa da Spike Jones fece da corollario ad un campionario di rumori interminabile. trombe, tromboni e trombette. susafon e seghe, banjo e ukulele. latrati e guaìti, rutti e pernacchie, singhiozzi, sputacchi e spari. starnuti, singulti e balbuzie. grida, strappi e frenate. fischi, muggiti e cori. versi di animali, clacson e rumori industriali. yodel, gargarismi e orologi a cucù!
c’è di tutto nelle canzoni di Spike Jones! a fianco delle voci di impeccabili crooners emergono da dietro le quinte orde di barbari casinisti a strapazzare le canzoni e a condurle, nello spazio di pochi minuti, verso il non senso e la parodia. nulla viene risparmiato: la canzone russa, l’opera italiana, i canti hawaiani, la children song e le melodie popolari. ogni singola nota di funambolici arrangiamenti provvede a creare disordine e armonia al medesimo tempo. citazioni e controcitazioni, allusioni e richiami, suggestioni ed esotismi. ogni cosa al servizio di una risata… musicale!
per Spike fu un ventennio (dai ’40 fino alla fine dei ’50) pieno zeppo di avvenimenti, trasmissioni radiofoniche e naturalmente di dischi. difficile citarne uno piuttosto di un altro, un successo per antonomasia (All I Want For Christmas (Is My Two Front Teeth), Blacksmith Song, Cocktails For Two, Clink! Clink! Another Drink!) che oscurasse gli altri. per fortuna, nella giungla di date, avvicendimenti nella band e partecipazioni, ci viene incontro la Rhino Records (sempre sia lodata!) con la pubblicazione di una doppia antologia particolarmente esaustiva su quanto c’è da sapere ed ascoltare a proposito di questo scapestrato che il tempo potrebbe colpevolmente dimenticare.

The Spike Jones AnthologyMusical Depreciation Revue: The Spike Jones Anthology contiene 40 canzoni assolutamente singolari, chiassose e irriverenti quanto basta per urticare e sbeffeggiare borghesia e buone maniere.
musica che continua a divertirmi e a stuzzicare la mia passione vintage per la canzone di un tempo che fu. sarei pieno di annotazioni e appunti da esplicare, di nomi di artisti che hanno rubacchiato da Spike senza menzionarne la fonte o che semplicemente ne hanno incarnato lo spirito e l’irriverenza caustica. ma non tedierò oltre… mi limiterò a donare i due volumi con la speranza che una risata posa seppellire i vecchi e (soprattutto) i nuovi idioti del potere.

The Spike Jones Anthology Musical Depreciation Revue vol.1
The Spike Jones Anthology
Musical Depreciation Revue vol.2

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Orchestre National de Jazz Around Robert Wyatt

amo la voce di Robert Wyatt: mi fa stare bene!
è balsamica, soddisfa il mio bisogno impreciso d’imperfezione, ammorbidisce il cuore che i giorni induriscono e culla diaframma e budella. e poi è calda. mi parla di qualcosa che non sapevo di sapere e continua ad indicarmi imperterrita la via sociale da seguire. ha quella coerenza che spaventa e fa tremare i polsi. l’unica percorribile!
amo anche la sua musica che di quella voce è corona e giacilio. e poi attendo i suoi dischi come piccole epifanie e mi trastullo fra quelli vecchi, sapendoli disposti casualmente nella libreria, a prendere polvere e a farsi trovare al bisogno.

non aspettavo un disco di Robert Wyatt e forse, proprio per questo, la sorpresa è assai più gradita. ma questo non è disco di Robert Wyatt, ma un disco around Robert Wyatt: che lo vede presente, in voce, anima e musiche (sue)! responsabile ne è l’Orchestre National de Jazz e il suo (attuale) direttore artistico Daniel Yvinec. ambizioso e prestigioso progetto che è lustro e vanto del Ministère de la Culture francese, promotore e finanziatore sin dal 1986.
l’Orchestre è progetto mutevole e progressista per sua stessa natura, fucina e laboratorio di progetti e iniziative che spaziano trasversalmente sul fronte della musica moderna, tenendo un piede fermo sull’idea imprendibile di jazz e l’altro libero di spaziare altrove.

Orchestre National de Jazz - Around Robert Wyattnasce così Around Robert Wyatt (BEE JAZZ / Abeille Musique Distribution, 2009): 14 composizioni di Wyatt prese in consegna da Daniel Yvinec e arrangiate assieme a Vincent Artaud, e poi date in pasto alla maestria e all’interplay dei 10 musicisti che compongono attualmente l’orchestra.
le voci, a fianco di quella di Robert Wyatt, sono di Arno, Camille, Daniel Darc, Irène Jacob, Yael Naïm e Rokia Traoré.

Robert+Wyattne nasce un disco pervaso di oscura dolcezza, dilatato ed espanso. voci e impasti sonori tengono la briglia a fasulle improvvisazioni. non forse di jazz si tratta e neppure di chissà cos’altro. si tratta di canzoni scritte da qualcuno che il jazz lo ha sempre avuto nel cuore e attorno (around), e a quel jazz immaginato ritorna. non toccandolo. non sprecandolo.
basta una Alifib interpretata da Rokia Traoré ed ecco svelato a ritroso (e in un circolo virtuoso) il tragitto misterioso della musica afroamericana, O Caroline di immutata bellezza e quella Del Mondo cantata in italiano e perseverante nel commuovermi! e poi Te recuerdo Amanda reinterpreta dallo stesso Wyatt a impressionare fra un fischio e una poesia popolare!

il primo album ufficiale dell’ONJ esce in versione doppia e regala nel secondo volume 4 tracce ulteriori. quella credo sia giusto donare sussurrando un benvenuto a quest’orchestra e un ben tornato ad un maestro.

