Musette Datum

Joel Danell è un ragazzo svedese. pianista e rosso di pelo. ama agghindarsi con abiti buffi e retrò e ha sviluppato nel tempo la piacevole mania di registrare su svariate cassette bozzetti sonori, melodie, memorie musicali. le ha datate, come pagine di un diario interiore e le ha poi conservate per lungo tempo. non molto di più potrei sapere oggi di lui, oltre che ama celarsi dietro lo pseudonimo di Musette e che ha da poco pubblicato il suo primo lavoro per l’etichetta Tona Serenad.
consetuedine e attitudine strana quella fra nordici e melodia. un felice e fruttuoso legame che ha (per me) motivazioni sconosciute, ma che di fatto esiste. prova ne è questo disco. una capacità di sintesi, direi quasi di essenza del pentagramma. una concentrazione per evaporazione del superflueo.
14 composizioni estrapolate da quel diario di cui sopra, riprese e rielaborate assieme ad un manipolo di amici con i loro strumenti acustici. Musette suona piano (oltre a chitarra e basso), Anton Stokes alla chitarra, Jon Eimre al dobro, Brita Westerman con violino e fischio, Lars Ekman fra acordeon e piano e December al tiny saxophone! nessun canto, se non quello di uccelletti registrati nel cinguettìo del mattino: sono loro che aprono il disco, e non potrebbe essere altrimenti!

Datum (Tona Serenad, 2009) è uno di quei dischi che non ti aspetti, che spiazzano e fanno viaggiare. un’aria francese che soffia da tutte le finestre aperte, cartoline dalla villeggiatura, Debussy che rimira il mare, il mare di Normandia fuori stagione. sarà per qualche accenno di valse o per inconfessata cultura pianistica classica, ma si respira davvero aria di vacanze, di passeggiate sulla marina in pomeriggi volutamente oziosi. tutto talmente semplice e limpido da disarmare.
i brani riportano date che sono solamente indicative, suggestioni stagionali. libera facoltà di chi ascolta. la mia ha mescolato tutto e mi ha portato direttamente oltralpe e fuori tempo, indietro. uno stabilimento termale della belle époque, Jules et Jim in bicicletta, Proust che spia dietro una vetrata liberty, una limonata fresca!

e per davvero c’è aria da colonna sonora, ma non sono certo se si tratti di una pellicola o di qualcosa d’altro, di una gita o di un sonno fra lini profumati. certo che quel fischiettare è un poco contagioso, indelebile segno di spensieratezza. c’è spazio anche per una malinconia appena accennata e per la fragilità di alcuni notturni provati e studiati nelle ore quiete. Musette (un poco di Francia è lui stesso a suggerirla…) si fa ritrarre con un completo imbarazzante in una stanza stracolma di suggestioni; credo sia consapevole della sua creatura fragile e di come un successo inatteso potrebbe spazzarla via. qualcuno se ne accorgerà presto e non esiterà a paragonarlo ad un novello Yann Tiersen, ma per ora pare una questione per pochi…
suoni, panorama e colori sospingono al vento caldo, al tempo espanso della beata nullafacenza, alle vacanze in colonia o alle gite fuori porta. come un libro caro o una cartolina dalla villeggiatura… portatelo con voi!

Musette Datum

Pubblicato in 2009 | 5 commenti

FUQUGI gransofa+nightingale

ho una pretesa di consapevolezza e di autodeterminazione, modesta per altro, ma ineluttabile. a 40 anni compiuti ho affinato la capacità di riconoscere in un solo istante una musica che invaderà il mio universo sonoro. è una percezione che (per fortuna) si ripete con medesime modalità e differenti forme. una cattura a cui cedo, una presa alla quale mi arrendo. giunge dall’agguato nascosto, inattesa e benvenuta come la pioggia. pochi istanti di suono e io sono irrimediabilmente rapito! è successo ancora, e di notte, quando rallenta e si svuota lo spazio, quando pare esserci più tempo e più buio, quando la radio ritorna al suo ruolo regale, alla sua nobile magia impalpabile. ancora battiti!

FUqugi photoDaiki Sakae è un chitarrista giapponese che ha scelto come nome d’arte FUQUGI. le poche note biografiche lo ritraggono abitante del sud del Giappone, Kagoshima, zona boschiva alla quale (banalmente) si attribuisce l’afflato bucolico delle sue musiche: è lì che vive, armato di una sola Gibson e di semplici effetti! nel 2005 aveva dato alla luce due cd-r per la propria etichetta: gransofa e nightingale. passato sotto l’egida dell’etichetta Plop ha deciso di riprendere in mano alcune di quelle composizioni e a queste aggiungerne altre. nasce così, semplicemente, il suo debutto: gransofa+nightingale.

