Dave Cloud & The Gospel of Power Fever

non sono mai riuscito a fare davvero pace con l’idea del decesso del R’n’R: non si tratta propriamente di elaborazione del lutto quanto piuttosto di una specie di rabbia soffocata nella mancanza. incapace di rifugiarmi nel decennio d’oro del genere (leggi ’60) e piuttosto infastidito da scimmiottamenti contemporanei, vivo l’assenza trastullandomi fra altre musiche aliene e melodie del mondo tutto. ma l’imprinting ha le sue regole e le cicatrici adolescenziali fanno prurito.
per questo sobbalzo sulla sedia quando mi imbatto in una sacca di resistenza rimasta pura e incontaminata. una cellula dormiente nascosta al mondo dei più e perfettamente conservata per 20 anni nella semioscurità del luonge club Springwater di Nashville, Tennessee. più o meno dal 1979 al 1999 il piccolo palco del club ha avuto come artista residente un outsider di razza.

Dave Cloud è uno di quei personaggi con cui si rischia di non venire giammai in contatto, e sarebbe un peccato. un partigiano dello spitito immortale del R’n’R nato e cresciuto in quella Nashville foriera di artisti e musiche immortali: lì è sempre rimasto a difendere il proprio afflato delirante alle radici dell’attitudine rocker americana, in bilico fra il crooning malsano e la ballata malata, non disdegnando affatto la chitarra in feedback e gli amplificatori sovraccarichi.

è il 1999 quando qualcuno lo convince finalmente ad incidere su disco le canzoni che da anni suona e canta nel club. Dave Cloud Presents …Songs I Will Always Sing esce per la Bloodsucker in quell’anno e se non fosse che il ragazzo non è proprio più un ragazzo e che la materia incisa è caustica, sghemba e sconveniente (nonchè fuori tempo massimo) sarebbe dovuto essere un successo planetario, ma la leggenda del R’n’R non prevede questo genere di favole.
cimentarsi nella descrizione di questo looser potrebbe richiedere una lista impropria di nomi e ascendenze. non sarà difficile riconoscere tanti parenti stretti e cugini affini e il suono lo collocherà esattamente laddove la cultura propria dell’ascoltatore lo dovrà collocare. a me quella voce alcolica e fumosa ha sempre fatto pensare più ad uno scrittore che a un musicista: un Charles Bukowski prestato al r’n’r. cinico, irriverente, scazzato e autoironico nel narrare storie da bancone, canzoni da club all’ora di chiusura.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=hXSBVEepu-8]

la discografia è rimasta perlopiù scarsa e l’attività allo Springwater non si è fermata (il video sopra è del 2006). la Fire Records lo ha accolto in scuderia e l’ultima nuova discografica è un Ep di sei brani che fotografano perfettamente lo stato attuale del songwriting ebbro del nostro Dave Cloud.

Fever (Fire Records, 2009) incorpora una cover degli Stones (The Citadel) tanto per far comprendere a quale sponda (malsana) del R’n’R si vuole approdare. si tornerà di certo a parlare del ragazzo anche perché conosco i segnali che mi manda solitamente la mia modalità infatuazione. per ora siano bastanti il debutto e l’ultima uscita in ordine di tempo a tracciare le coordinate della parabola di una scheggia impazzita della storia della musica che rischiava di trascinare la sua scia luminosa lontano dai nostri occhi.
il R’n’R è morto, viva il R’n’R!