Orchestre National de Jazz Around Robert Wyatt

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Shanghai Lounge Divas 上海絕世紅伶

Non tutti i mali vengono per nuocere… recita un antico adagio popolare!
e in effetti, in questo caso, non si può che concordare. la vicenda è più o meno questa: qualcuno ricorda i tempi (per fortuna passati e trascorsi) in cui imperversava la Buddha Bar mania? il lounge stupido e l’altrettanto idiota chill out? per non parlare dell’ethno beat! Allah ce ne scampi! si era più o meno a cavallo del millennio in contemporanea con l’altrettanto orrenda new age (di quante nefandezze per fortuna ci si dimentica)! ora, sempre se Allah vuole, è tutto finito (salvo orribili strascichi)! quella visione globalizzante, appiattente e avvilente dei suoni del mondo è storia passata. niente di più dannoso e controproducente per una reale visione etnomusicologica e coerente delle innumerevoli realtà sonore del globo. l’idea di riportare ogni peculiare suono tradizionale del pianeta (e l’infinita cultura che esso trasporta) ad un beat addomesticato, buono per accompagnare cocktails pacchiani e far gigioneggiare corpi abbronzati e siliconati è qualcosa che, nella mia umile visione del mondo, trova spazio fra razzismo e fascismo!
in quel marasma di edizioni sonore provarono a far soldi un po’ tutti! la EMI ebbe un’idea abbastanza originale e tentò di cavalcare l’onda idiota! si inventò (mi sia concesso il beneficio del dubbio) la storia di un ritrovamento di vecchie incisioni sonore sopravvisute all’epuramento della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria di Mao Zedong (sto parlando di Cina ovviamente). il ritrovamento avvenne a Mumbay, India (?!?). due enormi scatoloni zeppi di lacche originali dei 78 giri che fecero la gloria di Shanghai fra gli anni ’20 e i ’40. l’etichetta responsabile si chiamava Pathe Shanghai. si narra di un epoca in cui nella capitale culturale cinese esistevano più di 30 emittenti radiofoniche e una quantità imprecisata di nightclubs! in questi si esibivano le dive della canzone popolare che si ardimentavano fra tradizione, opera, jazz e ritmi latini che giungevano via etere dall’altra parte del globo!
shanghaiquale allora il colpo di genio della EMI? prendere alcune di queste tracce, affidarle a due produttori esperti di dance e appetibilità consumistiche varie (Morton Wilson e Ian Widgery) affinchè vi apponessero sopra opportuno remix e beat ruffiano e osservante del gusto necessario all’uopo (e alla vendita). Original 1930’s sessions remixed for today recita il sottotitolo. ma cosa diavolo significa? che artificio sciocco è mai questo? e poi, chissà perchè, a qualcuno viene in mente (forse proprio perchè non tutti i mali vengono per nuocere, come si diceva più sopra) di impreziosire l’oggetto allegando (in un bonus cd) le registrazioni originali dalle quali provengono gli obrobri del primo cd!
confidate in me: non mi permetterei mai di sottoporre neppure il peggior nemico all’ascolto del primo disco. ma il secondo lo dono volentieri con in cuore la gioia del cercatore di curiose e stravaganti musiche del mondo.

Shanghai Lounge Divas, Vol.2 – The Originals Recordings

Yao Leedove se ne è andata Li Xiang-lan? e dove Gong Chio-Xia? e Yao Lee? mio nonno avrebbe detto che sono oramai terra da pipe! ma cosa importa? resta questo incanto di chincaglieria musicale, questo esotismo da non viaggiatore. una fotografia sonora e sbiadita di un tempo che fu, che non ci vide e non ci vedrà. è il suono d’occidente in salsa agrodolce, la rumba di shanghai, jazz e clarinetti in umido d’oriente… e ci si può trovare più di una Billie Holiday con gli occhi a mandorla e il tubino stretto di seta.
che sia un buon viatico per un fine settimana che comincia, magari al crepuscolo, prima che tutto si faccia più scuro e cominci la vecchia notte di Shanghai!

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Blackbird

questa non è altro che l’osservanza e la degna continuazione di una promessa fàttami (a me medesimo) tempo addietro. mi dicevo che mi sarebbe piaciuto affrontare la maestosità di uno dei dischi più importanti della mia vita approcciandolo cautamente, lateralmente e a piccoli passi brevi, per non rimanerne schiacciati e per non affogare in tanta vastità. 30 piccoli passi: così quanti sono le canzoni che lo compongono! ce ne fu principalmente un primo e poi un altro (che in realtà era una visione altra e d’insieme) ed ecco giungerne un ulteriore…

il disco è (e sarà per sempre) The White Album, in realtà intitolato The Beatles, ma universalmente riconosciuto per il candore e lo stupore latteo di quella copertina. 1968 l’anno!