FUQUGI cover

15 acquerelli per chitarra e delay. arpeggi e melodie al limite della povertà, per assenza e riduzione. nessuna parola, nessun field recording, niente elettronica! i limiti della tavolozza di Daiki Sakae sono intangibili e si collocano fra la colonna sonora di un road movie, la semantica del blues, l’idea minimalista che non muore e la capacità innata della sintesi orientale. il tutto dilatato, rallentato per dar luogo allo spazio e alla cinematica dei pensieri e delle figure che si accampano.

fuqugi fotolo stesso Daiki Sakae indica una possibile chiave d’ascolto nella contemplazione delle opere del suo pittore preferito: Mark Rothko. lo credo verosimile, se ne intuiscono colori e forme, ma non basta. l’ampiezza dello spettro sonoro, allargato a far luogo a meditazioni e contemplazioni, consente ben altro e ben di più. ciascuno può abitarlo, addobbarlo oppure svuotarlo ulteriormente. è materia dolcissima e calda, sin quasi facile: ma non si confonda la banalità con la semplicità!
io, come faccio spesso, lascio quest’opera a disposizione, perché l’ascolto conduca alla propria autodeterminazione, al proprio alfabeto. conosco il mio e lo sento parlare la stessa silenziosa lingua, incerta e fragile come questo disco.
nel gioco piccolo e sciocco dei dischi di questo tempo (e di altri ancora), se ne è aggiunto uno!

FUQUGI gransofa+nightingale

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Lionel Marchetti Musique.laclasse.com

mi sorprendo spesso in luoghi ameni dove la mia curiosità mi ha sospinto. calamitata da strane infatuazioni o da antiche frequentazioni. la musica sperimentale (elettroacustica, contemporanea, elettronica o concreta: mi sia permesso qui di generalizzare) ha sempre sortito su di me un duplice effetto: da una parte una naturale inclinazione conoscitiva, dall’altra incurabili intolleranze intellettuali, al limite del disturbo.
oscillo spesso fra i due sentimenti opposti, salvaguardando però a priori l’innata capacità che hanno queste musiche: quella di esplorare i confini di un possibile sonoro, di allargarne le maglie e di consentire di intravedere squarci di ipotetici futuri. dobbiamo questo oggi sonoro anche a grandi compositori e ricercatori che hanno affollato il secolo passato, pionieri che avranno dovuto combattere con muri mentali e conservazioni vetuste, e che magari hanno raggiunto solo oggi l’amarissima (e alquanto stupida) gloria postuma!

oggi (e qui dobbiamo stare) abbiamo musicisti come Lionel Marchetti. francese (quindi l’accento va in fondo), da oltre vent’anni ai confini di tutto ciò che musicalmente è considerato normale. non è qui che mi addentrerò in biografie o recensioni. è d’altro che, tramite lui, vorrei giungere a raccontare. di un’esperienza formativa, scolastica ed educativa alla musica tenutasi in Francia nel quadriennio 2003/2006. Département Rhône (potremmo pensarla come una nostra provincia)! qualche solerte e lungimirante amministratore pensa bene di informatizzare il dipartimento e istituire un progetto che porta il nome di Erasme, e attraverso questo di istituire un lavoro pedagogico nella scuola media superiore per l’ascolto e la creazione di musica concreta o elettroacustica. a Lionel Marchetti viene affidato il compito di tenere vari workshop e laboratori nel corso dell’anno scolastico, fino a giungere alla realizzazione di un lavoro collettivo.

laclasse-frontnasce così Musique.laclasse.com, un cd scaricabile gratuitamente e soprattutto un sito davvero intrigante. sembra di stare in un pac-man lisergico, ma in realtà i vari pupazzetti non sono altro che i lavori sonori dei singoli alunni, scaribabili e fruibili per ulteriori rielaborazioni. suddivisi per i vari anni scolastici (2003, 2004, 2005) i sampler sono il frutto dell’elaborazione sonora dei ragazzi, della loro ricerca di fonti acustiche successivamente processata da Marchetti!

direi dunque che non è propriamente alla specifica disquisizione musicale che si dovrebbe porre attenzione, ma piuttosto alla didattica e alla lungimiranza di amministrazioni scolastiche ben diverse dalle nostre. l’educazione musicale nelle sue forme più estreme credo coincida con l’urgenza e la curiosità di quella fase adolescenziale in cui formiamo le nostre attitudini e modalità d’ascolto. nonchè quelle creative. credo si potrà convenire sul fatto che molta della nostra analfabetizzazione musicale nazionale derivi proprio dall’educazione (non) ricevuta in quella fragile fase della nostra vita!

laclasse retroil disco si compone di 38 brani. viene consigliato l’ascolto aleatorio o casuale che dir si voglia: risalteranno le varie tracce di silenzio inserite nella scaletta, le fantasie acustiche di adolescenti e le stramberie sonore di possibili (futuri) creatori di musiche altre. un’operazione che ci tenevo a segnalare e a sottoporre a chi vorrà…