Pubblicato in 2009 | 8 commenti

MV & EE Liberty Rose

quando sarà definitivamente passata la sbornia folk (a questa parola ciascuno può aggiungere il prefisso/suffisso preferito, aggettivando a piacimento) di questo primo decennio del millennio, sarà interessante andare a controllare cosa e quanto resterà. trattasi di una speculazione puntuta e doverosa per separare la pula dal grano: sfido infatti chiunque a ricordare la miriade di gruppi e dischi che si sono susseguiti in questi anni. arduo compito.
è facile immaginare che ci si ricorderà solamente di coloro che hanno abbracciato il movimento per naturale inclinazione artistica, benedetti da una qualche ascendenza talentuosa e sinceramente devoti ad una causa che (fortunatamente o meno) si sono ritrovati proprio sotto l’occhio dell’hype. niente trucchi e niente inganni insomma.
di certo io mi ricorderò di Matt Valentine e Erika Elder oramai uniti (artisticamente e biblicamente) dall’acronimo MV & EE. forse perché sono sempre rimasti in quel margine, a lato, dove le trombe della celebrità non giungono e, anche per questo, è possibile costruire un possibile. isolamento agreste del Vermont, connubio boschivo, congiunzioni astrali ed artistiche e autodeterminazione cocciuta ai confini di un’allegra anarchia. lì uno studio di registrazione casalingo, qualche cane e una collezione vinilica da fare arrossire l’invidia.
la loro discografia è incerta, zoppa e fricchettona e per questo difficilmente ripercorribile a ritroso. se a questo ci si aggiunge la nascita di varie etichette e, a loro volta, di diversi cd-r per le rispettive, il compito si fa arduo e quasi rebus da completisti.
quello che è invece certo è il caparbio mantenimento di una coerenza nel percorrere il proprio cammino artistico al punto che il suono del duo diviene evidente e riconoscibile. è stato definito da loro stessi lunar ragas, e l’esplicazione non è neppure male. un frullato di psych-folk mescolato alla grande tradizione americana con un piede sui sentieri d’India e l’altro a schiacciare pedali d’effetistica sperimentale.

non fa eccezione un cd-r uscito in sordina a gennaio per la loro Child Of Microtones. la mancanza di una seppur minima promozione, la tiratura alquanto limitata (99 copie) e la distribuzione incerta non fanno altro che rimpascire il paradigma testé esposto.
e davvero bastano le prime note di questo Liberty Rose per riconoscere immediatamente il folk concreto e organico messo in piedi dal duo. sei brani spargoli fra improvvisazione lisergica e canzone con la collaborazione, negli ultimi due brani, dell’amico Matt Doc Dunn.

chitarre, armoniche, lap steel e cori saturi di riverberi lontani conducono i suoni per dilatazioni e volute sempre più prossime alla psichedelia che fu. Flow My Ray sembra una out-take del lato b di On the Beach. Right To Dry e Crow Jane Environs vere e proprio peregrinazioni desertiche. Out In The Space mischia roccia a sabbia lunare mentre Death Is My Friend è la più classica delle black ballad appalachiane. si chiude con Streams che conduce lontano coscienze e sponde oniriche, e più che un addio pare un arrivederci.

non mi resta altro da dire se non ciò che in realtà fatico ad esprimere: ossia l’assoluta concretezza organica e coerente dei due, che non fingono, non si atteggiano e non abbisognano di riscontri commerciali per pensarsi folkster. ci sono più che ci fanno insomma, e in realtà non potrebbero fare altrimenti. anche per questo il tempo passerà e loro, almeno da queste parti, comunque resteranno.

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DM Stith
Heavy Ghost Appendices

verso la fine dell’anno scorso non esitai a considerare DM Stith la più gradita sorpresa (cant)autoriale fra le varie e diverse ascoltate nel 2009. un disco cresciuto a dismisura ascolto dopo e ascolto e depositato come fuliggine nel profondo subconscio acustico che mi trascino dietro. è passato poco più di un anno dal suo debutto e in questo tempo l’Asthmatic Kitty non ha mancato di battere chiodi roventi: una serie di Ep omogenei hanno esplorato i dintorni e le vicinanze di questo novello cantore moderno.

