Uno Stornello Africano

poco meno di due mesi or sono, Costantino Spineti, nella sua rubrica ospitata su questo blog, si faceva carico di una promessa che giungeva da assai più lontano. si stava parlando di Ettore Petrolini, e in particolare dell’epigrafe che si può leggere (oggi) al Verano sulla tomba del grande attore romano: con la benedizione (e l’ispirazione) della grande Anna Magnani, ci si auspicava di poter riportare l’originale iscrizione di Trilussa sostituita dopo la distruzione avvenuta a causa dei bombardamenti alleati nella liberazione di Roma.

detto questo è bene aggiungere che forse non tutti conoscono l’entusiamo e la caparbietà di Costantino Spineti: la sua intraprendenza contagiosa ha fatto in modo che i timidi approcci fra questo blog (me medesimo) e i fratelli di TP Africa divenissero concreti trasformandosi in libagioni, calici alzati, strette di mano, concerti, chiacchere, scorribande radiofoniche e infiniti progetti ad alimentare il nostro tempo che verrà!

mentre sto scrivendo dall’italia occupata e perduta penso a Costantino e alla troupe di TP Africa partiti con due vettori diversi verso la madre Africa: si sono promessi reciprocamente un incontro laggiù – beati loro, aggiungo, torneranno con occhi, cuore e mani stracolmi di meraviglia! a me che resto sia permesso però celebrare il compleanno del sito e auspicare l’augurio per tutti i progetti che l’anno venturo porterà in grembo. non posso che farlo ospitando questo video che concretizza la promessa di Costantino e sustanzia la richiesta lasciandola intonare ai nuovi cittadini di Roma

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Maria Bethânia Encantaria/Tua

confesso di accogliere ogni nuova uscita discografica di Maria Bethânia con l’entusiasmo ventrale di un adolescente, una soddisfazione epidermica contagiosa ed una rinnovata infusione spirituale: e non credo di esagerare! i suoi dischi, da molti anni a questa parte, segnano il mio tempo e lo significano umilmente. mi emoziono sinceramente e per davvero: e ogni volta rinnovo l’enfasi di incontrarla nello splendore delle sue interpretazioni e in quella sua maestria che il tempo va ingigantendo!
alcuni suoi dischi sono appiccicati al mio privato inconfessabile (Mel, Ambar, Brasilerinho) e al mio sentire profondo. la sua voce, fra le poche femminili a sbaragliare la concorrenza maschile, ha un calore ed una profondità terapeutica: coniuga l’arte del narrare con il canto privato di una madre, un’afonia sensuale e l’esotismo di una lingua che ammalia. e a benedire tutto ciò una coerenza e una finissima qualità che 40 (e più) di carriera hanno reso iridescenti!

detto questo, mi domando e dico: cosa mai mi sento di esprimere di fronte all’uscita contemporanea di ben due dischi di Maria Bethânia? la notizia circolava in rete da un poco e io facevo il finto tonto per non eccedere in salivazione e scodinzolamenti, mantenendo una calma apparente. poi, ad un certo punto non c’è più stato nulla da fare e mi sono dovuto arrendere alla gioia e all’evidenza! si chiamano rispettivamente Encanteria e Tua e nascono sotto la medesima stella della Biscoito Fino, etichetta fortemente voluta e sostenuta dalla stessa cantante (a dire il vero il primo porta il vessillo produttivo della neonata Quitanda, ma di una branchia della casa madre pur sempre si tratta)! ma allora perchè due? e perché non un doppio? domande a cui non mi preme di rispondere e neppure dannarmi per sapere!

per chi ha dimistichezza con il portoghese brasiliano o (come me) si arrangia come può per comprendere sarà educativo ed eloquente il contenuto di questa intervista rilasciata per la presentazione dei due dischi: innanzitutto il pensiero rivolto a brani inediti sui quali potersi cimentare e poi una chiara ispirazione verso tre concetti basilari (altri la chiamano trinità) per il pensamento e la costituzione del proprio percorso artistico: amore, festa e devozione.
alla luce di questo non è difficile collocare Encanteria nella sempiterna esigenza di festa brasiliana: i ritmi nordestini,  la samba de roda, la samba macumba e lo xote la fanno da padrone – Bahia con i suoi ritmi a sovrintedere ogni batucada. non è però assai facile scindere la festa bahiana dalla devozione verso le diverse e variopinte divinità (orishas) della cultura nera costituì la grande anima afroamericana: e allora ritmi, acusticità, infinita classe e una danza sottintesa e festeggiante. quando poi a raggiungere la nostra regina giungono due dolci (e teneri) barbari come Gilberto Gil e Caetano Veloso la Saudade Dela può avere inizio.