Lionel Marchetti Musique.laclasse,com

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Billie Holiday Lady In "Rehearse"

nel suo prezioso Scritti nell’Anima edito per la Tuttle Edizioni (quella di BlowUp), Eddy Cilìa ribadisce un concetto che già altrove aveva espresso caparbiamente: l’ascolto della voce di Billie Holiday nel disco Lady In Satin (sua ultima incisione, un anno prima della morte) è qualcosa di straziante, doloroso e talmente insostenibile da dover interromperne l’ascolto. niente di più vero! e oggi l’ho capisco assai bene! è che quel disco è stato il mio primo incontro con Lady Day! sotto forma di audiocassetta dentro l’automobile di mio padre: era probabilmente il 1976, io avevo 8 anni e Billie Holiday l’eternità di fronte! una folgorazione, è bene dirselo!
da allora la mia passione per quella voce è dovuta correre a ritroso, a riscoprirne le origini e il principio. a ritrovare la scintillanza di un timbro, la dinamica e lo swing, pur sempre avendo nella corteccia cerebrale quella voce dei suoi ultimi giorni. voce paradigmatica di un’esistenza, specchio di un declino e cifra indissolubile del ‘900. chi sta scrivendo è un fan, di quelli maniaci e persino cocciuti. qualcuno che per insaziabile necessità ha voluto possedere tutte le registrazioni della signora del blues e avrebbe voluto andare oltre. quindi ho mandato a memoria così tante incisioni e concerti da confondere dischi e tempi. come un cane di Pavlov comincio a vibrare al solo sentire quella voce. ma da fan ho trovato particolare soddisfazione morbosa nel cofanetto antologico della Verve.

on verveThe Complete Billie Holiday on Verve 1945-1959 è qualcosa di imprescindibile! 10 cd e un libretto monumentale, 12 ore di incisioni, una vita che si racconta e si canta! ma la delizia per insaziabili fans è racchiusa in una serie di discussioni, dialoghi e chiacchere catturate negli studi d’incisione e inserite nell’opera. è allora che quella voce torna a scendere (o a salire?) a livello umano, nel quotidiano di sospiri, risate e raucedini. dissertazioni tecniche e storielle, false partenze, telefonate: c’è spazio per una normalità che sbalordisce, l’umano sconsacrato e ordinario. è un poco come sbirciare dalla serratura e spiare un segreto che in realtà non esiste! esistono quelle conversazioni, fra tintinnare di bicchieri, finestre aperte sugli schiamazzi di bambini e accordi di pianoforte accennati. anche questo è dolcissimo e straziante, come Lady In Satin, come la parabola della sua vita.
ho raccolto quelle brevi incisioni estrapolandole dal resto, facendole brillare per nudità e concretezza. ascoltate così di seguito suonano come una memoria senza passato, come uno sguardo senza giudizio. a me commuovono, ciascuno ne faccia ciò che vuole…

Billie Holiday Lady In “Rehearse”

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…e poi ho deciso di andare a votare!

dopo meditazioni sottocutanee, contrizioni e slanci illogici, ho deciso di andare a votare!
mi permetto alcune riflessioni (utili a me per ricucire un ragionamento sfilacciato): il mio primo e più importante imprinting politico è stato mio nonno. aveva un modo tutto suo di essere politico: selvatico e sanguigno, dolce e collerico. da lui credo di aver ereditato più di un tratto somatico. per la maggior parte delle ultime tornate elettorali sono stato sospinto dalle sue ultime volontà, dai suoi racconti partigiani e da quel dito indice alzato in segno di ammonizione democratica. sono praticamente andato a votare per lui! lo rifarò!
rispetto chi propone di saltare un giro, chi vuole vendere simbolicamente il proprio voto e chi, stufo, a votare non andrà. credo di capire! credo altresì che l’espressione del voto sia una maniera di demolire le proprie inclinazioni individualistiche: tornare a mischiarsi, a contare per uno, a rappresentare nel caotico vociferare della massa! contrizione (l’ho già detto) di fronte allo scetticismo della rappresentazione democratica! sono combattuto (anche questo ho già detto), altrimenti non starei qui a scrivere.
sono rimasto sorpreso nello scoprire due blog fraterni esporsi: Luca e Diego (Kekko in realtà: con il quale sono in preoccupante accordo)! li leggo come segnali: non so di cosa, ma segnalano!
sono contrario al voto segreto! fortemente contrario! prometto sempiterna sudditanza a chi avrà il coraggio di proporre in parlamento il voto palese. e a far sì che accada! vorrei sempre sapere con chi sto parlando, vorrei poter guardare in faccia chi ho di fronte! io non ho mai avuto problemi a rispondere a chi mi domandava che cosa avessi votato: vorrei poter continuare!

voterò Sinistra e Libertà ed esprimerò tre preferenze perchè questo mi permettono di fare!
voterò per Nichi Vendola perchè parla una lingua che riconosco!

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=HO0j3MsDbEk&eurl=http%3A%2F%2Fwww.sinistraeliberta.it%2Fcandidati%2F%3Fregione%3Dnordorientale&feature=player_embedded]

voterò per Alessandro Bottoni perché difende tematiche che mi riguardano!