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oggi, sapientemente, raccimola tutto il materiale pubblicato in questo tempo e lo integra con altrettante vedute panoramiche attorno al giovinastro di Buffalo, NY. un compendio, un gradito approfondimento che si è giustamente voluto chiamare appendice: un glossario sonoro ad esplicare la genesi e lo sviluppo artistico del cucciolo.
l’idea, sarà bene ammetterlo, è persino acuta: ragionavo a ritroso e, sulle prime,  non mi vengono in mente operazioni analoghe (a qualcuno sì?). e dire che di appendici da appendere a dischi monumentali ne avrei voluti eccome. la lista sarebbe più lunga che tediosa.DM Stith - Heavy Ghost Appendices (2010)Heavy Ghost Appendices (Asthmatic Kitty, 2010) consta di due dischi. nel primo vengono raccolte alcune versioni differenti, demo (preziosi) e una manciata di cover fra le quali segnalerei volentieri Suzanne di Randy Newman (perché nulla succede per caso) e una quantomai idonea Be My Baby delle Ronette. la statura (e la natura) del gracile DM Stith possiede già ciò che molti altri suoi colleghi cercheranno a lungo e invano: una cifra stilistica unica e solitaria che evidenzia il suo universo di riferimento e sottende inevitabilmete ad esso.
il secondo disco raccoglie dieci remix che tentano di rivestire di differenti abiti manichini scomodi e ingombranti per loro fattura sghemba e intransigente. qualcuno di questi dj preferisce aggiungere ridondando, altri sottraggono sapientemente, alcuni cavano sangue ritmico dalle rape ingessate. differenti visioni non confondono il volto emaciato del nostro piccolo grande uomo.

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una legge (commerciale?) costringe i debuttanti che hanno avuto la fortuna degli esordi a dover sottostare allo spauracchio confermativo della seconda prova: banale e illogica prassi che questa mala tempora esige ed infligge.
DM Stith giungerà di certo al secondo gradino della sua carriera e per ora non è dato sapere nulla, di certo questo compendio seicentesco è assai gradito da chi, come me, si acconteta volentieri della bellezza di un singolo disco seppure dovesse rimanere sparuto e solitario.
tutto ciò che verrà poi si soppeserà a tempo debito: per ora è piacevole scostare di poco i volumi in libreria per fare posto a questa appendice che fa bella mostra di sé a fianco di quel Heavy Ghost che resterà, malgrado tutto.

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The Books The Way Out

se c’è una cosa che ho imparato con il passare del tempo è quella di saper attendere tempo.
e così ho atteso.
5 anni sono lunghi, sono tempi di un tempo, quando si attendeva a lungo e a volte invano.
saper attendere produce attesa e desiderio, ansia e moltitudini di aspettative.
ora l’attesa è finita.
The Way Out è qui.
The Books passano a Temporary Records e danno vita al loro quarto lavoro (e mezzo).
il millennio, girando pagina, li ha voluti come pietra angolare, come epigoni di tutto ciò che li ha preceduti.
e dopo tanto attendere mi sia concesso il silenzio dello stupore e l’incanto muto della meraviglia.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=dM-q_bGRNi8]

forse ne riparlerò o forse no, poco importa.
The Books sono tornati…

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Mike Cooper: comunicazione di servizio e richiesta materiale

nel febbraio scorso occupai questo blog con un paio di post a proposito di Mike Cooper. due dischi giunti in lieta sicronia mi spinsero a raccontare prima della ristampa di Rayon Hula e successivamente di Blue Guitar: poi, malgrado la mia immersione nel pacifico dei suoi suoni proseguisse imperterrita, passai naturalmente a discorrere di altro, così come si fa sempre.
nel frattempo ho atteso che un uomo assai impegnato mi registrasse un’intervista hawaiana con lo stesso Cooper (ma è davvero assai impegnato e tutto è forse sfumato) e sono riuscito a perdermi un suo concerto bolognese per impegni inderogabili, nonché a ridistribuire una deliziosa trasmissione radiofonica da lui condotta per battiti. in questo mentre di tempo ricordo un risveglio domenicale alquanto rimbambito in cui controllando quache mail mi sorprendo di un commento lasciato sul blog.

Mike Cooper ringraziava del supporto e delle parole spese (Thanx for your support and comments. kupa.) e io timidamente provavo a restituire il ringraziamento.
l’altro giorno torna a scrivere sul blog e questa volta per una richiesta specifica:

Does somebody have photographs or video of Truth In The Abstract Blues concerts at Fanfulla please? We need some. Please contact me if yes – co******@***il.com

Thanx ‘in anticipo’

quel concerto si tenne il 24 febbraio scorso al circolo Fanfulla di Roma (Pigneto) e, neanche a farlo apposta, ne scrissi proprio qui l’uomo più indaffarato (di cui sopra) che conosco: Costantino Spineti.
se non ricordo male proprio lui mi disse di aver filmato parte del concerto assieme ad un amico: a questo punto giro a lui, e a tutti coloro che possono aiutare Mike Cooper, la sua richiesta iconografica.