Tua è devoto all’amore, all’amata devozione per l’amore! Maria Bethânia non ha mai nascosto la fonte d’ispirazione che da sempre l’ha guidata nella scelta dei brani da interpretare: questo disco prende il titolo da un brano di Adriana Calcanhotto (talento ereditario della nostra) e di appartenenza e devozione amorosa si parla. disco più sottile questo, dal respiro internazionale e vocato alla canzone nella sua purezza. brani ai quali le interpretazioni di Bethânia sanno donare la capacità del volo e della sinuosa leggerezza: ho sempre creduto che poche siano le dive capaci di trasformare una composizione musicale in qualcosa di assai più trascendentale e ultraterreno, fra di loro vi è lei!

nell’attesa di coronare il mio sogno segreto di assistere ad un suo concerto e continuando ad invidiare chi ben sa che lo sto invidiando, mi godo questo inatteso duplice dono: scusandomi per la melassa zuccherosa che ho spalmato in queste righe (lo so, ma a me lei mi fa così) sono felice di poterlo condividere con chi, come me, è afflitto da medesima devozione.

Maria Bethânia Encanteria

Maria Bethânia Tua

Pubblicato in 2009 | 7 commenti

all things amazing

debbo confessare di avere uno strano rapporto con la fotografia e con l’universo che la circonda. una specie di atto mancato, un incespicare della mia comprensione: non si tratta di repulsione ma piuttosto di colpevole indifferenza (a pensarci ora non ho mai posseduto una camera!) che si accompagna ad una insensata bramosia di vedere e rimirare pellicole impresse! coscienza scissa, dicotomia apparentemente inesplicabile: non amo farmi ritrarre e non saprei neppure dove cominciare a puntare l’obiettivo, ma trasecolo e mi emoziono di fronte a scatti capaci di giungere in un luogo della mia sensibilità dove le altre arti non giungono!

presuntuosamente mi penso capace di rubare qualche istante al tempo e di carpire istantanee che più spesso mi fanno ridere piuttosto che sentire, ma in realtà non saprei neppure da dove cominciare, e in realtà, da molto tempo ho abbandonato qualsiasi velleità reportistica. ma per far pace con me medesimo debbo nutrire la mia anima oftalmica, procurarle immagini e foraggiarla assai più possibile.

spasimo per possedere quelle pubblicazioni monumentali ed enormi che fanno bella mostra di loro dalle vetrine più leccorniose delle librerie: album fotografici dalle dimensioni sconsiderate e dalla patina lussuriosa. i grandi nomi della fotografia a rappresentare il grande secolo trascorso e immortalato nei loro scatti. ma il denaro scarseggia e gli occhi tengono più del portafoglio!

in più, la mia smania sarebbe anche assai più ampia, e ambirebbe agli album di famiglia e alle cartoline in bianco e nero, alle foto ricordo e ai souvenir: un vero e proprio voyeurismo onnivoro!

tutto questo pistolotto introduttivo non è altro che un silenzioso e mesto rullo di tamburi per introdurre una mirabilia che da più di due mesi lenisce e guarisce le mie pene: la rete (la famigerata e vituperata rete) non poteva che albergare il balsamo per curare la mia miopia bulimica!

all things amazing è una comunity di ferventi amanti di foto ed affini! ho indagato un poco ed ho scoperto che è nata poco più di anno e mezzo addietro, ma da allora sta marciando a ritmi sostenuti e preziosi. se mi chideste cosa sia esattamente una comunity mi cogliereste un poco impreparato: direi un social network peculiare e di certo meno celebre dei suoi più noti parenti! è fatto di persone (users iscritti) che si dilettano a pubblicare e commentare su di una piattaforma comune immagini e tutto ciò che gira attorno alla rappresentazione artistica e figurativa.

l’innamoramento che mi ha afflitto sin da subito è che il comune sentire di questa comunity corrisponde straordinariamente con quell’universo immaginario (proprio appunto delle immagini) di cui vorrei saziarmi!

naturalmente tutte le immagini di questo post provengono da lì! ma non solo di foto si tratta: è un vero e proprio ricettacolo di memorabilia, freakerie, bozzetti, schizzi, dagherrotipi. cartoline d’epoca, africanerie e carte postali: ritratti di celebrità e memorie di famiglia, souvenir e bric-à-brac improvvisato e caduco! è come vagabondare in qualche mercatino di pulci che rende celebri alcune capitali d’Europa e perdersi fra storia e memoria!

