panda bear "person pitch"

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si dissertava di epifanie dunque…

giusto il tempo di ragionarci un po’ su ed ecco giungerne un’altra inattesa e benvenuta. di epifanie intendo! per il modo in cui si è approssimata e più che altro per la maniera in cui è entrata! tralascerò i dettagli tecnici e critici che ognuno sa benissimo dove reperire oltre che qui e anche qui!

ciò che mi piace osservare ed annotare è come certi dischi trovino misteriosamente la strada maestra verso il luogo segreto dei nostri ascolti. quelli privati e intimi, quelli che si conservano gelosamente. come per questo panda bear. è bastato lasciar scorrere la prima traccia ed era già troppo tardi. non c’era proprio più niente da fare, quel suono aveva già raggiunto ed occupato lo spazio interiore dove i suoni vanno in loop e divengono necessari, ossessivi e insaziabili. e quando provi a comprendere pare già troppo tardi… mi son detto che forse aveva a che fare con i bpm, oppure con quel delay a manetta che pervade tutto il disco. probabile che ciascuno di noi vada in risonanza se giustamente sollecitato su lunghezze d’onda analoghe alle proprie, come le frequenze di un bioritmo. oppure sarà quella sensazione di essere dentro un mantra senza capo e neppure coda, come un muezzin che risponde alle sollecitazioni di un coro gregoriano e poi treni che scorrono, piccioni e echi che si allontanano, grida e automobili che sfrecciano. jesus & mary chain? mi sono chiesto… stone roses? forse… beach boys? eppure no, non li ho mai amati… non so! non mi so rispondere!

quello che so è che amo questi dischi liquidi, espansi e evanescenti fino a far perdere le loro tracce, dove non importa quale brano stia suonando e ancor meno quale sia il titolo, dischi da ascoltare in random+repeat per lasciarli invadere sadicamente una domenica piena di pioggia…

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1967

io nel 1967 non c’ero! non ero proprio nato! nonostante questo ci sono stato così tante volte che non ricordo neppure più. e ci tornerò, eccome! è inevitabile! tanta della musica che ho amato (che amo) e con la quale sono cresciuto è stata prodotta in quell’anno magico! solamente a tentare di elencare alcuni di quei dischi viene la vertigine… ci ho provato, in una mia personale visione della questione. una specie di celebrazione a quarant’anni dalla celeberrima summer of love!

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una sporca dozzina e ce ne sarebbero molti altri… in quell’anno esordivano grateful dead, van morrison (come solista), un tal david bowie e sly and the family stone. i byrds incidevano younger than yesterday, i cream disraeli gears e donovan mellow yellow! e poi chocolate whatchband, 13th floor elevators, electric prunes e country joe & the fish. their satanic majesties request non fu grandioso, ma gli stones c’erano. due mostri sacri del soul incidevano altrettanti capolavori: aretha franklin I never loved a man e otis redding dictionary of soul.

e poi, chi più ne ha…

bob dylan come al solito era cinque passi indietro e sette avanti… aveva licenziato l’anno prima blonde on blonde!

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2 degrees east/3 degrees west

ho tentato varie volte di approssimarmi al pulpito perchè mi pareva di aver finalmente trovato le parole giuste per spiegarmi e giustificarmi. come dire… come tentare di dire che quei gruppi li avevo solamente sentiti nominare, confusi in mezzo a molti altri in un’eco lontanissima. 1996 e dintorni, certo! ma poi ieri sera mi giunge gradito il dono di una compilation riguardante quel post e d’improvviso m’illumino! mi sovviene un’altra compilation. mi ricordo quando è successo e perchè, e soprattutto come… era una tdk! lì dentro c’era il motivo che mi permette di affermare che…. io negli anni ’90 non c’ero!

aprile 1990. parto con due amici alla volta di amsterdam. decido per tempo di preparare due compilations da ascoltare nella mia vecchia e gloriosa polo bianca! il jazz stava entrando a calci e strattoni nelle nostre vite. saccheggio la discografia in vinile di mio padre e mi cimento con il veccio rec+play+pause dei lettori analogici che furono. la prima delle due la intitolai msterd e sinceramente la ricordo poco, la seconda si intitolava 2 degrees east/3 degrees west dal titolo di un brano di john lewis del ’56. e quel brano c’era. e poi a memoria jitterburg waltz di dolphy, misterioso di monk, pithecanthropus erectus di mingus, mood indigo di ellington e cherokee di chet baker e altre che mi sfuggono perchè ho perso volutamente le tracce di quel nastro… ma c’era anche è soprattutto my favourite things di coltrane!