la canzone è la terza del lato b del primo vinile (chè di doppio trattavasi) e porta il titolo di Blackbird. tutta farina (bianca) del mulino di Paul McCartney ma – così come usavano fare – attribuita anche alla penna di Lennon. ma qui c’è solo Paul e la sua chitarra. canzone politica sotto mentite spoglie: si allude ai disordini politici e razziali americani della primavera del ’68, a quelli McCartney dice di aver pensato nel comporla mentre si trovava in Scozia. ammise poi anche di aver scimmiottato la celebre Bourrée in Mi minore di J.S.Bach nella parte introduttiva del brano e di averla usata come prima serenata alla moglie Linda… ma alla fine poco importa!
importa che l’11 giugno 1968 nello studio B di Abbey Road, imbracciando una Martin acustica D28, la registrò sotto l’occhio (e l’orecchio) attento di George Martin, e questo fu il risultato…

lo so, non c’era neppure bisogno di farla riascoltare, ma ci sarà pure qualcuno che non l’ha mai sentita! e in ogni caso è necessario per introdurre l’unico discorso che mi sento in grado di affrontare a proposito di questo monumento della canzone d’autore. eviterò di addentrarmi nella progressione armonica, nell’accordatura e nella diteggiatura. non importa qui!
quello di cui vorrei parlare è la storia di quel pulsare percussivo che accompagna tutto il brano! croce e delizia della curiosità di un adolescente che si arrovellò nel cercare di capire di cosa si trattasse! (riascoltare per i più distratti)
sulle prime (sto parlando di anni ’80) pensai che fosse un graffio sul vinile, ma ci misi poco a comprendere che, per quanto leggermente fuori tempo, non poteva essere. poi pensai ad una percussione di Ringo Starr: ma quale? le note del disco non menzionavano nulla del genere! non poteva essere il pollice sulla cassa armonica della chitarra e neppure un clap di mani (e di chi poi?).
internet, allora, era ben lungi dall’essere immaginata e così i suoi figliocci saggi (Wiki e compagnia bella) e allo stesso modo dvd e cofanetti esaustivi. allora saccheggiai librerie e biblioteche, ma inequivocabilmente risultava che Blackbird fosse stata incisa da McCartney con chitarra e voce (e sovraincisione di cinguettìo). niente di più e nulla da fare! ma quel tamburellare continuava indefesso a segnare i miei ascolti, e, in definitiva, a significarli!

poi, a metà dei ’90, arrivarono le tre antologie (1, 2 e 3) e con esse un cofanetto di 5 dvd dal titolo The Beatles Anthology. onnivoro e accanito acquistai ogni cosa! ascoltai ogni cosa e mi misi d’impegno a visionare tutti quei dvd!
per un curioso, giungere alla fine alla meta del proprio ricercare è un poco come una piccola epifania della perfezione della vita. se poi questo disvelamento (nel caso specifico di questa canzone) conserva una particella di ridicolo e di irrazionale, di banale o di sbeffengiante in sè, allora la vita si rivela per quel è: perfetta e ridicola!

un paio di scarpette da tip-tap, alquanto buffe e bicolore, che picchiettano sul pavimento di legno dello studio.
ecco l’ardire del mio ricercare!
anche questo (e molto altro…) erano i Beatles!
continua…

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Ortometropolis/2 di Costantino Spineti

E’ già da un po’ che raccolgo notizie, dati, informazioni, curiosità su questo argomento… ma ho deciso di parlarvene a viva voce stamane… alle 06,45… nel mio bagno, seminudo e con la faccia insaponata mentre mi rado con un rasoio di ultima generazione… davanti allo specchio. Ho già preso un ottimo caffè amaro (lo amo, soprattutto appena sveglio) e ho fumato la mia prima gustosissima gauloises blondes e sono pronto per radermi e raccontarvi…

ortometropolis

BanananaS

(in regime di libertà vigilata)

Come si può facilmente evincere, quest’oggi si parla di banane e di ananas… ma anche di branding, di mercato libero, di mercato protetto e di mercato in libertà vigilata… VIGILATA? E DA CHI’?
Ebbene sì… Carissimi consumatori di banananas! Ebbene sì dalle multinazionali della frutta! DOLE, CHIQUITA, DEL MONTE, PACIFIC FRUIT e il loro “fuoco di sbarramento” in prima linea, le maggiori e più note compagnie che hanno praticamente da sempre dapprima monopolizzato, e successivamente controllato, e a tutt’oggi condizionato il mercato internazionale delle banane influendo pesantemente sull’intera economia di alcuni stati soprattutto del centro America… e controllando così di fatto l’intera filiera (prendo a prestito da un noto spot) dal produttore al consumatore, occupandosi, tra le altre cose (politica geoeconomica), di coltivazione, di logistica (trasporti frigoriferi su gomma e trasporti frigoriferi navali), commercializzazione, e da qualche anno a questa parte, alcune di loro, anche di maturazione e di distribuzione… dove (finalmente?) hanno trovato ad attenderli un altro pescecane: La Grande Distribuzione e l’industria dei Supermercati…Tiè!