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F.S.Blumm & Nils Frahm Music For Lovers, Music Versus Time

ragionavo di recente sulla definizione di home listening: etichetta che ho letto sovente per definire alcuni dischi dai confini poco chiari e di sfuggente categorizzazione. pensavo che la maggior parte degli ascolti sarebbe auspicabile avvenisse proprio in casa, o per lo meno in un ambiente protetto da disturbi esterni e indesiderati. ed è proprio per questo che mi sovveniva di rimando l’altra definizione che porta il nome di ambient. forse sono sinonimi? e nel bel mentre di questo dubbio mi torna alla mente una più vecchia etichetta che portava invece il nome di easy listening, oramai caduta in disuso fra il denigratorio e il disdicevole.
non utilizzerei propriamente nessuna di queste tre per cercare di raccontare questo disco che da quache giorno suona fra le mura domestiche, ma ciascuna di quelle definizioni ha con sé un poco di questo disco. lungi da me qualsiasi tentantivo di ridurre questa musica a capriccio d’arredamento, ma potrei azzardare a dire che assomiglia assai un oggetto semplice dentro l’ambiente di una casa.

F.S.Blumm e Nils Frahm l’hanno denominata Music For Lovers e/o Music Versus Time e consegnata all’etichetta Sonic Pieces. non mi permetto di contraddirli ma rivendico il diritto di attribuire a questa musica la funzionalità che più mi aggrada.
sarei tentato di dire musica da camera, e nel far questo allontanerei subito l’idea di corti settecentesche e clavicembali ben temperati e propenderei piuttosto per la cubatura volumetrica delle nostre stanze in piena luce, polverose e confuse quanto basta. una camera abitata e vissuta, l’ambiente quotidiano dove gli oggetti muovono passi indotti dai nostri gesti.
questa musica concreta da camera si appoggia su di uno scrittoio e fa bella mostra di sé come la copertina rugosa di un libro che attende di essere letto, un carillon a cui mancano due note, un cavatappi a cui siamo definitivamente affezionati.
9 composizioni sparse sul tavolo; acustiche e screziate di poca polvere ed elettronica. non abbastanza armoniche da obbedire a toniche o dominanti e non così inconsciamente azzardate da assomigliare a jazz, piuttosto canzoni disossate della verbosità e lasciate nell’impurezza di scricchiolìi, frusci e refoli.
un saggio geometra ligure asseriva con certezza di sapere ciò che non siamo e ciò che non vogliamo; mutuando le sue parole potrei dire altrettanto di questa musica, ma azzardo la definizione di domestica, buona per viaggiare immobili e restarsene nel guscio, uscendo di casa e fermandosi sull’uscio.

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Howe Gelb
A Band of Gypsies Alegrías

il sangue di generazioni di nomadi e gitani, in perenne movimento sulla crosta terrestre, deve aver lasciato residui nei meandri desossiribonucleici di uomini e donne ignari. fra di loro c’è chi non lo scoprirà mai, altri che ritroveranno sollievo e sospetto mettendosi in cammino e spostando la propria posizione, pochi fra questi, consapevoli, proveranno ad intraprendere il percorso arterioso al contrario per ritrovare in qualche luogo del globo la propria campìna o l’esplicazione della propria dromomania.
Howe Gelb appartiene senza dubbio a quest’ultima categoria. abbandonò tanto tempo addietro una via maestra di successo che andava allargandosi sotto i suoi piedi per scartare di fianco, deviare e avviarsi incontro ad un destino tanto sconosciuto quanto bramato. il deserto dell’Arizona, le housemobile, un cappello polveroso calato in testa e una chitarra sempre attorno non lo differenziano poi molto da certi capi famiglia rom (o sinti) che tessono le trame di famiglie vecchie come il mondo.