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non demmo tregua all’autoreverse. lasciammo che il nastro girasse e rigirasse come in preda ad incubi notturni. tornammo fisicamente da quel viaggio, ma il mio, ed il loro, destino di ragazzi scimmia del jazz fu per sempre compromesso. poi venne jimmy giuffre, marteen alteena, anthony braxton e le profonde oscurità di eric dolphy, vennero ascolti che si susseguivano come in una catena inscindibile. qualcuno di noi prese in seguito la via che conduce al brasile, un altro si diresse alla francia degli chansonniers e tutti insieme verso la grande madre Africa. e poi disseppellimenti e riscoperte, avanguardie e kitscherie, ma il rock no! stabilimmo che era morto e lo perdemmo. per questo la musica che esce in questo momento dalla compilation del pulpito mi appare bellissima e aliena.

l’altro giorno leggendo un’articolo sulla morte di lennon rimango colpito dall’illuminante provocazione dell’autore: “si è capito subito che gli anni ’80 sarebbero stati un decennio di merda: al loro inizio ammazzarono John Lennon!” i miei ’90 invece li farei partire da quel viaggio… poi ci fu caniggia fra giugno e luglio, a fine settembre uscì le nuvole di de andrè e il 27 ottobre moriva ugo tognazzi. il mattino dopo presi un aereo per londra.

ma poi son tornato…

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Duck Soup

i fratelli Marx mi hanno sempre fatto ridere, anche quando non capivo assolutamente niente delle battute geniali di Groucho. molto probabilmente potrei far risalire a loro la mia prima risata “intelligente”. ricordo una serata di fronte al televisore mentre a tavola c’erano ospiti e la noia era servita, meglio dunque allontare il piccolo e farlo tacere di fronte allo schermo. ma fortunatamente, o sfortunamente, trasmettevano La guerra lampo dei fratelli Marx (Duck Soup, 1933).


la scena dello specchio non la dimentico. una folgorazione e un’illuminazione. d’improvviso compresi la semplice complessità di certo umorismo, di una risata. molto tempo fu necessario per metterne a fuoco le dinamiche e a stabilirne le coordinate, ma il seme era piantato. quella scena è un crescendo incredibile di senso e circostanze. un livello segue e si sovrappone all’altro, e proprio quando sembra esaurita la carica potenziale della gag ecco che Groucho fa deragliare la logica della scena facendo saltare gli schemi e Harpo (dietro lo specchio) non è da meno… fino allo scambio delle posizioni e all’arrivo di Chico. semplicemente geniale!

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bill callahan

con qualche settimana di anticipo è sbocciato in rete Woke On A Whaleheart, come le primule nei prati e le giunchiglie nelle aiuole. drag city parla del 17 aprile, ma la primavera arriva poi quando pare a lei. non più Smog dunque, e questo si sapeva, ma nome e cognome, la faccia in prima linea e il cuore dall’altra parte della staccionata. l’attesa, almeno la mia, c’era eccome e nessun presagio o anticipazione avrebbe potuto rovinarmi l’attimo preciso in cui il cd viene inghiottito misteriosamente dal lettore e si riparte di nuovo. 9 brani, forse pochi, oppure no, una copertina talmente brutta da poter pure piacere e di nuovo quella voce benedetta…