che faccia aveva (l’amato) Michail Bakunin? ma questa qui sopra: è ovvio!
il sito (la comunity) si sustenta di almeno una dozzina di pubblicazioni giornaliere, animata e sostenuta dai suoi iscritti: abbonarsi tramite un reader consentirà di ricevere quotidianamente un piccolo album casuale di raffigurazioni. dall’icona russa alle sperimentazioni dadaiste, Man Ray e Marylin assieme a nudi artistici e ritratti ritrovati in trincea!

un vero e proprio panoptikum al quale sono da tempo (e per sempre) affezionato: raccontarlo tutto sarebbe assai più stupido che improbabile. mi permetto piuttosto di presentarlo e di sperare che porti un poco di quel piacere che a me gentilmente arreca.
se così non fosse tolgo il disturbo concedendomi una di quelle divagazioni visive che ben contrastano con il buio, la neve e il gelo che ululano fuori dalla mia finestra.

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Ortometropolis/7 di Costantino Spineti

Aki Kaurismäki

and his Beautiful Losers

“Di solito, prima di girare, Timo Salminen, il mio direttore della fotografia, mi chiede di scegliere un colore da dare al film, e io regolarmente gli rispondo di farlo blu. Personalmente mi sento blu.”
(Aki Kaurismäki
)

Cinico e glaciale, delirante e poetico, surreale e ironico, grottesco e profondamente anarchico è il cinema di Aki Kaurismäki, regista finnico cinquantenne che vanta all’attivo una decina di film ed altrettante opere minori (solo di durata) tra cortometraggi, documentari e video musicali, tutti interamente autoprodotti dalla Villealfa Filmproductions (chiaro omaggio all’agente Lemmy Caution, missione Alphaville di Jean Luc Godard), casa di produzione fondata dallo stesso Aki e dal fratello Mika, insieme ad un manipolo di collaboratori ed attori che diventeranno poi, in seguito, i laconici protagonisti  bohémien  dei suoi film.
In tutti i suoi lavori, i voyeur cinefili più incalliti potranno sicuramente imbattersi in déjà vu cinematografici che ritengo troppo riduttivo chiamare citazioni: potranno finalmente ansimare lascivi guardando dal buco della serratura il minimalismo nipponico e a basso  costo del grande Ozu, la lenta digestione dell’irrequieto Luis Buñuel, il neorealismo italiano rivisitato in chiave pop art, l’amore per l’indimenticabile Robert Bresson, la passione sconfinata per la nouvelle vague francese, in particolare per Jean Luc Godard, ed una truculenta indigestione di b-movie americani. Come in un’orgia, tutti insieme… Già.

Per i feticisti amanti della letteratura, in particolare dei classici invece, si potrà finalmente annusare la biancheria di Dostoevskij (Delitto e castigo, 1986), o l’afrore corporeo e anticapitalistico di William Shakespeare (Amleto si mette in affari, 1987), il vetyver usato a Montparnasse da quel sognatore di Jacques Becker (Vita da bohème, 1992), oppure passare delle notti insonni e libertine fustigandosi anima e corpo a vicenda, con i vostri partner, sul concetto di fuga (Ariel, 1988 Calamari Union, 1985), inalando con voluttà  Michaux, Prévert e Baudelaire, “le cui ombre viaggiano ancora su questa terra”.
Se poi siete solamente dei sadici, o dei masochisti, o tutte e due assieme, non c’è di che preoccuparsi… ci penserà La fiammiferaia (1990) con la sua freddezza, o lo spietato assassino di Crime and Punishment (1986) a sollazzarvi! Se invece poi siete come me, e cioè degli inguaribili guardoni voyeur e feticisti con delle fruste in casa, fate molta attenzione, maneggiateli con cura questi film, perché Aki Kaurismäki… potrebbe diventare uno dei vostri registi preferiti!!