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Mi tornano in mente alcune frasi di mio nonno: ”Se proprio hai deciso di farti spellare… fatti spellare almeno da uno che è capace a farlo!” E qui mi vien spontaneo di grattarmi la testa se proprio devo scegliere, perchè… ho il vero imbarazzo della scelta!
Sicuramente tutti sapranno cosa intendo se pronuncio la parola brand, ma se dico bollino di banana che rispondete? Da un campione condotto direttamente da me (gli unici di cui mi fido) su persone che conosco alle quali ho camuffato sapientemente le domande, ho evinto questa graduatoria: Chiquita in testa e con notevole distacco seguono Del Monte, Dole, e Bonita!

bananaIl banano, è una pianta con l’aspetto di albero del genere Musa, infatti è una Musaceae.Il suo fusto o meglio il suo gambo può raggiungere i 10 metri, con foglie che ne possono raggiungere ben 3. L’ananas invece, è una pianta della famiglia delle Bromeliaceae che cresce a terra, il clima che preferisce per esprimersi al meglio è quello tropicale (come me), e ama (come me), vivere con vista mare…
Le varietà commercializzate per il consumo fresco sono cavendish per le banane, e comosus per le ananas, varietà che, coltivate in climi tropicali, riescono ad essere presenti tutto l’anno. Una rapida curiosità sull’etimologia dei nomi, la parola banana deriva dall’arabo e significa dito, la parola ananas invece, deriva dal nome del frutto nella lingua degli Indio Guaranì.
Credo che a proposito di questi due frutti potrei dilungarmi assai sulle loro benefiche proprietà, e su tutti i principi attivi di cui sono ricchi, ma vi risparmio la “filippica” e vi invito al consumo smodato.
In Italia, di banane, se ne consumano all’anno circa 7 kg pro capite, un frutto pesa mediamente dai 150 ai 200 grammi, e se volete, fate i conti in banane… il fatto che l’Europa che vive sopra di noi ne consumi mediamente 10 kg pro capite (il primato in Svezia: ben 12 kg pro capite!), molto probabilmente è legato al fatto che loro non hanno le nostre produzioni di frutta alternativa estiva.

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Concedetemi un brevissimo cenno storico…
Dopo il crollo dei prezzi del cacao del 1920, sempre più piantagioni di banane nascevano in centro america (soprattutto in Ecuador), ma il vero boom delle piantagioni commerciali  arrivò nel secondo dopoguerra. Le multinazionali iniziarono allora ad investire nel settore, in particolare la United Fruit che diventerà successivamente il colosso Chiquita Brands International, che nel 1934, acquistò una piantagione di notevoli dimensioni (si parla di circa 3000 ettari che le assicurarono il 6% dell’esportazione ecuadoriana di banane). Il settore stava crescendo, ma negli anni ’50 venne duramente colpito dalla Panama, una malattia che colpisce il banano, e lo distrugge, e così in meno di dieci anni…fece piazza pulita! La United fruit dopo numerosi scontri con i contadini che chiedevano la riforma agraria, abbandonò il paese. Con lei, anche gli altri stranieri se ne andarono, ma la successiva riforma che fu approvata fu per loro un pugno alla bocca dello stomaco, perché stabiliva che le terre potevano appartenere solo a ecuadoriani.
Il problema (chiaramente!) venne subito aggirato creando aziende sussidiarie, formalmente ecuadoriane, ma di fatto controllate dai giganti stranieri: un’esempio? La Brundicorpi di Chiquita o la Bandecua di Del Monte! Ma, a tutt’oggi la tecnica di approvviggiamento più usata è, e rimane, quella di strozzare piccoli e medi produttori indipendenti! Salvo pochi casi, (come quello dei pescecani ecuadoriani) Noboa e Reybanpac, che sono i principali esportatori locali.
Sembrerebbe che questi due attempati giovanotti (Noboa ha più di 80 anni) nel 2000 abbiano dichiarato al fisco ricavi rispettivamente per 164,4 e 91,3 milioncini di dollaroni verdi. L’Ecuador delle banane è un mosaico di produttori medio-piccoli, e le aziende di dimensioni più piccole sono concentrate proprio nella zona di El Oro, che raccoglie la metà dei cica 5 mila coltivatori di tutto il paese, ma produce soltanto il 30% delle banane complessive. Insomma signore e signori: piccoli produttori che soffrono per Grandi Esportatori che godono!

banana-dentro-ananasStamane non posso perché ho un appuntamento importante di lavoro con un  piccolo produttore e importatore di banane dall’Ecuador, ma vi giuro che nel futuro prossimo vi racconterò anche perché un chilo di banane, spessissimo, costa molto meno che un chilo di mele del trentino, di un chilo di arance della Sicilia, o che so? Di un chilo di pesche estive o di pere invernali romagnole… c’è un trucco… sì… anche lì.
Stadifattochè… a tutt’oggi, (no)i consumatori continuiamo a comperare e consumare banane e ananas guardando bollini e collarini, interpretando i loro nomi e colori convinti che da lì si possa risalire a Fedro, al concetto di qualità della filosofia logica, allo Zen, e all’arte della manutenzione della motocicletta: ma così non è! Se proprio vogliamo dirla tutta si potrebbe controllare tutt’al più la pezzatura (dimensione), la maturazione, la provenienza semmai, il sapore l’odore ed il colore… ma non fidatevi (fate come me) di un ufficio marketing di una multinazionale, loro vendono solo bollini del resto! spesso, dietro una mezza verità, si possono celare innumerevoli bugie!
E non accontentatevi di andare a comprare le banane in qualche bottega. Solo se riusciamo a fermare la concorrenza spietata che la globalizzazione ha innescato e che sta facendo trionfare i prodotti ottenuti nelle peggiori condizioni, potremo aiutare i contadini dell’Ecuador, che producono banane per un commercio più equo, a pagare salari più alti ai loro braccianti. Bisognerebbe fare in modo che il commercio equo non venga vissuto solo nelle botteghe!
Io credo che il suo posto principale sia nelle scuole, nelle sedi sindacali, nelle sedi di partito, nelle piazze. In ogni posto dove si fa politica, in cui si organizza la resistenza e si progetta il futuro.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=ud6ylZ2EQfo]
Daniele Sepe Un’altra via d’uscita