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credo che una recensione preveda un mio parere del quale non posso garantire l’efficacia, perchè questa è più un’espiazione, il bisogno di annotare confusamente delle impressioni (tante), di scaricare una mia tensione che si è creata col sovrapporsi degli ascolti. e dunque il pianoforte e gli archi, i violini, una batteria più presente rispetto al passato e la fida elettrica di Pete Denton, la voce “sacra” di Deani Pugh-Flemmings a fare da contraltare gospel a quella secolare di Callahan, e poi leggiadri arrangiamenti di Neil Michael Hagerty. non mi cimento nello sforzo di stabilire un genere, una di quelle etichette dalle quali il nostro sfuggirebbe immediatamente per inquietudine e indolenza. bill callahan assomiglia oramai solo a se stesso e non credo potrà sfuggirsi. nel presepio fanno bella mostre le figurine di chris rea, il lou reed inconsistente dei primi ’80, lee hazlewood e bowie (diamond dancer) e poi c’è un howe gelb un po’ incazzato che telefona al suo legale per sapere se si può parlare di plagio del suo ‘sno angel! il poster sullo sfondo raffigura un paesaggio da west coast al tramonto… di quel kitsch che presto o tardi tornerà in voga… e c’è odore di salsedine e voglia di abbassare il finestrino e seguirne la scia, alzare il volume ancora un po’ e ripartire. mi sa che il ragazzo sia innamorato e guai a chi non lo è.

adesso è davvero primavera…

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plague songs

mi piace imbattermi nei dischi casualmente, distrattamente, come se non fosse necessario, facendo reciprocamente finta di niente. qualche giorno fa ascolto dalla stanza sbagliata radio3 (una divinità a vostra scelta la benedica), talmente lontano da sentirla male, ma non così male da non accorgermi che una voce mi stava catturando. dunque accorro proprio mentre il brano sfuma e lo speaker mi palesa questo nome: the tiger lillies. carneade! lo annotto e torno sulla rete delle meraviglie. trovo un sito, molte informazioni in più e il nome del gruppo associato a nomi a me ben più noti.

plague songs è un una compilation, ma anche un concept. è un’opera sulle bibliche piaghe d’egitto del libro dell’esodo. un lavoro commissionato dall’artangel, in occasione dell’evento The Margate Exodus, svoltosi lo scorso 30 settembre, durante il quale è stato ricostruito nella cittadina di Margate, presso il lungomare della North Kent Coast, il viaggio degli ebrei verso l’Egitto.

ma soprattutto è l’occasione di ascoltare brani originali scritti da nomi come brian eno, robert wyatt, cody chesnutt, laurie anderson, scott walker, king creosote e rufus wainwright. e poi the tiger lillies in una ballata che farebbe impallidire anthony e tutti i suoi johnsons! 10 piaghe e dieci brani… a dire il vero c’è un brano che sfiora l’orribile e non mi capacito della sua presenza (Imogen Heap con Glittering Cloud), ma forse ha a che fare con le piaghe, che non debbono proprio essere delle carezze.

cos’altro… il consiglio di procurarselo, a costo di sfidare le cavallette!

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for the other half of the sky…

My skin is black
My arms are long
My hair is wooly
My back is strong
Strong enough to take the pain
It’s been inflicted again and again
What do they call me
My name is aunt sarah
My name is aunt sarah

My skin is yellow
My hair is long
Between two worlds
I do belong
My father was rich and white
He forced my mother late one night
What do they call me
My name is siffronia
My name is siffronia

 

My skin is tan
My hairs alright, it’s fine
My hips invite you
And my lips are like wine
Whose little girl am I?
Well yours if you have some money to buy
What do they call me
My name is sweet thing
My name is sweet thing

 

My skin is brown
And my manner is tough
I’ll kill the first mother I see
‘Cos my life has been too rough
I’m awfully bitter these days
Because my parents were slaves
What do they call me
My name is peaches

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Nina Simone Four Women, live al Festival di Antibes nel 1965

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badubadù…

…faceva così il motivetto che Franco Godi aveva composto per accompagnare le avventure di quella sagoma che portava il nome di La Linea. chi ha qualche anno in più e si ricorda di Carosello e della Lagostina, non l’ho avrà certo dimenticata. era animazione al grado zero di complessità. un piano fisso, due dimensioni, due colori per creare il contrasto e tutta la fantasia che ci può stare dentro… ma c’era anche una mano, una mano destra, reale e straniante che compariva ad interagire con il suo personaggio e a dialogare muta con le imprecazioni spesso incazzose della sua creatura. quella mano era di Osvaldo Cavandoli che da qualche giorno ha deciso di andarsene, alla tenera età di 87 anni. Osvaldo Cavandoli era nato sulle rive del Garda ed era divenuto milanese d’adozione, si narra che quel personaggio fosse un specie di alter ego, qualcosa di autobiografico dal nasone pronunciato e dal carattere collerico. aveva partecipato insieme a Pagot, nel ’49, alla creazione del primo cartone animato italiano I Fratelli Dinamite, e successivamente, nel ’69, crea la sua Linea. si era sempre lamentato del fatto che il suo personaggio, così sfuggente, fosse invece rimasto intrappolato e legato a quello spot televisivo, con un meccanismo allora imprevedibile. ma aveva continuato a disegnarlo creando una serie progressiva di corti, numerati, come qualcosa di seriale che seriale non poteva essere. approfondendo sulla rete ho scoperto anche che aveva creato anche la Mucca Carolina, e non posso che essergli grato e ricordarlo così…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=yBEA45P4knw&mode=related&search=]