Ma andiamo sui personaggi, perché era lì che volevo arrivare, quelli che ho chiamato beautiful losers prendendo a prestito dall’amato Leonard Cohen. I personaggi di Kaurismäki sono tutti dei perdenti, uomini senza qualità destinati a una vita ai margini della società a causa della propria incapacità di aderirvi completamente e di comprenderne i meccanismi. L’unica loro vera consolazione rimane la musica, tanghi finnici e rock ironici costellano le colonne sonore dei film del regista, generando in essi una fortissima carica di impatto emotivo (link). Kaurismäki rifugge le icone e i simboli della contemporaneità restituendo piuttosto il ritratto di esistenze fuori sincrono, ricostruendo intorno ai suoi personaggi un mondo stralunato e straniante dipinto con geniali tratti retrò.
C’è una complicità che lega da sempre il regista nordeuropeo e i suoi personaggi, gli outsider che popolano le sue storie, gente all’antica in un mondo moderno. Alla disillusa consapevolezza di una sconfitta subita in partenza, si accompagna un pudore che preserva intatta la dignità e l’eleganza delle figure ogni volta che i drammi della vita si manifestano nella loro glaciale evidenza, un’ironia amara, spietata, sempre presente e un profondo senso della compassione che riflettono una lucidità politica e un rigore morale unici  nel cinema contemporaneo. E’ nei dialoghi dei suoi personaggi, scarni, esigui, e recitati rigorosamente con la tecnica della sottrazione e mai dell’accumulo dal punto di vista recitativo che si è sviluppato quel tipico linguaggio Kaurismäkiano, ribattezzato dalla critica francese”akilein”, una sorta di finlandese letterario, recitato meccanicamente, che sarà una caratteristica di tutta l’opera del regista. Fanno parte di un tipico romanticismo fuori luogo certe  dichiarazioni che stridono con la compostezza delle figure suscitando un sorriso smorzato, dolce-amaro:

L’amore è morto? L’amore non può morire. L’amore ci lascia. Noi muoriamo!

Verrò sicuro come la vecchiaia.

Le luci della macchina sono andate e i tuoi occhi sarebbero una gioia. Ho intenzione di navigare attraverso le stelle.

Poi, qualche giorno fa, io ed il mio amico Nando “Er Cicoria” (lo chiamo così perché va sempre in giro con un coltello affilato, ma non farebbe mai del male neanche a una mosca!), ci trovavamo sulla Tangenziale Est a bordo della mia automobile, in coda ad un semaforo nei pressi del Cimitero del Verano, quando in barba a quell’ignobile ordinanza del Comune di Roma di vietare la presenza degli extracomunitari  ai semafori che vendono fiori, accendini, fazzolettini e puliscono vetri, vedo spuntare lui… un sosia di Matti Pellonpää!

Attore e compagno di marciapiede di Aki Kaurismäki scomparso prematuramente anni fa e mai dimenticato né da me, né dal regista. Si avvicina timidamente alla mia automobile e mi fa: You are innocent when you dream? Tom Waits? Si riferiva chiaramente alla musica che girava nel mio lettore. Mio musica preferito – mi dice dai suoi baffoni mentre mi porge direttamente in mano un accendino di colore blu, io mentre lo ripagavo con un bel monetone da due euros dovevo avere sicuramente gli occhi strabuzzati ed un sorrisone ebete stampato sul volto, e lui, in men che non si dica, era già sul mio vetro armato di una spugna e di un tira acqua pulendolo perfettamente. Poi, si è staccato, mi ha sorriso, e con una dignità che molto raramente si vede in giro mi ha detto: Ora che il tuo vetro è pulito, i tuoi occhi potranno scrutare meglio gli abissi delle strade. L’ho seguito con la coda dell’occhio fino a quando è sparito dal mio campo visivo. Poi, dopo circa duecento metri, dallo specchietto retrovisore mi sono accorto che quel sorrisone ebete era rimasto stampato sul mio volto, intatto. Un sapore salato si è insinuato nella mia bocca semiaperta, un sapore molto salato, poi è diventato amaro, molto amaro.

Che hai fatto all’occhio? mi ha detto er Cicoria. Niente a Cicò… Deve esse stato un moscerino!!
Poi ho urlato: A Cicoria, a prossima vorta che volemo annà a beve quarcosa pijamo ‘na vespa!! Hai capito Cicò? Così armeno arivamo prima!!!

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2000/2009 Alcune ipotesi e conseguenti, vaghe, considerazioni