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=E6u88Ll7uGU&eurl=http%3A%2F%2Fwww.lucasartoni.com%2Fpolitica%2Fio-votero-alessandro-bottoni%2F&feature=player_embedded]

voterò per Lisa Clark perchè guarda al mondo così come io lo guardo! (non ho ancora capito se è candidata nella mia circoscrizione: lo scoprirò!)

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=nzpZLEmA-JA&eurl=http%3A%2F%2Fwww.lisaclark.eu%2F&feature=player_embedded]

mi sia perdonata la confusione espositiva, ma alberga in me. e in più l’argomento è di quelli che mi mettono a soqquadro! potrebbe succedere che mi pentirò di queste parole, dello stesso voto appena uscito dall’urna e di questa dichiarazione d’intenti della quale mi sorprendo: è già successo, involontaria e cocciuta abitudine, e succederà ancora! ma avevo bisogno di questa onestà con me stesso, un dentro/fuori che mi togliesse di dosso un senso di indeterminatezza!

p.s.
oggi avrei voluto parlare d’altro, ma tant’è, lunedì queste mie parole non avrebbero avuto molto più senso!
avrei detto di un film doloroso, dritto in faccia come un pugno: ma per fortuna alice lo ha saputo fare assai meglio!
avrei detto che stanotte a battiti verrà trasmessa una parte del concerto romano di Mulatu Astatke & The Heliocentrics (un bel souvenir per gli amici che vi parteciparono)!
ma in qualche modo l’ho detto!

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Ko To Tamo Peva (Ко то тамо пева)

credo ci siano svariati modi per approcciare una terra straniera, per pensare un viaggio. i Balcani mi corrono incontro verso la fine di giugno e io comincio a sciorinare l’improbabile metodologia di apprendimento. tecnica mista e pressoché incerta, indeterminata. consiste nel drizzare le orecchie ad est, annusarne gli odori e captarne le ondulazioni di frequenza sulle medie modulazioni. provo a leggerne un poco di più e un poco oltre, ricordare i motivi (tutt’ora insondabili) di uno sterminio e ascoltare la voce di vecchi e nuovi profeti. rovisto fra le arti, la musica in primis, alla ricerca di un linguaggio comune, parlabile, edibile. e mi imbatto nel cinema, in curiosa coincidenza con altre ricerche che alice persegue su gitani, rom e nomadi. un film dunque: resto pur sempre restìo a parlare di cinema, per analfabetizzazione, per mutismo cinetico e perché credo che i film vadano visti da soli e poi zitti a letto! ma per questa volta valga una segnalazione!
Ko To Tamo Peva (Ко то тамо пева, 1980) è un film yugoslavo (allora lo era!) scritto da Dušan Kovačević e diretto da Slobodan Šijan: una vera sorpresa!
è il 5 aprile 1941 (un giorno prima dell’invasione nazista) in un luogo indeterminato nel cuore della Serbia; un’improbabile fermata d’autobus è popolata da passeggeri diretti a Belgrado! sono in attesa di un vecchio pullman della mirabile ditta Krstić & Son (padre e figlio che da soli basterebbero a sorreggere la sceneggiatura)! due musicisti zingari, un germanofilo, un cacciatore sbadato, un veterano di guerra, un ipocondriaco, un aspirante cantante, una coppia male assortita di giovani sposi e i due titolari dell’impresa di trasporti!
può avere inizio un vero e proprio road movie surreale, archetipo e precursore di molto cinema balcanico giunto in seguito! vicende sghembe e inciampi improbabili protrarranno il viaggio oltre il limite previsto, fino a farlo giungere a Belgrado in concomitanza delle truppe tedesche. tutta qui la sinossi: tutta e niente!
poesia popolare, storie di ceppi ed etnie, miscugli di regioni e di lingue. storie di uomini. un Aspettando Godot corale punteggiato da goffaggini e assurdità. storie di canzoni, di vendette familiari e di carne (proibita e alla griglia) innaffiata di rakija. pretese contadine e avidità ataviche fanno beccheggiare il vascello corriera, alla deriva fra paesaggi perduti, nebbie, fiumi e ponti. sparizioni, morti apparenti e scaramanzie di un realismo magico balcanico.

ko to tam pevae con la musica sempre presente: del resto il titolo del film chiede Chi sta cantando là? una spina dorsale di fisarmoniche, cymbalon e canti tengono il film dritto ed eretto. a cominciare dalla figura dei due gitani che come due aedi greci guardano fisso in camera e narrano le vicende e le sventure degli undici personaggi in cerca di buona sorte. così si apre il film (e basterebbero i primi due minuti a renderlo indimenticabile)…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=0uCTJ7hkX-k]

rimango dell’idea che le pellicole non si dovrebbero raccontare e tanto meno consigliare, soprattutto da chi non sa farlo come me. infatti voglio qui solo dichiarare di averlo veduto. annotarlo. la difficile reperibilità consiglia un torrent, i sottotitoli e pure brandelli di colonna sonora (che pare introvabile).
credo sia tutto!
è tutto!