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pink moon

chi ha saputo guardare la luna di questa notte avrà visto ciò che voleva vedere. il fenomeno astronomico raro e spettacolare, l’adombrarsi e il disvelarsi della pallida selene, i segni inequiocabili della presenza di qualcosa di più grande di noi, il suo colore che mutava al rosso. per me era semplicemente, ancora una volta, pink moon.

una volta ancora e una volta di più, oggi che l’interesse verso Nick Drake sembra trovare nuove forme, che rinnovate energie producono sforzi per farne conoscere la figura e l’opera. attendiamo per la primavera inoltrata la pubblicazione di Family Tree, un cofanetto di incisioni precedenti il periodo island, i famosi bootleg registrati nella casa di Tanworth-in-Arden. verranno riportati alle velocità originali, ripuliti, rieditati e prodotti da John Wood. mentre difficilmente vedremo nei nostri cinema il documentario A SKIN TOO FEW The days of Nick Drake, che il regista Jeroen Berkvens presenterà fra due settimane al SXSW Music & Film Festival 2007.

YouTube ancora una volta ci è vicina…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=RPM9uRZ3tN0]

Saw it written and I saw it say
Pink moon is on its way
And none of you stand so tall
Pink moon gonna get you all
It’s a pink moon

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=wSK6jpb5ObQ&mode=related&search=]

I saw it written and I saw it say
Pink moon is on its way
And none of you stand so tall
Pink moon gonna get you all
Yes, a pink moon

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=lxth2FtzUwo]

non vorrei aggiungere altro perchè so il percorso intimo che le canzoni di Nick Drake percorrono nella vita di chi lo ama, e ciascuno ama a modo proprio, ma sono sempre incuriosito dal modo in cui ciascuno di noi lo ha scoperto, quando la prima volta che lo ha incontrato… per me fu nel giugno caldo di troppi anni fa, quando mi decisi ad acquistare un vinile che si intitolava Heaven in a wild flower: an exploration of Nick Drake, stanco di leggere nelle riviste musicali di queste misteriose influenze “drakiane” di cui non comprendevo il significato. ricordo che abbassai la puntina, e iniziò Fruit Tree, e nulla non fu più come prima…

“Vi consiglio di ascoltare Nick Drake. Potrebbe cambiare la vostra vita; certamente ha cambiato la mia.”

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…dal teuf-teuf al boom-ciak!

ancora ettore petrolini, ancora ritorno sull’idea relativa alle avanguardie del primo ‘900, alla loro carica inespressa di modernità. semi di follia gettati sul divenire di un secolo a perdifiato, a rotta di collo, verso l’orizzonte sin troppo ampio di una tecnologia che sarebbe stata e di umanità che non fu!

matisse, kokoschka, schonberg, berg e webern, traki, boccioni, majakovskij e pound… e petrolini!

nel 1915, ispirandosi al pupazzo del corriere dei piccoli, petrolini da vita al personaggio di Fortunello. a questo personaggio fa cantare una canzone insulsa e ossessiva, ossessionata dalle rime e perseguitata da un ritmo implicito e inespresso. ascoltata oggi è impossibile non associarla a quello che noi, 70 anni più tardi, abbiamo chiamato rap! sembra quasi di ascoltare in sottofondo il classico beat di rullante e hi-hat, quel boom-ciak giunto con colpevole ritardo…

[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=dwm1HCHonjI]

“…col suo ritmo meccanico e motoristico, col suo teuf-teuf martellante all’infinito assurdità e rime grottesche, scava dentro il pubblico tunnel spiralici di stupore e di allegria illogica e inesplicabile” (Filippo Tommaso Marinetti a proposito di Fortunello)

 

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