stamane temevo me lo chiedesse anche il fornaio! che pretendesse che gli snocciolassi una plausibile e veritiera playlist dei dischi del decennio: pena la mancata consegna del toscano insipido! evidentemente tutto ciò alberga solo e solamente nella mia mente, ma lei, da par suo, e assai sollecitata da stimoli esterni provenienti da ogni dove!
non c’è blog, sito, rivista o fetida pubblicazione che si astenga da questo giochetto apparentemente stupido e alquanto difficile: riassumere, condensare o rendere essenza un decennio musicale è impresa errata in termini, tarlata alle fondamenta. eppure non è passato uno solo di questi 3650 giorni senza che io pensassi alla musica, la masticassi, ne fossi vinto o eccitato, respinto o definitivamente arreso alla catarsi! una specie di inclinazione genetica la mia: più bisogno che vezzo, più vizio che virtù! e dieci anni sono lunghi, così lunghi che qualcuno potrebbe pure non arrivarci in fondo!
ma il virus si è annidato e la memoria ha cominciato a frullare: mi sono ritrovato a pensare a quanti e quali, a dei luoghi e degli istanti appiccicati a dei suoni, a volti e frammenti di tempo inscindibilmente legati ad un disco o ad una sola canzone. e sono riemersi come balsami salvifici dei nomi, delle copertine e tutte le elucubrazioni, ormai perdute, che ho costruito solitario e ramingo!
adotterò un vecchio rimedio della nonna, banale ed efficace come la saggezza: elencherò i miei dischi! quelli che sono ancora qui, quelli che ascolterò ancora nel 2023, quelli che ho condiviso e donato con chi mi ha donato e con me ha condiviso giorni e vita, quelli che costruiscono luoghi in cui mi rifugio certo che non verrò scovato, quelli che fanno rima con bellezza e quelli che nessuno potrà più togliermi!
non so quanti siano: comincio ad elencarli in ordine sparso e ad aggiungerli, come in parata, al panoptikum qui a fianco che per l’occasione si metterà a completa disposizione! di qui alla fine di questo 2009 li aggiungerò mano a mano che tornano alla memoria: spero sarà una maniera di concedermi scelte ponderate e pensieri lucidi! eventualmente li conterò poi, se importa. nessuna parola e nessun commento: soltanto i dischi!
si comincia…

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Josephine Foster Graphic As A Star

e alla fine eccola apparire, diafana ed eterea come un disagio onirico di E.A.Poe. Fabio mi aveva annunciato la sua evocazione londinese ed io me ne stavo da tempo acquattato nel bosco per scrutarne il passaggio! è la stessa Josephine Foster a narrare la genesi di questo disco: un lungo periodo passato in isolamento fra montagne spagnole, lontana dalla civiltà e dall’America natìa. ruscelli, greggi e campane del villaggio più prossimo a scandire i giorni. la chitarra, un registratore e pochi libri: fra questi una qualche edizione delle opere poetiche di Emily Dickinson. niente di più e niente di meno.
le deve essere parso assai normale iniziare ad intonare la lettura di quei fragili poemi vocalizzando, aggiungendo passaggi armonici e cadenze. poi la chitarra ha fatto il resto: nasce così una saga esile e minuta composta da 27 frammenti tratti dalle raccolte della consorella americana!
Graphic As A Star (Fire, 2009) è una pastorale in miniatura per voce, chitarra, armonica, crepitìi di focolare, corredo ornitologico vario e un solitario moscone impiccione! la solitudine che esplode senza fragore, la meditazione laica sull’essenziale agreste e il viaggio a ritroso a scavalcare i secoli. canzoni infinitesimali e scheletriche, ossi di seppia in gabbie di canarini assenti, acqueforti in tempera sbiadita: a volte necessitano di un giro armonico essenziale; altrove è bastante il canto presso il focolare che schiocca oppure è il mattino che si risveglia in una registrazione ambientale involontaria.
la voce di Josephine ha deciso da tempo di compiere un percorso arduo e solitario: ritrovare canoni e stilemi di una vocalità primordiale e materna, riprodurne meravigliosamente intonazioni e vocazioni celesti e (ri)portare tutto questo al centro esatto del songwriting di questo tempo che oramai ci è sfuggito irrimediabilmente. perché la domanda che mi pongo da fan inebetito e lievemente ottuso è questa: chi (altri) oggi è ancora in grado di concepire, pensare e realizzare dischi come questo? chi di gettare nel bel mezzo di questo canzoniere minimale una perla purissima e iridiscente come My Life Had Stood A Loaded Gun?

curiosando in una libreria polverosa ho cercato una vecchia edizione di poesie della Dickinson: la possedeva un diciottenne un po’ romantico e un po’ coglione, ma, a quanto pare, né del libro e neppure del giovinastro vi è rimasta più traccia e così sono finito in rete a farmi illuminare dalla completezza di un sito (italiano) dedicato ad Emily Dickinson: lì, chi vorrà, potrà ripercorrere la cernita che Josephine Foster ha fatto fra più i 1700 poemi che rappresentano il lascito prezioso della poetessa; cercare e trovare i passi con i quali ha deciso di tornare ad un’America arcaica ed intonsa!
la foto qui a fianco proviene dall’album di Fabio (per fortuna sempre lui), ed è stata carpita dal vivo a pochissimi sospiri dal pianoforte presso il Caffe Oto. lo voglio ringraziare per avermi mostrato quel profilo antico, l’eleganza di un albatros e la sua bellezza imprevista ed inconsueta.
mentre sto per gettarmi nell’ennesimo ascolto di questa delizia mi rendo conto lucidamente che questo canzoniere mi accompagnerà, da ora, ovunque andrò: è il tempo stesso ad esser stato aggirato da canzoni che al tempo non appartengono già più, per assenza o per indeterminatezza! e non mi è davvero difficile stabilire con certezza come questo lavoro rappresenti il Disco del Secolo – Ottocento!