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Baby Dee & John Contreras Love Is Stronger Than Death

spesso e silenziosamente ci rimugino, mi stupisco e non mi capicito di quanta e quale rivoluzione abbia portato l’avvento della rete nella circolazione della musica. e non mi viene di proferire giudizio. forse perché le rivoluzioni non si giudicano; almeno finchè non sono terminate!
e ora, volenti o nolenti, ci siamo dentro fino al collo!
strano tempo questo. strano tempo il mio nel quale mi scindo fra l’uomo adulto che vorrebbe comprendere e capire, osservare e trarne sensate opinioni e il bambino nel paese dei balocchi, quello che neppure si sarebbe potuto immaginare che tutto questo sarebbe stato possibile. uno sconfinato orizzonte di musiche a disposizione ad abbracciare il tempo, passato e futuribile, e lo spazio, quello dietro la porta di casa fino ai luoghi che giammai raggiungerò!
ma anche per oggi l’asino di Buridano non morirà!
babydeecoverfrontè il novembre 2007 a Copenhagen. l’artista Martin Erik Andersen si cimenta nell’allestimento di una sua perfomance. al progetto di installazione di sue opere prendono parte anche le musiche di Baby Dee accompagnate al violoncello da John Contreras. il duo esegue 8 brani che vengono successivamente incisi e stampati in lacca vinilica purpurea. 250 copie da distribuirsi ai visitatori della Dansk Jävla exhibition, nel gennaio 2008 a Charlottenborg.
purplevinylanasce così Love Is Stronger Than Death per l’etichetta danese Bragagild. Baby Dee, arpa e voce; John Contreras, violoncello: presa diretta imperfetta e calore analogico di antico sapore. otto particelle di bellezza, compiute e raccolte come un libro di preghiere. mi stavo sforzando di trovare un singolo sostantivo per descrivere le composizioni di Baby Dee e mi arrendo alla molteplicità imperfetta del suo creare. forse un lied, una Gesänge profana, la torch song oscura, oppure un madrigale post-moderno, canto di devozione e vocazione amorosa. tutto questo e altro.
sospeso e annulato il tempo, dilatato lo spazio per dar luogo alla voce di Baby Dee: inquieta ed incerta, in oscillazione dal falsetto al gutturale passando dal portamento classico da bel canto. voce fremente nella quale albergano le anime di Baby Dee: il ghigno acido, il sussurro e lo sghignazzo e poi il portamento tenorile, il menestrello efebico e le aberrazioni endocrinologiche del suo mutare ed essere transgender!

babydeeBaby Dee è probabilmente una delle più belle cose che sta capitando alla musica d’autore contemporanea. molti ancora non sanno e troppi mai sapranno. la sua stravaganza e l’approccio eccentrico non fanno altro che confondere gli stolti e incarnare l’imperfetta vicenda umana di noi tutti. quel dondolare fra euforia e sconforto, nella salute incerta, fra l’odore di zolfo e il profumo di biancomangiare.
ecco dunque il disco, nella speranza di fare lieta sorpresa. nessuno però osi qui portare ad esempio o paragone Anthony e la sua musica. non sarebbe gradito. un po’ come come additare qualcuno perché non si recherà alle prossime urne, mentre quello ancora si rammarica per non essere giunto in tempo a votare Enrico Berlinguer!

Baby Dee & John Contreras Love Is Stronger Than Death

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Davide Reviati
Morti di Sonno

Il calcio è una cosa seria!
ce lo siamo ripetuti parecchie volte a notte fonda, quando i discorsi sono più sciolti, la lingua un poco gonfia e il tempo dalla nostra parte. e non c’è mai stato bisogno di precisare a quale calcio ci stessimo riferendo. lo abbiamo giocato entrambi, negli stessi anni, in due campetti probabilmente simili e della medesima città. ma diverso era il versante della periferia, quasi opposto! e distanza incolmabile per le nostre biciclette di allora che risulta impensabile che io e Davide ci saremmo mai potuti trovare uno contro l’altro.
oggi favoleggiamo di cosa sarebbe potuto accadere e gongoliamo nel ridicolo. io continuo ostinatamente a giocare e lui a maledire un ginocchio e a sventolare un se non mi fossi…! io a cercare di ricreare inutilmente l’idillio di un’infanzia, lui, assai più saggiamente, e meglio, a raccontarla – disegnandola!