Bene…si son fatte le sette…due gocce di emulsionante, due leggere pacche sulle guance… e via… andare camminare lavorare!
C’è un bel sole… credo che indosserò un vestito nero gessato, le mie scarpe a punta migliori e un anello di argento messicano con pietra di corniola… ho la pelle del viso che sembra il culetto di un neonato… però ‘ste lamette… ma di che cazzo di marca sono?

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Caetano Veloso Zii e Zie (Transamba)

Caetano Veloso è un festa, una gioia e una mia continua sorpresa! lo so, sono imparziale e prevenuto come una suora a Fatima, ma la mia vita è talmente appiccicata alla vicenda di Caetano Veloso che ogni volta che apre bocca io mi metto sull’attenti poco prima di un deliquio di sensi. sono un fan e come tutti i fans ho smesso da tempo di ragionare. parla il cuore, il mio sorriso ebete e una nidiata di farfalle che svolazzano nello stomaco!
ho infestato questo blog di parole e foto e suoni di Caetano, e posso assicurare che mi sto trattenendo. ma se arriva un disco nuovo non posso esimermi dal parlarne. debbo in qualche modo esorcizzare l’entusiasmo, condividere la gioia e sedare la mia imbecillità adorante!

caetano-veloso-zii-e-zie-2009Caetano Veloso Zii e Zie (Universal, 2009) è il naturale seguito del precedente del 2006. medesimo concepimento strutturale affiancato dai tre giovani musicisti (che sono divenuti per l’appunto Banda Cê): Pedro Sa chitarra elettrica e basso, Ricardo Dias Gomes basso e Fender Rhodes e Marcelo Callado alla batteria!
il titolo è in italiano (!?!) e a quanto pare ha sostituito all’ultimo momento il previsto Transambas (che chissà che voleva dire?): proviene da una suggestione di lettura (in italiano) del romanzo Istanbul del nobel turco Orhan Pamuk! e lo stesso Caetano a confessarlo nel suo blog Obra Em Progresso a squisita disposizione di madrelingua e/o coraggiosi traduttori! entrambi i titolo sono rimasti però sulla copertina (bruttina) che ritrae, in uno scatto virato opaco, la spiaggia di Leblon!

banda-ce13 canzoni (due cover come tradizione impone) venate della stessa trama elettrica del precedente disco. ma addolcite sono le asperità, funzionale all’immensa vocazione melodica è diventata la sperimentazione e lo sguardo si volge a samba e a marcette burlesche. A Cor Amarela e Diferentemente erano state ascoltate in acustico l’anno scorso a Ferrara, Perdeu è il principio di intenti di rara bellezza, Sem Cais è il cherubino che continua a vendere l’anima a Caetano per poter ancora esibirsi su questa terra, Base de Guantánamo è la Haiti di questi nostri tristi giorni, Menina da Ria la sintesi di tanti trio electrico sfilati al carnevale! e poi bossa e samba in parti mescolate, freschezza da chitarra funk e spirito giovanilistico che sorprende ancora alla tenera età di 67 anni!

caetano-e-banda

Caetano – oggi – è tutto questo! paragonabile oramai solo a se stesso, immenso nell’incarnare 40 anni di musica popolare brasileira e a voler spostare ancora oltre l’obiettivo di una ricerca lunghissima. sorprenderà forse i neofiti, lo spero, mentre i vecchi ammiratori riconosceranno traiettorie melodiche e un songwriting oramai familiari. ma cosa si può chiedere ancora alla maestosità di questa carriera? cosa si può domandare se non un’altra canzone e poi un’altra ancora? sarebbe esoso chiedere la rivoluzione a chi la rivoluzione l’ha già fatta quando i molti ascoltatori di oggi non erano neppure nati. un vecchio adagio recita che la rivoluzione la si fa una volta nella vita, e lui – molto tempo addietro – l’ha già chiamata Tropicalismo!
per oggi c’è un nuovo disco, nuova gioia, immensa classe e sensibilità sociale, artistica e politica.
per oggi può bastare: bentornato!