Josephine Foster Graphic As A Star

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Bill Frisell Music for the Films of Buster Keaton: Go West

ricordo una lettura edificante (ed evocativa) a proposito di alcuni istanti della storia umana in cui l’eccellenza, la bellezza e la più pura elevazione spirituale ed intellettuale hanno avuto luogo. ma la mia memoria labile ha perduto autore e titolo del libro (pardon!). ricordo però la suggestione nel tentare di descrivere cosa avrebbe potuto aver luogo in una bottega toscana nella seconda metà del ‘200, quando un maestro di nome Cimabue dispensava consigli all’allievo che il mondo avrebbe poi conosciuto con il nome di Giotto; oppure poter spiare dentro quel laboratorio chimico agli albori del ‘900 quando due coniugi dal nome Curie cambiarono il corso della scienza e della storia; o poter essere un silenzioso ed invisibile ascoltatore dentro quella stanza in cui l’intervistatore François Truffaut poneva sagaci questioni cinematografiche ad un certo Alfred Hitchcock! veri e propri istanti di sublime eccellenza, consessi di genio e assemblee di intelligenza! li definirei circuiti virtuosi, riccioli di tempo sulla fronte dell’ingegno del genere umano!
anche questo incontro fra Bill Frisell e Buster Keaton potrebbe essere annoverato fra quelli citati sopra, se non fosse che la diacronia intercorsa conta ben 70 anni del secolo scorso, e, in realtà, i due non si sono proprio mai visti. ma ad ogni modo il chitarrista ha voluto incontrare l’arte di Keaton cimentandosi nella colonna sonora di Go West (1925), lungometraggio muto e bianco/nero per questioni di forza maggiore!
è nato così Music for the Films of Buster Keaton: Go West (Nonesuch, 1995), 24 composizioni originali ed autografe che Bill Frisell ha interpretato facendosi accompagnare da Kermit Driscoll (basso acustico ed elettrico) e da Joey Baron (batteria e percussioni). ricordo una visione di Go West, lontana nel mio tempo, accompagnata dal classico suono del piano (rag, bluesy) nella più ovvie delle colonne sonore che da sempre accompagnano il muto! in realtà non ho provato a sovrapporre questi suoni nuovi a quelle immagini già vedute, e non so neppure se lo si possa fare arbitrariamente o ci se debba affidare (ben più consapevolmente) all’acquisto del dvd che racchiude anche gli altri due cortometraggi The High Sign e One Week per i quali lo stesso Frisell ha inciso l’altro album gemello di questo!

approccio curioso quello di Frisell: elettrico, debitore di tanto suono (ahimè) fusion che imperversò negli ’80 eppure già orientato in nuce verso quello che sarà l’approccio del chitarrista negli anni a venire che conducono all’odierno. cominciano a farsi luce sprazzi di purissima americana, blues sottocutaneo, walking di basso e afflato folk! credo si trattasse, già allora, di giungere a quella materia che ha fatto grandi dischi come Nashville o il recente Disfarmer! gradi di mutazione dal jazz in avanti (e a ritroso) verso la conquista del west musicale, della tradizione e del suono primordiale della terra americana. niente di più idoneo dunque del medesimo viaggio slapstick compiuto da Buster Keaton verso le disavventure di un goffo cowboy: la scena della mungitura credo resti memorabile (in italiano fu tradotto con un banale Io e la Vacca)!
(ecco tutto ciò che di meglio ho trovato in rete: la musica qui è artificiosamente montata da Hoedown (from Rodeo) di Aaron Copland)

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si diceva dunque di questa assemblea di talenti, di questo felice connubio di tempo e originalità: dunque eccolo! il disco resta assai godibile anche senza la visione del film, come del resto il film è vissuto ben 70 anni senza la necessità di una nuova colonna sonora di Frisell! io sono felice di riproporla agli amanti dell’uno o dell’altro (o di entrambi: come il sottoscritto) e mi sobillo la domanda seguente: chissà oggi, dopo tutta la strada polverosa percorsa, come la inciderebbe Bill Frisell?