davide_reviati_morti_di_sonno_fumetto

Morti di Sonno (Coconino Press) è l’ultimo lavoro di Davide Reviati. la mia poca frequentazione con il fumetto mi spinge a farmi suggerire che si tratta di una graphic novel: qualsiasi cosa voglia dire io so che dietro c’è un grande impegno e altrettante notti di lavoro, le stesse che lo hanno allontanato dalle futili chiacchere e dalle ore piccole viziate.
una storia narrata da dentro e resa per difetto, in contrasto, in riduzione. quel poco è di più che dovrebbe illuminare altri e più ampi orizzonti! fuoriesco ora dalla terza lettura e mi ritrovo smarrito e stordito dopo tanta leggerezza di narrazione, dopo quella sobrietà che però lascia il segno. segno scuro e amaro!
le vicende mi sono così familiari e allo stesso tempo cinicamente estranee; altre recensioni hanno la giusta prospettiva per riportare i fatti e i luoghi della vicenda dalla quale non riesco propriamente a distanziarmi.
preferisco immaginare quel campetto con in mezzo un palo della luce, formidabile e involontaria metafora. annusare la verzura dell’erba che si mischia all’acre sapore chimico del cielo ravennate, il colore delle ginocchia sbucciate, l’odore dei fossi a giugno e il sapore ferroso delle ferite e del sangue al naso.
è la luce di una memoria che in qualche modo è collettiva, la percezione di un’infanzia che pareva interminabile, intoccabile. e invece “può succedere che un’estate lunga dieci anni finisca in mezzo minuto. e non c’è niente di strano”. strano è invece ricordare, riavvolgere e recuperare. rivedere i volti e appicicarli ai rispettivi nomi, o viceversa. gli eroi dell’infanzia gonfiano il petto nel ricordo, ingigantiscono la statura all’orizzonte e accumulano mitologia e leggenda. la realtà è stata più cruda e più severa di ogni immaginazione, come sempre.

davide_reviati_morti_di_sonno_tavola

è per le avventure di coloro ai quali il libro è dedicato che vale la pena di parlare. per raccontare cosa c’era e c’è stato dopo, cosa resta e cosa manca. la felicità non ha margini di miglioramento! e forse per questo si è cercato di barattarla con altro, scommettendoci sopra.
qualche giorno addietro Maurizio Ribichini mi scrive per avvertirmi della meraviglia del libro di Davide. faccio mio il suo giudizio “tecnico” competente. poi mi chiede il suo numero per ringraziarlo personalmente. anch’io credo di dover ringraziare Davide e di permettermi di farlo qui (ma non mancherò di farlo appena lo vedrò), per aver sollevato un coperchio sul tempo che non tornerà. per averlo fatto sobriamente ed elegantemente, in bianco e nero e senza clamore, trattenendo gran parte del dolore e restituendo soltanto la parte immaginifica che sopravviverà alla pagina e alla memoria di chi ancora corre al crepuscolo!

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Henri Crolla

portraitper la maggior parte del tempo il vento della storia sbuffa forte a soffiar via i giorni e le ore di chi fu, di chi è passato. le spinge lontano, in un lontano introvabile. non restano tracce. ad altre vite invece, lo stesso vento, riserva la sorte di finire per appiccicarsi ad una giacca, ad un paltò. e quelle vite si mettono lì, in bella mostra, come una coccarda, un foulard o una pochette. ad altre, la stessa tramontana, gioca lo scherzo di soffiarle dentro una tasca o nella fodera attraverso un’asola. destino beffardo che non le fa scomparire del tutto, ma soltanto dimenticarle.
ad Henri Crolla è capitato di finire in un taschino, come una piuma o un foglietto scordato. non proprio perduto, e non certo di essere ritrovato. era nato nel 1920 per emigrare due anni dopo con la famiglia, da Napoli verso Parigi. troppo presto per essere ricordato quale italiano, ma fascismo e povertà, si sa, non giovano a nessuno. e ebbe in sorte il destino di morire francese, a soli 40 anni, ad un passo dalla grande notorietà e poco prima che quella nazione gli tributasse i meriti che gli spettavano. e che poi, dopo, gli spettò!
un migrante insomma, come i molti che oggi spostandosi fanno girare il pianeta e mischiare il sangue, e che renderanno questo posto migliore.
i suoi genitori erano musicisti di strada e per il piccolo Enrico (Rico) non fu difficile cominciare a strimpellare il banjo. con esso si esibiva fuori dai café parigini alla ricerca di qualche spicciolo. la sera però ritornava verso la periferia, nella cintura estrema della capitale, a Porte d’Italie, dove una specie di baraccopoli costituiva il villaggio degli emigranti italiani. ero lo stesso luogo dove approdavano altri migranti, le carovane di gitani. fu in uno di quei giorni degli anni ’30 e da uno di quei carrozzoni, che Crolla udì suonare una chitarra e se ne innamorò. il musicista gitano che la stava suonanando prese in simpatia il fanciullo e gli impartì qualche lezione e buoni consigli: quel chitarrista si chiamava Django Reinhardt!
credo che da qui possa partire la sua biografia che io non continuerò a raccontare perchè qualcuno l’ha già fatto assai meglio. il regista Nino Bizzarri realizzò nel 2005 il film documentario Piccolo Sole Vita e morte di Henri Crolla. io purtroppo non sono ancora riuscito a vederlo e sto cercando disperatamente la maniera di rintracciarlo. infatti, più che di informazione credo che questo post sia un appello: qualcuno può aiutarmi? due brevi spezzoni sono però presenti in rete…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=gXumxhwNDhQ]