Caetano Veloso Zii e Zie

Pubblicato in 2009 | 21 commenti

Charles Mingus Mingus Plays Piano

non oso chiedere l’immortalità, ma un altro po’ di tempo sì!
ho ancora così tanta musica da ascoltare!
la maestosa e pachidermica storia del jazz è una di quelle giungle di cui essere lieti. lieti che esista, lieti che sia insondabile e imprevedibile e lieti che ci si possa recare ogniqualvolta se ne senta la necessità, tirati per il naso da un richiamo primordiale e ancestrale (è inevitabile per chi è cresciuto da ragazzo scimmia del jazz). non deluderà e esaudirà desideri che neppure si è osato immaginare. basterà sfregare la lampada, sfogliare uno dei tanti tentativi editoriali di narrarla, spulciare una discografia e vertiginose bellezze ricompariranno come per incanto.
c’è stato un tempo, in quella fitta giungla, in cui sembra che tutti quei selvaggi musicisti abbiano incontrato gli altri colleghi in una girandola imprevedibile di club, ingaggi e session. ci abbiano suonato assieme, di notte, per sbaglio, per scelta o per destino. in quelle formazioni estemporanee o volute si possono ritrovare incontri, sodalizi e mirabili affinità. ogni buon cultore di jazz sa di cosa vado farneticando! è davvero una giungla: più ci si addentra e più si resta invischiati, la faccenda si complica e a complicazione si assomma meraviglia.
sapevo di un disco in solo di Charles Mingus! lo sapevo come so che esiste la Tasmania o la transustanziazione: così, senza averli mai visti! sapevo che necessitavo di un altro po’ di quel tempo che chiedendo più sopra. sapevo che prima o poi lo avrei trovato dentro quella giungla, o che lui avrebbe trovato me!
e non mi sbagliavo!
mingus-plays-piano

Charles Mingus Mingus Plays Piano (Impulse!) fu registrato il 30 luglio 1963 negli studi della RCA a New York. racconta Phil Kurnit (legale dell’etichetta) nelle note di copertina…
“Somebody was playing the piano in there very hauntingly — very beautifully. Then it would stop, and start again. It didn’t sound like practicing. It sounded like somebody was just thinking on the piano. That’s the best way I could say it. I looked in the music room and it was pitch black. The lights weren’t on. So I went into Bob Thiele’s office and said, ‘Who’s playing in there?’ ‘It’s Charlie Mingus. A very close friend of his died.’ I never knew who he was grieving over. But about a half-hour later Thiele said, ‘Charles, let’s go into a studio.’ That became Mingus Plays Piano.”
Charles Mingus non era un virtuoso del piano. lo era del contrabbasso. ma era un compositore, un “pensatore” del jazz e il pianoforte era probabilmente lo strumento sul quale meditava e ragionava. forse proprio in questo approccio eterodosso risiede la segreta magia di questo disco. nella sessione di un giorno, in un Mingus meditabondo che mugugna e pensa mentra suona. lo si può sentire fra standard e sue creazioni in nuce, abbozzi e tentennamenti fra blues e spontaneous compositions and improvisations!
forse basterebbe l’iniziale (ed eloquente) Myself When I Am Real per tentare di comprendere la segreta magia di questo disco. un critico ha scritto che sembra di sentire Claude Debussy che suona Bill Evans! non male! è un’ideale parabola che passa per il pianismo di Mingus per proiettarsi al futuro in una modernità stupefacente. disco straordinario per la sua anima pura e per l’eccezionalità anomala ed intrinseca!

lo sto ascoltando da giorni senza sforzarmi di cogliere chissà quale segreto, perché forse segreto non v’è. c’è uno dei più grandi compositori di musica afroamericana che pensa a voce alta sui tasti del pianoforte. e poter assistere a tutto questo è un piacere che vorrei far durare per i miei prossimi cento anni. ed è un piacere poterlo condividere con chi vorrà. buon ascolto…

Charles Mingus Mingus Plays Piano

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Tony Scott In Afrika

ecco le inesplicabili (non) coincidenze, ecco le amorevoli affinità e le insondabili traiettorie del fato che incrocia e doppia a tribordo l’esistenza (la mia) e la fa un poco traballare, interrogare e scuotere stupita il capo. ecco ciò di cui mi piace scrivere, ecco ciò di cui, da oggi, sarà ancora più bello scrivere.
questo disco ha una senso ed una storia che si scontra e si appiccica alla mia. lo conosco dal 1997, cioè da quando uscì. lo comprò un amico caro (innominabile per sua stessa natura) e me lo mostrò col fare goloso dei feticisti e dondolando (gongolando?) da far suo e mio, come veri ragazzi scimmia del jazz. conoscevamo Tony Scott, lo avevamo visto dal vivo e da allora amato. scrissi già di lui su queste sponde in concomitanza (purtroppo) della sua scomparsa.

Tony Scott In Afrika è un disco selvaggio e irruento. scorretto, free e anacronistico. un disco sostenuto da una grande anima e sputato da un basso ventre. scomposto e impulsivo, fin quasi scomodo. è lo stesso Scott a raccontarlo nelle note di copertina; è il frutto di due diverse visite nel continente africano (1957 Sudafrica e 1969 Senegal) e quindi di due diverse session.
inno all’indipendenza sudafricana (vedi dedica successiva a Mandela) e osanna a grandi spiriti intuiti e rispettati. le prime sette tracce sono fiorite dalle registrazioni senegalesi. così narra il clarinettista… In Africa I met musicians and percussionists capable of playing the material I had collected, and with them I recorded for four months – from 1.00 a.m. to 7 p.m. – at the American Embassy in Dakar, with two Ampex recorders belonging to the Embassy. The two fantastic Tam Tam players were each just seventeen years old; Emmanuel, on bells and singing, was thirty and came from the Cameroon, the land of Voodoo; Papa Akaye, from Ghana, played the trumpet, flute, bells and also sang. I played clarinet, drum solos and sang, also arranging and leading the group.
gli ultimi due brani sono invece precedenti (In Johannesburg, in 1957, I recorded backed by four penny whistles, bass, guitar drums and a chorus of women who shouted in unison The Penny Whistle Song and The Zulu Walk): hanno composizione e materia più abbordabili, più dolce, e costituiscono lieto ed esplicativo contrasto al resto del disco.