Bill Frisell Music for the Films of Buster Keaton: Go West

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Joe Henry Blood From Stars

mi ritrovo a scribacchiare su di un mac di fortuna: il mio sta facendo una specie di tagliando in una clinica assai specializzata! o forse sarebbe meglio dire che ho la fortuna di poter avere un mac sul quale scribacchiare e che il mio tornerà al più presto, fresco e lavato come il culo di un neonato! preambolo doveroso per dire che in questi giorni sto leggermente trascurando il blog, ma non riesco a fare altrettanto con la musica, e, come un cane (vizioso) che si morde la coda, torno immancabilmente ad aver voglia di scrivere (o annotare) di musica. e quindi siamo da capo!
in questi giorni sta crescendo inesorabilmente la statura di un disco che affastella un ascolto dietro l’altro! Joe Henry è uno di quei cavalli di razza che si attendono sulla ribalta del rettilineo finale, molti allibratori tergiversano sulle quote e sul giusto tempo per la scommessa definitiva che lo consacri nel gotha del songwriting americano. a dire il vero, alcune sgroppate di grande classe sarebbero già state più che bastanti (a parere di chi scrive) per ascrivere il suo talento fra quelli memorabili di outsider di grande classe, ma evidentemente, grosse attese (major economicamente avide) e piccole ribalte circoscritte costringono Joe Henry ad un limbo incastrato fra popolarità mainstream e gloria underground!
quando qualcuno realizza un disco come Scar (2001, link) non credo si debba continuare a “pretendere” saggi di dimistichezza con la penna e la chitarra: addirittura in quel disco splendeva il genio armolodico di Ornette Coleman, e poi Brian Blade (di cui si è già detto), Brad Meldhau e Marc Ribot! ogni istante di quel lavoro mescolava talento e riconoscenza (di chi lo ascoltava)! ma, evidentemente, gli esami non finiscono mai!

da qualche mese è in circolazione questa undicesima fatica del buon Joe Henry: Blood From Stars (Anti) è un disco eretto, integro, consapevole e monumentale nel suo suono dritto e incontrovertibile. ha la classica faccia di chi sa da dove viene e conosce a memoria la strada da percorrere: strada diversa che unisce tradizione americana e jazz procedendo a ritroso e trasversalmente. crooning e bluegrass si incontrano, New Orleans e la fidata (e inconfondibile) chitarra di Marc Ribot affrontano un gospel nero e la più languida torch song! c’è assai in questo disco, così tanto che si è corso il rischio che la produzione dello stesso autore deragliasse e faticasse a trattenere tutte quelle briglie, e invece il disco è coeso e uniforme a restituire un colore preciso che sta fra le tinte della copertina e le sfumature di un blu notte! a tessere ed ordire tutta questa preziosa materia ci pensa la voce di Joe Henry che nel tempo è cresciuta in spessore e pathos: voce che suona familiare (ogni volta mi chiedo vanamente a chi assomigli) e sempre più consapevole della propria espressività!
confesso candidamente che queste atmosfere da qualche tempo non rappresentano esattamente la mia tazza di thé, ma è proprio quando si viene spiazzati e convinti su territori che propriamente non ci appartengono che si dovrebbe riconoscere la statura e lo stupore della bellezza. probabilmente uno dei dischi più “adulti” ascoltati quest’anno: per orecchie esigenti, educate e definitivamente condannate ad ascoltare!

Joe Henry Blood From Stars
(link rimosso – come richiesto)

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Giorgio Conte Sfogliar Verze

credo sia capitato a molti di trovarsi accidentalmente a dover perdere tempo in una fila, in un ingorgo o in quelle puntuali trappole che ci tende la burocarazia: tempo espanso a perdere, istanti svuotati e pressoché inutili. può aiutare (ma non ovviare) avere per le mani qualcosa da leggere! rubare quel tempo al tempo è rovesciare la partita con un contropiede fulminante, volgere di segno l’istante che diventa subitaneamente, nella migliore delle ipotesi, assai gradevole!
negli ultimi giorni mi sono preoccupato che la tasca della mia giacca fosse piena di questo libricino esile e piacevole al tatto! l’ho fatto di proposito, con l’intenzione di aprire qualche pagina ad un semaforo rosso, in fila in farmacia o in attesa che venisse il mio turno!
Giorgio Conte Sfogliar Verze
(excelsior 1881, 2007) ha la leggerezza e l’agilità delle sue poche pagine, l’agilità di memorie soavi e l’azzurro che invoglia ad accomodarsi su quella sdraio!
una trentina di brevi racconti come altrettanti pasticcini su di un vassoio della memoria: la consistenza della panna, il soffice della meringa e la voluttuosità di un babà! Giorgio Conte non disdegna metafore culinarie e accostamenti gastronomici, e, se mi è concessa la battuta, apprezzerà che si possano appellare maddalene queste epifanie della memoria (poi magari ve la spiego!)
per acuire il senso di salivazione e il desìo di lettura è forse necessario essere nati in provincia, essere in giro (anagraficamente) da un po’ di tempo e nutrire quell’insana e malcurata curiosità per i fatti di una famiglia che tanto ha dato alla canzone italiana e (mi auguro io) al suo costume più bello! è assai elegante come Giorgio, per tutto il libro, nomini il fratello maggiore con lo stesso soprannome che ha sempre avuto per quella combriccola di amici astigiani: il “Canadese” (per via di quel cappotto con il colletto di opossum)!