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negli ultimi anni il suo peregrinare per mondo lo ha mescolato indistintamente con la Danimarca o con un coro gospel canadese e di pari passo è andato il suo approccio sghembo e dinoccolato alla musica. la tradizione orale di popoli trasversali al mondo ha sempre fatto affidamento sulla capacità di portare con sé la propria cultura e le proprie canzoni. Gelb conserva la propria musica in qualche taschino del panciotto e la offre come tabacco a chi gli da il benvenuto in terra straniera.
gli echi di fiesta latina che giungono notturni aldilà della frontiera messicana non gli sono sconosciuti, ma è stato un passaggio spagnolo in quel di Còrdoba a farlo giungere in contatto con Fernando Vacas e la sua A Band of Gypsies. qualche jam ebbra e sconclusionata e l’idea di un disco in salsa flamenco/ispanica/gitana è venuta da sé.

FIRECD166_howegypsiesAlegrìas (Eureka, 2010) è la raccolta di una manciata di vecchie (nuove) canzoni rilette (ma soprattutto risuonate) assieme al collettivo gitano. l’amico John Parish è stato convocato per controllare i bottoni e gli studi spagnoli lasciati a disposizione per queste sessioni latine che hanno spostato i confini di queste canzoni allargandone gli orizzonti. per chi conosce Howe Gelb e la sua musica non si tratterà di eclatante novità: semi e germogli di confine latino affioravano già da un deserto calpestato e attraversato più volte. per chi giungesse novizio a questi suoni consiglerei di non perdere mai più di vista questo orizzonte e ripercorrerlo a ritroso per comprenderne la parabola itinerante.

l’iconografia chicana di un nomadismo occidentale è rispettata e doverosamente osservata. la copertina è particolarmente  meravigliosa (se si può dire) e l’unica cosa che mi sento di aggiungere è garantire che non si tratta di lacca di facciata ma di autentica transumanza fra le sponde di una frontiera che divide ciò che in realtà si appartiene. non ho altro da aggiungere se non lasciar spiegare al disco il miscuglio ematico che, da assai lontano, conduce e trasporta questa musica per il mondo.
avrei solamente un ultimo desiderio. ossia che qualcuno mostrasse a Howe Gelb la via per la madre Africa. poi sono certo che le cose accadrebbero da sole.

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L'Illusioniste un film de Sylvain Chomet

questa sera sarei voluto essere in terra di Francia. anche solo per un paio d’ore. il tempo necessario per trovare una sala cinematografica, pagare il mio biglietto e sprofondare nel velluto di una poltrona a godere dell’incanto fanciullesco di una prima che attendevo da un tempo immemore.
non saprei dire in quanti aspettassero trepidamente il “seguito” di quel lampo di tenerezza animata che fu Les Triplettes De Belleville. ciò che so è che io sono uno di loro!
due giorni addietro alice, che saggiamente tiene sempre aperta una finestra verso l’oltralpe, mi annuncia di avere una buona notizia per me. indovinello!?! con due enigmi e un mezzo rebus mi scervello e mi sciarado per giungere a comprendere che oggi, 16 giugno 2010, c’è il debutto francese del nuovo film di Sylvain Chomet. mi scapicollo a capofitto per saperne di ogni e di più e mi imbatto, con mia commossa sorpresa, nel trailer…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=N6l3BdVwv9k]

quella sagoma appartiene ad una sola persona! ad una persona che, malgrado manchi da troppo tempo, continua a farmi ridere con quella purezza innocente che dovrebbe nascondersi dietro ogni risata. il mio amato Jacques Tati di cui non riesco a dire troppo, e del quale non riuscirò mai a dire abbastanza. sfrucugliando fra i siti vengo a scoprire che si tratta in realtà di una sceneggiatura che scrisse lo stesso Tati sul finire dei ’50 e che non realizzò per vari e diversi motivi. Tati scomparve nel 1982 e da allora fu la figlia, Sophie Tatischeff, ad occuparsi dell’eredità artistica del padre. fu lei stessa a comprendere che nessun attore in carne ed ossa avrebbe mai potuto prendere le sembianze del padre e credette, saggiamente, che l’arte narrativa (e magica) di Sylvain Chomet potesse far rifiorire quella fragile sceneggiatura. era il 2000: il regista ne fu commosso. Sophie scomparirà un paio d’anni dopo e non vedrà la realizzazione di questo film del quale, io credo, sarebbe stata orgogliosa.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=Vbru4psfVbA&feature=related]