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=-WcqYA-YpOs]

conosco però assai bene la sua musica, quel chitarrismo dolcissimo e oramai francese. si narra che non avesse mai appreso a pieno il linguaggio musicale, un piccolo analfabeta che seppe però trovare un suono denso e leggero, fra manouche e latino. erano i tempi che formarono una musica indimenticabile per l’Europa che si liberava dalla guerra. fra le inevitabili influenze del jazz americano e la nascente chanson francese che avrebbe segnato l’epoca. le collaborazioni di Crolla hanno nomi sinificativi: Prevert, Montand, Grapelli, Moustaki e la stessa Piaf per cui scrisse alcune canzoni. la sua vicenda e le sue biografie parlano di un carisma purissimo che segnava le esistenze di coloro che lo incontravano. ma a soli 40 anni, nel 1960, si spense il suo piccolo sole. a noi restano quei due occhi tristi e uno swing franco/partenopeo indimenticabile: per tutti gli altri aneddoti e per la vicenda umana rimando per ora al wikipedia francese mentre confido di poter vedere presto l’intero film di Bizzarri, o di leggere il libro Les Ballades de Crolla di Norbert Gabriel e Sophie Tournel (che la rete annuncia e nasconde allo stesso tempo).

Crolla groupanche la discografia di Henry Crolla è piuttosto varia e imprecisa. così come la serie di sue collaborazioni cinematografiche, sia in veste di attore che di compositore di colonne sonore. ci viene incontro la serie Jazz in Paris a cura della Gitanes Jazz Production. un catalogo di quasi 100 incisioni ristampate dal catalogo Mercury e Emarcy. a quello attingo affinchè il vento beffardo della memoria non sospinga nell’oblio uno suono e una vicenda che sarebbe sbagliato perdere!

Notre ami DjangoHenry Crolla & co Notre ami Django

Begin the BeguineHenry Crolla Begin the beguine

Quand refleuriront les lilas blancsHenri Crolla Quand fefleuriront les lilas blancs?

Le Long des RuesHenri Crolla Le long der rues

JIP-112-CROLLA_Henri-Jazz_Et_Cinema_Vol5-frontHenri Crolla Jazz & cinéma vol.5

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Geraldo Pino & The Heartbeats Heavy Heavy Heavy

ho una strana memoria a scaglie, porzionata e scomposta. sghemba e dissociata. si imbeve come una falda freatica e rilascia informazioni a suo piacimento. io la nutro di appunti, neuroni morenti e briciole di Pollicino. non saprei raccontare come funzioni esattamente, ma funziona. riemergono gangli dispersi e riaffiorano vecchi vascelli sommersi proprio mentre dimentico volti, nomi e chiavi. bighellonare in rete non sono certo che aiuti. tutt’al più esaspera.

il nome di Geraldo Pino (si può dimenticare un nome così?) gira in memoria da un po’ di tempo. da quanto mi capitò di ascoltarlo a notte fonda sulla mia radio preferita dopo aver letto qualche giorno prima della sua scomparsa. le solite non-coincidenze alle quali fingo di non fare più caso. mi procurai il disco in questione e restai basito e rincoglionito nella meraviglia. una di quelle (ri)scoperte che mettono in pace l’ingordigia musicale con la mia curiosità!
ma le liete sorprese non finivano lì!
è proprio mentre mi accingo a scrivere due righe in questo luogo che mi accorgo che meglio di quanto io potessi, e assai più competentemente, qualcuno ne aveva già scritto. Giulio Mario Rampelli non credo sia un nome nuovo per chi frequenta queste sponde. la sua passione passione per l’Africa e la sua cultura, il suo prodigarsi per la diffusione di quella musica e il blog T.P. Africa sono una delle fortune che mi sono capitate inoltrandomi in questa avventura in rete. la fortuna di aver fatto la sua conoscenza e di poter contribuire a sostenere le sue iniziative.
è per questo che mi permetto di copiare ed incollare la sua recensione apparsa tempo addietro su Music on TnT. con il suo permesso e con il mio sentito ringraziamento.