nla storia potrebbe essere finita qui, se non fosse che nell’eterna giostra dei prestiti, dell’ascolta questo e della costante confusione che ci portiamo dietro, quel prezioso supporto fonografico è andato perduto. con nostro sommo malincuore.
fra qualche settimana sarà il genetliaco di quell’amico di cui sopra e quindi, tempo addietro, mi è sovvenuto questo disco per un presente sensato e sensoso! mi appuntai di ordinarlo qui e come sempre passò altro tempo e successero altre cose. capita che succede la vicenda di Mulatu Astatké e tutte le meraviglie che ne sono seguite (qui e qui) e poi succede pure che JazzfromItaly scriva (chapeau!) di Tony Scott e mi faccia tornare alla mente tutta questa storia affondata nella memoria! Tony Scott, l’Africa, la città eterna scelta come dimora senile e tutta la ricerca del nostro tempo perduto! perfetto paradigma di ciò che è stato, sarà e potrà essere…

nel frattempo (oggi) ho ordinato il disco e contemporaneamente l’ho trovato nei sotterfugi impensabili della rete. è bello riascoltarlo, riassaporarlo e ripensarlo oggi rinnovato di senso e proiettato ad un futuro possibile. buon ascolto!

Tony Scott In Afrika

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Mulatu di Firenze

tutto pronto!
biglietti accreditati alla cassa del FLOG, sole e temperatura piacevole! automobile in ordine e pieno di gpl effettuato!
ore 16,15 si parte dala terra di Romagna assieme a tre amici fidati e fedeli!
in avanscoperta altri due amici partiti sul far del mattino e ansiosi di scollinare e meriggiare fra passi appenninici e delizie enogastronomiche. la porti un bacione… appuntamento e arrivo previsto a Firenze: 18.15/18.30. giusto in tempo per un paio di calici ed una visita alle leccornie dei trippai! e poi di fronte a noi le alture di Addis Abeba e lo splendore copto di un sovrano, il luccichio dell’oceano indiano e il motore inesauribile degli Heliocentrics!
Mulatu Astatke & The Heliocentrics
live@Auditorium Flog 8 aprile 2009
disco osannato e data appuntata in agenda!
tutto bene sulle piste della Bomba o Non Bomba di vecchia memoria: Bologna, Sasso Marconi, Roncobilaccio… ma al casello di Firenze Scandicci la ciliegina sulla merda!!!
18:40 fermi in coda!
19:00 fermi in coda più concerto per clacson e bestemmie!
19:27 pagamento al casello
19:46 attraversamento del casello
20:03 si chiude la sbarra del casello dietro di noi
20:17 fermi in coda, immobili, motore spento
20:27 giungono notizie di viadotti crollati sulla tangenziale e di traffico immobile in tutta Firenze!
20:35 fermi in coda!
20:46 l’italia non c’è la può fare e non ce la farà!
20:53 arrivano notizie inquietanti di 2 o 3 ore per percorrere meno di un chilometro!
20:57 fermi in coda e al telefono con l’avanguardia degli amici che nel frattempo ha raggiunto i baluardi dell’auditorium!
21:15 desistiamo fra i clacson e l’esasperazione!
21:23 apriamo una breccia nella coda immobile, invertiamo la marcia e fuggiamo impazziti verso Pistoia dove troviamo una splendida piazza italiana, un ristorante delizioso e del Barco Reale di Carmignano per annegare i singhiozzi!
il concerto però è perduto!
mulatu2nello stesso pomeriggio partiva da Roma, verso nord, un uomo della provvidenza. un uomo con cui ci eravamo dati finalmente appuntamento! e quale occasione migliore ci si era detti!!!
Costantino Spineti (e chi se non lui?) a quel concerto è riuscito ad arrivare!
e siccome avrei voluto incontrarlo sotto quel palco e avrei voluto scrivere di ciò che avrei visto (sic!), gli ho chiesto di inviarmi due righe al volo e raccontarmi il suo Mulatu!
e per questo lo ringrazio e gli cedo la parola…