ora io, seguendo l’usanza del fratello di Rino Gaetano, non criticherò un film senza averlo prima veduto. anzi, avrei voluto pure tacere, non sapere, e non scoprire il sito ufficiale sin troppo debordante di immagini, suoni e mirabilia assortite. mi terrò da parte un poco di quello stupore necessario per festeggiare questa epifania e, per ora, appiccico con il naso all’insù a rimirare questo poster che raffigura indiscutibilmente la sagoma di Tati.
e aspettando le vergognose lungaggini della distribuzione italiana cercherò ogni maniera per poterlo vedere. mi si stringe un nodo in gola al solo pensiero di ritrovare quelle risate che anticipano in purezza ogni complessità umana, semplificando e spogliando la natura uguale e medesima di ogni essere vivente che sbaglia, tentenna e finisce teneramente con l’inciampare, goffo.
buonanotte, e sogni d’oro!

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Land Of Kush's Egyptian Light Orchestra Monogamy

credo che per questa volta sia bene partire dalla parte iconografica: la copertina. rinverdire quell’illogica e irrequieta usanza che spingeva molti ad acquistare vinili suggestionati unicamente dall’immagine di copertina. ecco, io all’immagine ritratta qui sotto non avrei potuto resitere. eleganza e inquietudine, bianco e nero e esotismo d’antan (ma il disco lo aspettavo ansioso e l’avrei acquistato anche se avesse avuto ritratti due gattini bagnati).

il visionario progetto di Sam Shalabi giunge al secondo capitolo e ingarbuglia la ragione sociale arricchendola della denominazione Egyptian Light Orchestra. siamo sempre in casa Constellation, la medesima che diede i natali a quel lampo ottundente che fu Against The Day: l’ensemble canadese (spurio) si arricchisce di altri elementi e supera agilmente le 20 unità circondandosi di nuove voci muliebri di scuderia.
Monogamy innanzitutto non è la logica conseguenza del precedente; è altrove, spiazzante e ubiquo. le press release d’etichetta ci informano di un concept riguardante le tematiche della vergogna e della sessualità nel contesto sociale attuale. la voce femminile sintetica e processata che attraversa il disco avrebbe potuto guastare qualsivoglia capolavoro, ma per fortuna, fallendo, produce l’effetto siliceo opposto.
il disco si muove per stanze attigue e non contigue nel sogno mediorientale di chi sogna di sognare un medioriente sognato. la diaspora, la lontananza o gli echi d’Intifada screziano ogni spigolo della partitura restituendo quella visione occidentale che fu già immensa nella vertigine di Howard Shore e Ornette Coleman per la colonna sonora di Naked Lunch.
noise, post-punk, eleganza cameristica si mischiano con Brecht/Weill che compongono per Sun Ra e l’irrequieta bellezza delle orchestre mediorientali. le voci (tutte femminili) che si alternano al microfono trattengono l’ensemble in terra d’occidente impedendole di approdare definitivamente nelle sabbie riarse persiane. ho immaginato, in un sogno (proibito) di una delle migliaia di notti, che le voci del disco si trasformassero in quella cruda e nuda di Cheikha Rimitti o in quella setosa e trascendente di Oum Kalsoum, ma come ogni sogno proibito al mattino non rimangono che effluvi di cumino e acredine di concerie marocchine.
con una boutade pleonastica sarebbe assai facile affermare di trovarsi di fronte ad uno dei dischi dell’anno, ma preferisco semplicemente attenermi ai suoni di questo lavoro e rallegrarmi che da qualche parte sulla tratta Montreal/Cairo si addensino ancora grumi densi di bellezza come questo.

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Boubacar Taoré Je Chanterai Pour Toi

esistono musicisti per i quali nutro uno strano sentimento protettivo che sconfina nella gelosia, dopo essere transitato per la frenesia di possesso. sentimento malsano, sia ben chiaro, del quale umilmente mi vergogno. l’ansia di proteggere e preservare qualcosa che mio non è, denota, già di per sé, sciocchezza e stoltezza. ci ho pensato più volte e sono giunto a comprendere che in realtà proteggo l’epifania di essere giunto a loro, della discoperta della loro musica e, per tentare di giustificarmi ulteriormente, del privato e intimo godimento che traggo dall’ascolto delle loro musiche.
il difetto dunque sta tutto nel negarli come un’Iscariota, fingendo, per difendere quel mio inscindibile e privato. non sbandiererò facilmente quei pochi nomi al vento e al ludibrio di un chiunque perché ho sempre il timore di gettare pietre dei fondali a grufolatori impuri. quei nomi non sono molti e stanno comodamente sulla punta delle dita di una sola mano. oggi, dopo parecchie decine di post depositati in questo luogo, dopo parecchi dischi condivisi e opinioni gettate sulla piazza sono abbastanza nudo e al sicuro in mezzo a lettori degni e consapevoli e mi sento finalmente sereno nel confidare il nome di uno di loro.