pino_gerald_heavyheav_101bGeraldo Pino & The Heartbeats
Heavy Heavy Heavy

di Giulio Mario Rampelli

“Stavo suonando Highlife Jazz – disse una volta Fela Kuti – quando Geraldo Pino venne in città, nel ’66 o poco prima, portando il suo soul. Era qualcosa che stava al di sopra di tutto. Portò con sé in città la musica di James Brown, cantando “Hey, Hey, I feel all right”, con un equipaggiamento audio che nessuno aveva mai visto. In breve tempo quell’uomo fece Lagos a pezzi. Wow, aveva la Nigeria intera in tasca. ”
“Aveva tutto ciò che io non avevo. Per tre giorni suonò a Lagos, poi si recò al nord per un mese, tornando ancora a Lagos altri cinque giorni. Poi partì per il Ghana. Quello che mi preoccupava realmente era che lui sarebbe tornato ancora in Nigeria. Ripensando all’impatto che quel fottuto aveva ottenuto a Lagos, quello che avevo in testa è che avrei voluto fuggire, sparire. Andare lontano, in America. Cercare in qualche modo la mia strada. Farlo da solo, perché mi dicevo che non avrei potuto far nulla con quell’uomo in giro anche in Nigeria. Dopo che quel fottutissimo Pino aveva conquistato la scena, non c’era più un cazzo di niente che avrei potuto fare a Lagos”. (tratto da Fela, Fela, This Bitch of a Life , a cura di Carlos Moore, London, 1982). Le parole di Fela non possono non accendere la nostra curiosità.
Il mio primo incontro con la musica di Geraldo Pino fu grazie a un brano contenuto nella compilation Afro-Rock Volume 1, della nuiorchese Evolver (2002, Evolver, EVL2002-2). Era un funky trascinante, dal titolo evocativo di Heavy Heavy Heavy, con un groove irresistibile e uno straordinario hammond in primo piano. Ma era un solo brano. L’anno scorso la Soundway Records , la stessa di Ghana Soundz, ha pubblicato due LP di Geraldo Pino registrati all’inizio degli anni ’70, Let’s have a Party (SNDWLP005) e Afro Soco Soul Live (SNDWLP006), che assieme sono stati pubblicati su CD da Retroafric. Una rivelazione.
A questo punto facciamo un passo indietro. La Sierra Leone è una ex colonia inglese sulla costa del golfo di Guinea, tra la Liberia e la Guinea Conakry. Indipendente dal 1961, la Sierra Leone è, assieme alla Liberia, tristemente nota per la sanguinaria guerra civile durata oltre 10 anni, che ha visto la drammatica partecipazione di truppe di bambini soldato e che si è conclusa nel 2001, lasciando un paese devastato sia socialmente che economicamente, nonostante l’incredibile ricchezza di materie prime, tra cui metalli e pietre preziose. Musicalmente, della Sierra Leone si conosce il gumbe di Ebenezer Calender, il palm wine di S.E. Rogue e qualche nuovo giovane artista, come Seydu o il rapper residente a Londra Abdul T-Jay.
Nel capitolo dedicato alla Sierra Leone della prestigiosa Rough Guide to World Music, di Geraldo Pino non vi è traccia. Forse è per questo che, nelle note di copertina, egli viene definito “un eroe dimenticato della musica popolare africana”. Eppure il sierraleoniano Geraldo Pino fu tra i primi a fare funky soul in Africa occidentale. Nel 1960 formò il suo gruppo, gli Heartbeats, che suonavano cover di musica angloamericana, alle quali affiancarono presto rumbe e cha cha cha, come voleva il gusto africano dell’epoca. Fu allora che latinizzò il suo nome, che originariamente era Gerald Pine.
Nonostante il cambio del nome, la sua specialità rimaneva il funky, che suonava assieme alla sua band nei locali di Freetown come il Flamingo, il Palm Beach e il Tiwana. Alla fine degli anni ’60 rimase folgorato dalla psichedelia che arrivava dall’Inghilterra, e decise di modernizzare il sound degli Heartbeats aggiungendovi le tastiere. A Geraldo alla voce solista e chitarra, in Heavy Heavy Heavy si affiancano dunque un’altra chitarra, le tastiere in primo piano, una sezione ritmica formata da basso, batteria e percussioni e il coro. In sintonia con i tempi, i temi delle canzoni sono spesso politico sociali, come il black power e l’unità degli africani.
I primi sei brani sono registrati in studio, mentre i secondi sei sono dal vivo. E’ stupefacente come, a parte la presenza del pubblico, nel passaggio da uno all’altro non si avverta una differenza significativa, sia nella qualità del suono che nell’equilibrio tra strumenti differenti. Quindi, ancora una produzione strepitosa targata Soundway Records / RetroAfric, povera soltanto nelle note di copertina.
Ma tutto ciò mi sembra avere poca importanza rispetto al groove devastante, che conferma pienamente le parole di Fela. In realtà è irrilevante anche che questa musica venga dall’Africa, e lo scrivo anche perché in qualche passaggio può risultare persino difficile accorgersene.
In poche parole, Geraldo Pino può permettersi di non chinare la testa di fronte agli eroi del soul e del funky a stelle e strisce, anche di quello piò sporco e profondo. Non esistono brani deboli negli oltre 70 minuti di musica di questo Heavy Heavy Heavy. E’ semplicemente solido, martellante e scuro funky groove, con voci graffianti, basso e batteria in tiro continuo, interminabili assoli di organo e chitarre ritmiche in continuo rinforzo. Ascoltare per credere.

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