mulatu4di Costantino Spineti

Tanti chilometri di asfalto drenante grigioscuro… gauloises blondes… due caffè rigorosamente amari… un random musicale che mi sussurra all’orecchio che le coincidenze sono solo vecchie credenze popolari… ed eccomi a Firenze.
Flog… centro poli e multi valente dove si respira aria di lotta, di resistenza, di antifascismo, di antirazzismo e di vita vissuta sopra e sotto la pelle…
Dopo aver lasciato l’automobile parcheggiata su un albero… entro e faccio subito conoscenza.
Si parla di amici comuni che ancora non ho mai visto, si sente il loro odore di lontano, sono rimasti intrappolati nelle sabbie mobili delle metropoli occidentali… pericolosissimi pantani di monossido di carbonio, asfalto, e caselli autostradali… ma si parla anche di musica, di jazz, di vino, di cibo e di donne… i miei argomenti preferiti.
in disparte, dietro il palco,seduto da solo, intravedo un’ombra che mi appare da subito familiare…nella mano destra tiene stretta una forchetta, nella sinistra un cucchiaio, al centro un piatto di spaghetti fumanti…aguzzo la vista…ne sono quasi certo, mi avvicino guardando altrove, qualcuno direbbe “facendo il vago”, poi guardo meglio e il mio dubbio svanisce…è proprio lui…Re Mulatu alle prese con un piatto di spaghetti.Mi avvicino…ci guardiamo…io alzo la mano per salutarlo…lui, fa la stessa cosa, anzi, mi fa cenno di avvicinarmi, ed io non me lo faccio ripetere.
Con fare regale e con uno sguardo che non si può dimenticare, ci stringiamo la mano, ho ancora negli occhi il bianco accecante dei suoi denti…gli dico col mio inglese maccheronico (altra coincidenza?) che sono onorato di fare la sua conoscenza, e lui, ci è mancato poco che non mi invitasse a dividere la sua cena.Non credo riuscirò a dimenticare il saluto tribale che ci siamo scambiati: il pollice della mano destra poggiato sul pugno chiuso che colpisce due o tre volte ripetutamente la parte sinistra del torace… la parte del cuore…
Arrivederci Re Mulatu.
Eppoi arriva l’oceano…un oceano di suoni…il bianco ed il nero che si incontrano…il Sud del mondo prende nuova energia musicale facendo un giro verso Nord…forse dovremmo ringraziare tutti insieme all’unisono l’angloberlinese Strut records per tutto ciò… forse dovremmo ricordare tutti insieme che esistono altre vie d’uscita… forse dovremmo tenere a mente tutti insieme che la musica non muore mai… che non china mai il capo… davanti a niente.
Inspiration Information è un progetto musicale che supera i confini atavici tra tradizione nera e tradizione bianca mescolando generi diversi, è vera fusion (e) creativa di ritmi, di suoni, e di colori. Re Mulatu, è veramente una divinità… riesce a farsi sentire anche quando non suona, quando (come ieri) accenna con perfezione geometrica accordi musicali che permettono al collettivo inglese  Heliocentrics, capitanato da un batterista visionario dal nome Malcom Catto che suona  con gli “occhiali da lettura sulla punta del naso”, di esprimere tutta la loro essenza fuzz lisergica.
Il loro jazz funk elettronico afromiscelato da Re Mulatu Astatke diventa un viaggio verso il sole, che partendo da Sud, e passando per Nord, fa diventare la musica una prelibatezza per palati molto raffinati.

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Kath Bloom & Loren Connors Sing The Children Over / Sand In My Shoe

come già si disse e ancora si dirà: ho smesso da tempo di credere alle casualità!
ho smesso di crederci e tardo a costruire una valida alternativa al caos, per evidenti e instabili difficoltà, per mancata vocazione teologica e per insondabili ed ulteriori motivi che fatico ad associare. mi lascio sorprendere dal fato (questo sì!) e mi stupisco… e qualche volta annoto ciò che mi capita su questo blog.

da qualche mese mi sono lasciato sedurre da un doppio cd che raccoglie due lavori misconosciuti (a me) dei primissimi anni ’80: Kath Bloom e Loren Connors incisero Sing The Children Over (1982) e Sand In My Shoe (1983) mentre tutt’attorno la scena musicale prendeva decisamente altre e più caotiche direzioni. probabilmente rimasero oscurati e relegati a margine dal mercato e dalle tendenze dell’epoca, anche perché, la fragilità e la cifra della loro musica male si coniugava con le esigenze del tempo. un folk blues soffice e straniato che accennava timidamente all’avanguardia ma che affondava decisamente le sue radici nella tradizione americana ed in particolar modo in quella del grande cantautorato femminile.
oggi quei due dischi sono tornati disponibili in un lussu(ri)oso cofanetto per merito dell’australiana Chapter Music.

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Kath Bloom & Loren Connors Sing The Children Over / Sand In My Shoe

fragili e perfette creature acustiche, libretto, inediti e live performance. un gioiello che necessita necessaria contestualizzazione temporale. riportare il tutto a quel tempo che fu. e se oggi è facile ripensare a quel Robert Johnson riletto, ad alcuni traditional ricoperti di leggero blues e a quel suono che oggi non si esiterebbe a ribattezzare psych oppure alt folk, non dev’essere stato facile allora farsi paladini di una tradizione secolare che in quei giorni subì indifferenza e disattenzione.

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eccomi dunque giunto a quella casualità di cui sopra. mi spiego: quel suono e quella maniera di affrontare la materia folk non mi giungevano nuovi, ma era semplicemente una discrasia temporale. ciò che mi pareva “dopo” era in realtà un “prima”. tanta musica ascoltata in questi ultimi anni deve in realtà assai molto ad alcuni pionieri come furono Kath Bloom e Loren Connors.
e non deve infatti giungere inattesa questa compilation tributo alla musica della Bloom che proprio oggi (7 aprile) vede la luce per la stessa Chapter Music.

loving

Loving Takes This Course A Tribute to the Songs of Kath Bloom è l’omaggio che alcuni artisti rendono doverosamente. e qui giunge il caso che non è mai il caso! fra questi Devendra Banhart e Scout Niblett, Joey Burns e Mark Kozelek per citarne alcuni. ma la sorpresa giunge quando leggo fra questi nomi quello di Josephine Foster (in tour in Italia fra poco, e se ne riparlerà) che non è certo una sconosciuta di questo blog e quello di Bill Callahan osannato pochi giorni or sono su queste stesse pagine.
evidentemente ho smesso da tempo di credere alla casualità!
in attesa di poter offrire il piatto completo ecco un piccolo e splendido assaggio: Bill Callahan The Breeze/My Baby Cries

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