delizia provinciale, amarcord piemontese pieno di “indescrivibile piacevolezza” (Le Monde de la musique): ci ha tenuto assai Giorgio Conte a mettere ad esergo del suo libro, questa frase dinamica e dolcissima, piena di quello spirito semplice che porta stampato in volto: “…e continuo la mia vita, al gusto di tutto…”
per non voler svelar nulla del libro, per non voler sciupare sorpresa e lettura e per rimandare discorsi più approfonditi sulla carriera cantautorale di Giorgio Conte, mi fermo qui, ringraziando l’umorismo e l’ironia che continua ad accompagnare questo giovanotto cresciutello. buona lettura!

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Pascal Comelade A Freak Serenade

e poi finisce che ci si abitua, come consuetudine, ci si assuefa (con l’accento su di una vocale a piacimento)! è un male diffuso e dilagante, apparentemente inarrestabile! si finisce con il galleggiare mediocri sopra un mare non proprio limpido e non proprio ben odorante, incuranti di opporre un argine all’innalzamento del livello. e non stanchi di andare alla deriva, per sordida ironia, si arriva ad inghiottire lo stesso mare in cui non si sprofonda! a bocconi, a cucchiaiate o a badilate! e così tutto va in m…. (i più ottimisti ci leggano: malora)!
evidentemente Pascal Comelade non ci sta! e sarà pure bene non riferirgli della recensione che ho appena terminato di leggere, che fa ancora più male perché letta da un pulpito che pensavo intoccato dalla marea di cui sopra. Pascal Comelade è un cane sciolto, mannaro per vocazione e randagio per scelta! testardo di un catalano abbarbicato nella sua Céret, ritirato e sfuggente alla ribalta e alla costretta popolarità: a quanto pare se ne frega della stagionalità delle uscite discografiche, della sua frequenza e della giusta tempistica! e questo disturba la mediocre stampa musicale incapace di seguire la parabola del genio irriverente!

e lui sforna ancora un disco e lo intitola A Freak Serenade (Because, 2009), e molta stampa sciocca e assuefatta si limita ad inanellare la sfilza delle ovvietà relative ai suoi strumenti giocattolo, al suo vaudeville dadaista e al suo gusto per cineserie e art brut musicale. come se fosse oramai consueto e normale tutto ciò che Pascal Comelade pensa, compone ed interpreta! è questo l’abbruttimento abitudinario a cui bisogna porre attenzione, la china discoscesa di mediocrità dalla quale è bene stare in guardia!

mi piace pensare che lo sdegno del catalano si concretizzi in quella Improperis Serenada che raggruma densa nel bel mezzo di questi 14 brani dai titoli iridescenti! morso di rabbia e sputo di sdegno, orazione spuria di maldicenze e anatemi sboccati: come un monaco in cancrena!
appellare queste sonorità come “musica-tappezzeria” o “brani da gustare all’ora del thé” denota una colpevole leggerezza ed una sbrigativa faciloneria. in questo, come in molti altri dischi di Comelade, alberga l’ingegno infantile allergico agli schemi e alle etichette, un suono da esperanto europeo, un poco autistico, e un poco spastico: di certo selvatico! e se la bestia si da alla macchia non ci si da la briga di seguirla!
eppure questo disco mi pare la colonna sonora di una navigazione in fuga dal mare puteolento, lontano dal logico e dal dovuto: legni di palcoscenico, tele di quinte e bandiera anarchica issata, le vele gonfie di venti che soffiano dal passato del vecchio continente e la chincaglieria del circo come tesoro!
Pascal Comelade non ci sta!
…e io sto con lui!

Pascal Comelade A Freak Serenade

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