Boubacar Traoré è giunto nella mia vita nascosto dentro una compilation varia di (cosìddetto) blues africano che acquistai più di quindici anni fa. e fu immediatamente quell’epifania di cui ho detto più sopra, quegli incontri che riconosci immediatamente imprescindibili e irreversibili. debbo aver perso quel cd ma non l’irrefrenabile desiderio di ascoltare qualsiasi cosa avesse inciso questo chitarrista e cantante maliano. e così è stato.
in tutti questi anni ho coltivato segretamente il mio orto subsahariano lasciando che la voce calda e ipnotica di Boubacar mettesse radici nell’anima della mia terra e che i vortici circolari del suo chitarrismo arassero la sabbia calda.
così, mentre attendevo (e attendo) di poterlo vedere dal vivo, l’anno scorso chiedevo notizie più precise ai ragazzi di T.P. Africa che conoscono il Mali e i suoi musicisti: Alessandro Ciaccini mi svelò l’esistenza di un film documentario di produzione francese incentrato sulle vicende del mio eroe maliano.

Je Chanterai Pour Toi è stato realizzato da Jacques Sarasin nel 2002. dopo ricerche matte e disperatissime e svariati tentativi di acquisto online sono riuscito a procurarmi una copia del film per le vie che internet concede ai pellegrini.
e sono riuscito finalmente a vedere (e rivedere) il film.
non lo racconterò e non saprei farlo neppure compiutamente: dirò solamente che ogni percezione della profonda densità dell’anima di Boubacar Traoré è stata ingigantita dalla visione del film. il suo sguardo, la sua voce e le rughe eleganti del suo volto raccontano quella bellezza inenarrabile che hanno i giusti, uomini che sarebbero in grado si salvare il mondo se solo il mondo non fosse definitivamente compromesso.

il film è pieno di luce africana dolcissima, di musiche stregate e di paesaggi stordenti. e poi volti di passaggio che ridono, guardano e raccontano: Mamadou Sangaré porge la sua voce per narrare la vicenda di Boubacar Traoré, Malick Sidibé apre il suo negozio di fotografia, Madieye Niang accompagna con le sue percussioni e Dèmba-Kane Niang mostra l’orgoglio muliebre di una griot. Ali Farka Touré, immancabile, accompagna il nostro mentre passeggiano e suonano Diarabi.

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=EinV8Z3dyqk]

ho estratto dal film la title track ma essendo nel sentimento confessionale di raccontare e donare farò quello che vorrei venisse fatto a me. ecco a disposizione l’intero film (in 4 parti) in cui si narra la vicenda di un uomo africano che ha amato una donna (bellissima N.d.R.) dal nome Pierrette e che, dopo la sua scomparsa, ha deciso che avrebbe cantato per lei. il film è perlopiù in lingua francese e non è provvisto di sottotitoli, ma parla un linguaggio antico che non ha bisogno di nessuna traduzione.

part1 / part2 / part3 / part4

dal film è stata estratta anche la colonna sonora che segue polverosamente le peregrinazioni del film. si tratta di vere e proprie registrazioni d’ambiente sul set del film con quel caotico vociare sottostante che immagino debba accompagnare qualsiasi avvenimento in terra d’Africa.
un disco prezioso (e segreto si diceva) che se ne sta eretto e integro come la statura umana di quest’uomo africano. non c’è bisogno del film per comprendere l’immenso di queste musiche fragili e forti come l’anima di Boubacar Traoré.

Boubacar Traoré Je Chanterai Pour Toi

avevo detto che si sarebbe trattato di una confessione.
dunque eccola.

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